Capitolo sei

I tavoli della Casa Babylón erano tutti occupati, quella sera. Le voci dei clienti si alzavano per farsi udire, al di sopra dell’intenso brusio. Le spezie piccanti bruciavano le gole e la birra andava giù nel piacevole tentativo di spegnerle. Paco ascoltava Rey fissandolo con attenzione, per cogliere le sue parole anche solo dal movimento delle labbra, in mezzo a quel frastuono.
– Non sto dicendo che serva a qualcosa, ma è un tentativo che devo fare – ribatté Rey, versandosi altra birra.
– Se anche si lasciasse convincere a farlo, pensi che Consuelo gli darebbe retta? – commentò Paco, con ironia.
– Spero che abbia più fortuna di me.
– Ti è proprio così indispensabile?
Rey sbuffò, corrugando le sopracciglia scure.
– Consuelo mi serve. È l’unica vice decente che abbia mai avuto. Non capisco cosa le sia venuto in mente di voler tornare a Madrid.
– Non far finta di non capire. Da quando è finita la sua storia con Damian, qui non si sente più a suo agio.
– Non è così che si affrontano queste cose. Se si dovesse fare un trasloco ogni volta che un amore finisce…
– Il problema è che non è finito il suo, si è spento quello di Damian.
– Lo so. Le passerà. Prima o poi, le passerà.
– Ma intanto le capita d’incontrarlo per la strada, in compagnia di quella tizia che ha preso il suo posto.
L’espressione di Rey si fece ostinata.
– Paco, non voglio che se ne vada. Dovrà guarire restando qui.
– Sei davvero cocciuto – commentò Paco, ridendo.
– Lo so – ammise Rey, dando fondo al boccale.

 

Consuelo mise giù il telefono. Diego le aveva consigliato di riflettere bene su quello che faceva. A Madrid non c’era posto per lei; avrebbe dovuto ricominciare tutto da capo. A Burgos, invece, era molto stimata e presto avrebbe potuto ricevere una promozione. E poi aveva aggiunto:
– Mia piccola guerriera, non ti riconosco più. Pensavo che non fossi il tipo da arrenderti.
Consuelo si era sentita punta nell’orgoglio. È vero. Non sono una che si arrende. Sono una che combatte. So uccidere un uomo in ventisette modi diversi. E se questo non basta…

Sulla scrivania di palissandro era appoggiata una pistola antica. La canna d’acciaio era più lunga di una mano, finemente cesellata. Il calcio di legno era intarsiato di madreperla e filamenti d’argento. Era molto elegante. L’uomo con la testa reclinata sulla scrivania aveva un buco che gli ornava la tempia. Il sangue gocciolato dalla ferita dipingeva una stria di color rosso porpora scuro, fino al mento, e da lì era colato sul ripiano a formare un minuscolo lago tranquillo. Consuelo rabbrividì. Rey girò intorno alla scrivania e cercò di leggere il biglietto che s’intravedeva sotto il braccio dell’uomo.
– Sarà meglio non toccare nulla e aspettare Pérez e Anson.
– Credi che si sia ucciso con quella? – chiese Consuelo, dubbiosa.
– Per far sparare quel giocattolo bisognerebbe tornare indietro nel tempo. Non avevi detto che eri un’esperta di armi?
– Sì, ma quelle dei secoli scorsi non erano contemplate dal mio programma di addestramento.
– Poco male. La balistica ci dirà che tipo di arma l’ha ucciso.
Alfonso Traverso y Colon de Carvajal, duca di Najera, aveva interrotto il suo viaggio terreno prematuramente, lasciando in sospeso diversi appuntamenti. L’agenda di pelle color tabacco, aperta sulla scrivania alla pagina del 15 maggio, ne mostrava già due cui non avrebbe potuto presentarsi.
– Non toccare niente, Torres, altrimenti Anson ci sbrana.
– Stavo solo guardando.
– Torneremo quando ci daranno il via libera. Intanto possiamo dare un’occhiata nelle altre stanze.
– Guarda quella bacheca con le pistole, capo. Ne manca una.
– Dev’essere quella sulla scrivania.
– E hai visto là dietro? C’è l’alone di un quadro, sul muro, ma il quadro non c’è.
Rey girò attorno alla scrivania e andò a osservare da vicino.
– C’è anche un buco nella parete, dov’era conficcato il chiodo.
Consuelo si avvicinò facendo un giro molto largo, guardando a terra in cerca del chiodo caduto, finché non lo trovò.
– Eccolo! Ci metto un segno, non lo tocco, non preoccuparti.
– Probabilmente il quadro è stato rubato.
– Qualcuno si è presentato con una scusa qualsiasi, ha chiesto di vedere la pistola per distrarre il duca e quando gli è stato vicino, ne ha approfittato per sparargli e portarsi via il quadro. Doveva essere di grande valore. Andiamo a vedere nelle altre stanze. Forse non è l’unico oggetto trafugato.
– Sicuramente era assicurato. Dobbiamo trovare l’assicuratore e farci dare una lista.
Nelle altre stanze era tutto in ordine. La casa del duca era piena di oggetti che sembravano di grande valore. C’erano molti pezzi di antiquariato, compresi alcuni bei mobili.
– Io non me ne intendo, ma mi sembra che di cose da rubare ce ne fossero parecchie – commentò Consuelo.
– Evidentemente si tratta di un furto su commissione. L’assassino ha preso solo quello che gli interessava.
Poi arrivarono Pérez e Anson, quasi contemporaneamente, e Rey preferì sloggiare.

 

 

Il mattino seguente, Consuelo accolse Rey con una buona notizia.
– Capo, ho la lista dell’assicurazione. Ci sono soltanto due quadri. Pensi che possiamo andare a controllare? Mi hanno mandato le foto via mail.
– Sì, Anson mi ha detto che possiamo entrare, a patto che ci mettiamo le tute e respiriamo con moderazione.
– Devono tornarci?
– Devono sempre tornarci.
– Guido io.
– Naturalmente, tanto io non so neppure se ricordo come si fa.
Una volta in casa del duca, si diressero direttamente nella grande sala, dov’era esposta la maggior parte dei quadri. Entrambe le opere assicurate erano appese al loro posto.
– Se non era assicurato, non doveva possedere un grande valore, ti pare?
– Già. Ma dobbiamo scoprire che cosa è sparito. Chissà se il duca si faceva mai fotografare in casa?
– Visto che siamo qui, possiamo ficcare il naso in giro.
Rey e Consuelo si separarono, cercando album di foto nelle librerie, dentro i mobili e nei cassetti, finché Rey non la chiamò.
– Trovato!
– Fammi vedere.
– Hai i guanti puliti? – le chiese Rey, con ironia.
– Dai, non rompere!
Sfogliarono la bellezza di quattro album, prima di trovare qualcosa.
– Eccolo.
– Ma non è un quadro! Sembra un certificato di laurea o qualcosa del genere.
– Questa bisogna portarla a Fernando Gil. Lui è un mago con le foto.

Alfonso Traverso y Colon de Carvajal, duca di Najera, Cavaliere dell’Ordine Dalcassiano della Mercede. Così diceva la pergamena appesa al muro dietro la scrivania di palissandro, sulla cui poltrona sedeva sorridente il duca in questione.
– Cosa diavolo se ne faranno di quell’attestazione?
– Non ne ho la più pallida idea – rispose Rey.
– Io quest’Ordine non l’ho mai sentito nominare.
– Nemmeno io.
– Vado a cercarlo su internet, là si trova tutto.
Consuelo continuò a borbottare nervosamente per un pezzo, poi sbuffò, volgendo lo sguardo esasperato su Delgado.
– Non c’è. Su internet non c’è – lo informò con un tono quasi scandalizzato.
– Impossibile, – disse Rey – cerca meglio.
– Ti dico che non esiste.
– Fatti aiutare da Gil.
Consuelo uscì dalla stanza a passo di carica, borbottando come una pentola in ebollizione. Delgado si passò una mano sulla fronte. A volte Consuelo era insopportabile, ma non voleva fare a meno di lei. Sperò che Diego avesse fatto un buon lavoro. Se Torres avesse smesso di parlargli del trasferimento, l’avrebbe ringraziato. Forse, per Natale, gli avrebbe potuto mandare un prosciutto. Consuelo tornò dopo un quarto d’ora con la faccia dei giorni di tempesta.
– Su internet non c’è.
– Fernando ti ha dato qualche suggerimento?
– Dice che se qualcuno ne sa qualcosa, si trova al Centro di Studi Araldici.
– Allora andiamoci.
– È a Madrid.
Delgado provò un senso di panico, insieme con una profonda contrarietà. In quel preciso momento, Madrid era l’ultimo posto al mondo dove avrebbe voluto mandarla.
– Facciamo così: visto che tanto siamo bloccati, finché non abbiamo i primi risultati, ci faccio un salto io. Tu segui la situazione qui. Torna a fare un bel sopralluogo approfondito, fatti accompagnare da Gil. Meglio vedere le cose con i propri occhi, che limitarsi a leggere rapporti.
– Come vuoi, capo.
– Bene. Appena sai qualcosa dalla balistica, dalla scientifica o dal medico legale, mi fai sapere.
– Agli ordini, capo.
 
Delgado approfittò della sua trasferta per vedere Diego Fidalgo.
– Che hai combinato? Quanto sei dimagrito!
– I mali del cuore si riflettono sulla pancia, a volte. Ma sto cercando di recuperare. Consuelo si è convinta? – gli chiese, mentre si sedevano a un tavolo del Diverxo, dove si erano dati appuntamento.
– Forse è troppo indaffarata per pensarci, ora. Spero che se ne dimentichi in fretta. Vedremo.
– Mi auguro che le mie bugie siano servite a qualcosa. Comunque, mi devi un favore.
Delgado lo guardò con espressione accigliata.
– Non c’è bisogno che me lo ricordi.
– E… un semplice grazie?
– Sì, grazie.
– Prima che arrivi il cameriere, ti conviene scegliere se vuoi il menù da sette, nove o dodici portate.
– Cosa? Sei impazzito? Dove mi hai portato?
– Mio caro, quando ti alzerai da questa tavola, mi dirai che non hai mai mangiato niente di più delizioso in tutta la tua vita. Fidati. Qui, i menù degustazione sono paradisiaci, ma il vino si paga a parte.
– Io bevo solo birra, Pacifico Clara, o al massimo la XX.
– Per me va bene. Allora? Sette, nove o dodici?
– Joder! Con sette scoppierò.
– Non ci sperare... Beh, io vado sulle dodici.
– Non avevo dubbi, se vuoi rifarti una pancia rispettabile.
– E adesso dimmi cosa ti porta da queste parti.
– Il Centro Studi Araldici.
Diego gli lanciò uno sguardo sorpreso.
Rey gli raccontò del nuovo caso in cui si erano imbattuti.
– Ti accompagno. Sono proprio curioso. Che altro sai della vittima?
– Solo il nome, se me lo ricordo bene: Alfonso Traverso y Colon de Carvajal, duca di Najera.
– Cazzo! La nobiltà ti starà addosso presto, vedrai.
– Perché, esiste ancora?
– Esiste, anche se ognuno si fa tranquillamente i cazzi suoi e resta mimetizzato come un camaleonte.
– A proposito, come sta la tua iguana?
– Kiko sta benissimo, grazie. Le ho costruito un bel terrario, grande quasi come quello che aveva da Oscar Mayor. Gli hanno dato l’ergastolo, lo sapevi?
– A Kiko?
– A Mayor, spiritoso…
– Ma è vero che stavate insieme?
– Vero. Purtroppo. La più grossa cazzata della mia vita – ammise con un sospiro di rammarico.
– Ti consola prenderti cura dell’iguana?
– Per niente. Purtroppo mi fa pensare sempre a lui. A volte credo che la soluzione migliore sarebbe quella di disfarmene. Non ti andrebbe di prenderlo tu?
– Io? Per carità! Pensa a qualcun altro. Paco mi sbatterebbe fuori di casa, se mi presentassi con un dinosauro in miniatura.
– Se Paco ti ama, lo accetterà.
L’arrivo del cameriere, con la prima portata, interruppe l’assurda conversazione. Rey non aveva mai considerato tra le sue priorità quella di convivere con un’iguana.

 

 

L’Ordine Dalcassiano della Mercede non era tra gli Ordini riconosciuti e legittimi. Il curatore dell’archivio ne era assolutamente sicuro. Però il suo sguardo glauco si perse nel vuoto, come a rincorrere un’idea lontana, quasi inafferrabile. Delgado e Fidalgo aspettarono in fiducioso silenzio che l’uomo scendesse dalle nuvole per tornare a rivolgere su di loro l’attenzione che meritavano.
– Credo di averne sentito parlare a proposito di Violeta Estela Julia Ena di Battenberg.
– E chi è? – domandò Rey.
– La nonna del nostro attuale re, a sua volta regina di Spagna dal 1906.
– Ah, la regina Violeta Estela, ma sì. E di lei, che cosa ci sa dire?
L’archivista capo andò a prendere un grosso volume, lo aprì davanti a loro e iniziò a raccontare una lunga storia piena di nomi altisonanti e di date, fino a giungere all’esilio dei due regnanti, nel 1931. Da allora, Alfredo XIII e Violeta Estela vissero in Francia e in Italia, poi si separarono. Violeta Estela tornò a vivere nel Regno Unito, ma anche da lì fu scacciata allo scoppio della seconda guerra mondiale, così si comprò un castello vicino a Losanna, la Vieille du Lac, e lì si ritirò.
– Se volete notizie più approfondite, credo che dovreste andare là.
– A Losanna?
– Esatto.
– Le siamo grati per il tempo che ci ha dedicato – disse Delgado, congedandosi.
Una volta fuori dall’antico palazzo, gravato dall’odore polveroso degli innumerevoli volumi, Rey fece un sospiro di sollievo.
– Ci hai capito qualcosa? – gli domandò Diego.
– Solo che il vecchio re metteva le corna alla regina e lei un bel giorno s’è stancata e l’ha mollato. Se vogliamo capire cosa c’entra l’Ordine Dalcassiano della Mercede, dobbiamo andare a Losanna.
– Non ci posso credere. Sguinzaglierò i miei ricercatori.
– Io ho già messo al lavoro i miei, ma non hanno trovato niente.
– Ma è proprio necessario sapere che cosa sia quest’Ordine del cazzo, per trovare l’assassino del duca Alfonso Traverso ecc. ecc.?
– Probabilmente no, però potrebbe aiutarci interrogare qualcuno di quei cavalieri, se esistono. Ma c’è anche la possibilità che sia tutta un’invenzione della nostra vittima, per fare un po’ di scena, e in tal caso non troveremo un bel niente. A quanto pare si occupava di antiquariato. Si sa, quella è gente strana.
– Già. Sai che mi è venuta fame?
– In effetti erano dodici portate minuscole. Ti posso capire.
– Mi sono preso il giorno libero. Vieni da me, così ti faccio salutare Kiko e ci prepariamo un sontuoso spuntino. Delgado non seppe declinare l’offerta.

Consuelo entrò nello studio del duca, bardata come richiesto da Anson, in compagnia di Fernando Gil. Il laghetto di sangue sulla scrivania non era stato ripulito e si era rappreso trasformandosi in una crosta nerastra, piuttosto repellente. Fernando si aggirò nello studio senza osare toccare nulla. La cuffia gli copriva in maniera ridicola i folti capelli biondi, che tentavano di filarsela dai bordi elastici. Consuelo incontrò il suo sguardo blu.
– Secondo te che diavolo voleva dire il messaggio che c’era sulla scrivania, Per il Re? – le domandò Gil.
– Anson dice che non l’ha scritto lui. La sua calligrafia non corrisponde a quella del biglietto. Deve averlo lasciato l’assassino.
– E adesso che cosa stiamo cercando? – disse, avvicinandosi all’ampia parete rivestita di libri.
– Che il cielo mi fulmini, se lo so.
– Magari qui c’è qualcosa su questo misterioso Ordine Dalcassiano.
– Sarebbe molto utile. Se potessimo almeno sapere di che cosa si tratta, forse capiremmo perché l’hanno rubato…
Consuelo aprì i cassetti della scrivania. Non c’era niente d’interessante. Sfogliò l’elegante agenda di pelle sopra il piano di palissandro, domandandosi come mai la scientifica non l’avesse già acquisita. C’erano pochi appuntamenti, nessuno per il giorno dell’omicidio. Qualche annotazione incomprensibile qua e là. Una foto tra le pagine: ritraeva un elegante levriero afgano dal folto pelame bianco. Consuelo voltò la foto. Sul retro c’era scritto un messaggio: “Anche lei si ricorda di te. Quando vieni a trovarla? Michelle”. Era datato 15 aprile. Consuelo tornò a guardare la foto. Il cane era ritratto in una bella giornata di sole, su un prato fiorito. Alle sue spalle c’era una grande villa dall’aspetto antico, immersa nel verde. Era un bel posto. La voce suadente di Fernando Gil la sorprese a distanza molto ravvicinata. A dieci centimetri dal suo orecchio, sussurrò:
– Consuelo, se resti a meditare venti minuti su ogni cosa che vedi, ci facciamo notte.
– Sì, hai ragione – disse, mostrando un lieve imbarazzo. – Questa foto e l’agenda ci sarebbero utili. Chiedi ad Anson se possiamo portarle via.
Gil si mise ad armeggiare con il suo cellulare. Poco dopo fornì la risposta.
– No. Hanno in programma di venire nel pomeriggio. Quando avranno finito, ce le manderanno in commissariato.
– D’accordo – si rassegnò Consuelo, con un sospiro.
Gil perlustrò la libreria, mentre Torres esaminava ogni angolo dello studio.
– Hai trovato qualche libro interessante? – gli domandò.
– Non mi pare. Il fatto è che sono abituato a sapere esattamente cosa sto cercando.
– In questo caso, qualunque cosa che possa aiutarci.
– Della pistola antica si sa niente?
– È una pistola di Brunswick del XVII secolo. Pare che facesse parte della sua collezione. In questa bacheca ne manca una, vedi? L’orma sul velluto ha proprio la stessa forma.
– Perché se la sarà portata sulla scrivania?
– Chissà? Non certo per sparare. Forse doveva mostrarla a un altro collezionista. Invece, chi l’ha ucciso, ha usato una più moderna 7,65.
– Ma Delgado che fine ha fatto?
– Si è preso una piccola vacanza. C’è qualcosa che lo trattiene a Madrid. Forse ha trovato una pista, ma mi ha detto che è un’idea molto vaga. Sta cercando di approfondire alla Biblioteca nazionale.
Consuelo ripensò alla telefonata. Aveva sentito da lontano la voce di Diego che la salutava. Rey le aveva detto che sarebbe stato ospite di Fidalgo per un paio di giorni, finché non avesse trovato notizie su quel fantomatico Ordine. Se gli fosse andata male, avrebbero semplicemente proseguito le indagini nelle altre direzioni.

 

 

Rey osservò Kiko arrampicato sulla spalla di Diego.
– Ha bei colori – commentò.
– Sì, è davvero bello. Portatelo via, Rey. Per favore.
– E che ne farai del terrario, se Kiko non ci sarà più?
– Me lo venderò e al suo posto ci metterò una panca multifunzione da palestra.
– Hai deciso di mantenerti in forma, ora che sei dimagrito?
– Non apprezzi? Mi preferivi con la pancia?
– Sembravi molto soddisfatto di averla.
– Bugia. Pietosa bugia. Ma adesso che l’autocommiserazione ha smesso di perseguitarmi, mi guardo allo specchio e mi piaccio. Non trovi anche tu che così ho qualche chance in più di trovare compagnia?
– Questo non dipende certo dall’avere o no una bella pancia.
– Tu sì che mi capisci, peccato che sei già impegnato – scherzò Diego.
– Per non parlare del fatto che io vivo a Burgos, e tu a Madrid.
– Ma adesso siamo qui tutti e due.
Rey sorrise, inarcando un sopracciglio interrogativamente. Dopo cena, Diego lo portò nell’unica camera da letto, spiegandogli che dovevano sistemarla per la notte.
– Aiutami a separare le reti.
– Lascia perdere. È solo per una notte, non ne vale la pena. Se poi ti dà fastidio, posso dormire sul divano.
– Nessun fastidio, è che io dormo nudo.
– Anch’io. Ma basterà tenerci ognuno sul suo lato.
– Naturalmente.

Non che gli fosse sfuggito lo sguardo con cui Diego l’aveva radiografato, prima d’infilarsi sotto le lenzuola, ma non si aspettava di certo che lui gli insinuasse la lingua in un orecchio mentre gli diceva buonanotte. Rey si voltò a guardarlo per dirgli di piantarla, ma non fece in tempo, perché si ritrovò la bocca tappata da quella di Diego e le sue mani, che sembravano ben più di due, a perlustrargli il corpo. Doveva ammettere che non era una sensazione spiacevole. Diego si muoveva in fretta, come se temesse di essere bloccato sul più bello. Sembrava affamato. Benché avesse mani grandi e forti, le sue carezze sapevano alternare delicatezza a ruvida impazienza. La bocca di Diego lasciò a malincuore le sue labbra per passare ad assaggiare il resto del corpo. Mentre le attenzioni di Diego lo riempivano di brividi, Rey pensò a Paco solo per un brevissimo istante, ma l’ombra del rimorso non si frappose tra lui e Diego. Era arrivato troppo oltre. Anche le sue mani avevano iniziato a muoversi, la sua bocca a mordere con delicatezza, la sua lingua ad assaggiare. Diego si distese su di lui, baciandolo e accarezzandolo, mentre i loro sessi si sfioravano. Dopo poco, Diego fremette e si spostò, affondando la faccia nel cuscino. I muscoli della larga schiena sussultarono sotto le mani, le labbra e i denti di Rey, che scesero sempre più in basso, fino a prendersi cura dei suoi glutei. Rey pensò che Diego era proprio un bel toro, mentre affondava la lingua nel solco ben marcato, tra quei due splendidi meloni maturi.
– Quanto mi mancava! – sospirò Diego, quando Rey si decise a entrare con lentezza nel suo bel culo tondo.
– Vuoi dire che da quando…
– Sì, dopo Oscar non ho più… Dacci dentro, ti prego…
– Non essere ingordo. La pazienza ha i suoi vantaggi – disse Rey, uscendo da lui.
– Hai deciso di farmi morire? Torna dentro!
– Calma…
– Sei un maledetto sadico!
Rey riprese a mordere le sue natiche sode, aggrappandosi alla schiena con le dita. Tornò sull’orifizio con la lingua, stuzzicandolo con molta calma, poi si distese su di lui, baciandogli la nuca, mordendolo con delicatezza, succhiandogli un orecchio. Diego mugolò di esasperazione.
– Ti prego, Rey, non reggo più.
Rey introdusse appena la cappella nel suo orifizio, continuando a strizzargli le natiche.
– Rey, ti prego!
Ridendo, lui lo penetrò, fino in fondo questa volta, mentre Diego sospirava di soddisfazione. Rey si dedicò quindi a martellarlo con metodo, prima a ritmo più lento, poi via via più veloce, finché Diego non urlò nel cuscino, sussultando più volte e picchiando a mano larga sul materasso, come un lottatore che si arrende. Rey infierì ancora per un paio di minuti, infine anche lui esplose, emettendo una specie di guaito e crollando sulla schiena di Diego.
Dal cuscino emerse la sua voce affannata:
– Grazie, Rey. È stato bellissimo. Bellissimo. Lo so che non volevi, ma io… Scusami.
– No. È stato bello anche per me – obiettò Rey, ansante.
– Non uscire, non ancora.
– Diego…
– Te lo devo dire, Rey. Mi sei piaciuto dal primo momento che ti ho visto. Quando ho chiesto di te a Consuelo, però, lei mi ha parlato di Paco. Allora ho pensato che sarebbe stato meglio dimenticare subito quanto mi piacessi. Ma oggi, averti qui, a portata di mano, è stata una tentazione troppo forte.
– Anche tu mi piaci, Diego. E mi piacevi anche con la pancia.
– Oh, Rey, mi rendi un uomo felice!
Diego si voltò per averlo di fronte e baciarlo sulla bocca. Ci mise tanta passione e tanto impegno che a Rey, a poco a poco, tornò duro.
– Mmm… possiamo farci un altro giro… – sussurrò Diego, entusiasta, afferrandogli il membro con un’espressione di goduria. Mentre Diego si dedicava ad assaggiarlo voluttuosamente, Rey si domandò se sarebbero andati avanti tutta la notte. Diego lo sperò ardentemente.

 

 

Senza ben capire a che cosa le sarebbe servito, Consuelo studiò la vita della regina Violeta Estela di Battenberg. Rey era stato chiaro. L’unica cosa che sembrava certa, era che l’Ordine Dalcassiano fosse legato in qualche modo a lei. Ma ovunque avesse ficcato il naso, di quell’Ordine non si parlava mai. In compenso, adesso sapeva moltissimo della vita travagliata e un po’ avventurosa della vecchia regina e dei tradimenti di suo marito, il re Alfredo XIII, nonché dei sette figli avuti dalla coppia reale, e della loro successiva separazione. La nonna di re José Cesar doveva aver avuto un bel caratterino. Ma a cosa le sarebbe servito tutto questo?
Fu la prima cosa che domandò a Delgado, quando, quel pomeriggio, lo vide rientrare in ufficio.
– Non lo so. Probabilmente a niente. Quali piste abbiamo?
– Stiamo ascoltando alcuni antiquari che facevano affari con il duca. Abbiamo spulciato le sue rubriche per comporre una lista di conoscenti e amici con cui parlare.
Rey si avvicinò al muro del pianto. Dopo il caso di Oscar Mayor, avevano mantenuto quell’abitudine.
– E questo cane?
– Non so. Ho trovato la foto dentro la sua agenda. Gliel’ha mandata una certa Michelle. Tra i suoi numeri di telefono ho trovato una Michelle Germond, ma non so se sia la stessa. Fernando dice che il fisso è un numero di Losanna e che il cellulare ha il prefisso della Svizzera. Credo proprio che non ci possa essere di nessuna utilità.
– Losanna, hai detto? È interessante, invece – commentò Rey.
– Perché, che c’entra Losanna?
– L’archivista del Centro di Studi Araldici mi ha detto che dovrei andarci, se voglio scoprire qualcosa dell’Ordine Dalcassiano. Pare che a Losanna abbia vissuto la regina Violeta Estela dal 1940 fino alla sua morte.
– Bene. Visto che tu sei andato a Madrid, io andrò a Losanna.
Rey dovette ammettere che non faceva una piega.
– Che dice la scientifica?
– Poche impronte, ma molto nitide. La pistola di Brunswick era proprio quella che mancava dalla bacheca. Per il resto, la scientifica ci sta ancora lavorando. Nessuno nel palazzo ha visto estranei o movimenti sospetti. Nessuno ha sentito niente tranne lo sparo per cui ci ha chiamato il vicino. L’arma del delitto è una 7,65. Come ti ho già detto, quel giorno non aveva appuntamenti, o comunque non li aveva annotati sull’agenda. Stiamo cercando un po’ alla rinfusa. Il problema è che non abbiamo ancora capito il movente. Il furto di un’attestazione di onorificenza e un biglietto che dice Per il Re, e che potrebbe anche essere un tentativo di sviarci, è tutto quel che abbiamo. Quel biglietto non è stato scritto dal duca, ma chi ci dice che l’abbia scritto l’assassino? E se fosse stato sulla scrivania per caso? Comunque, sulla carta, sono state rilevate solo le impronte del duca.
– Che cosa dicono di lui i suoi conoscenti?
– Pare che fosse un uomo colto, affabile, ma molto riservato. Non frequentava i salotti, preferiva rinchiudersi nel suo studio, tra i suoi libri e gli oggetti che collezionava. Riceveva molto poco. Viveva da solo. Viaggiava parecchio, ma ultimamente aveva diradato.
– Forse aveva trovato qui quello che prima cercava altrove.
– Oppure si era rassegnato a non trovare quello che cercava.
– Di che stiamo parlando?
– Non lo so – disse Consuelo, guardando il muro del pianto.
Rey seguì la direzione del suo sguardo.
– Perché ti ha colpito tanto la foto di un cane?
– Non è per il cane, è per il messaggio: Anche lei si ricorda di te. Quando vieni a trovarla? Michelle. Non ti sembra un invito? Forse Michelle voleva che il duca tornasse a trovarla. Forse tra loro c’è stata una storia d’amore.
La voce sognante di Consuelo lo turbò. La sua vice aveva davvero bisogno di cambiare aria.
– Telefona a Michelle Germond, e se è lei, quella del cane, dille che vai a trovarla. Vicino a Losanna c’è anche la Vieille du Lac, la residenza della regina Violeta Estela. Se ti fanno entrare e riesci a sapere qualcosa, sarà un viaggio proficuo.
– Sarà fatto.

Consuelo chiamò la donna al cellulare, ma quella telefonata la spiazzò. Michelle Germond era simpatica, irruente, chiacchierona. Si dichiarò immediatamente ben felice di ospitarla. Per il suo agriturismo era bassa stagione, quindi anche le tariffe erano più convenienti. Si lamentò del fatto che i turisti si affollavano tra luglio e agosto, disertando per il resto dell’anno. Lei avrebbe invece potuto apprezzare il clima meraviglioso di quella primavera prorompente. Era sicura che il soggiorno le sarebbe piaciuto. Poi le spiegò come arrivare alla villa, che si trovava poco lontano da Losanna. Consuelo non aveva fatto in tempo a spiegarle chi era, cosa voleva e cosa stava cercando. E finì per convincersi che in fondo, presentarsi come una semplice turista, avrebbe potuto rivelarsi un vantaggio. Avrebbe scoperto una volta sul posto se quella era la Michelle giusta. Sperava che lo fosse, e che, in tal caso, non toccasse a lei informarla della dipartita del duca. Ad ogni modo, le serviva una base d’appoggio e dormire in un hotel o in un agriturismo, le era del tutto indifferente. Una volta lì, qualcuno avrebbe saputo indicarle la Vieille du Lac.

 

 

A Madrid pioveva. Osservando il cadavere di Raúl de la Serna, Diego Fidalgo pensò che fare il giornalista stava diventando un mestiere sempre più pericoloso. Chissà in quale ginepraio aveva ficcato il naso, per meritarsi quell’impiombatura. Quello che gli scocciava era di doversi sorbire la lettura di tutti quei file incompleti e scritti alla rinfusa che gli intasavano il computer. Mentre il medico legale faceva il suo mestiere e lui sfiorava con lo sguardo i file che scorrevano sul monitor, già rifletteva su chi avrebbe potuto delegare. Improvvisamente si bloccò, puntando l’attenzione su un titolo. Mentre apriva il file, la scientifica invase la stanza. Jimenez lo fulminò con gli occhi.
– Quello è compito nostro.
– Solo un attimo. C’è una cosa che m’interessa.
– Non capisco perché ti rifiuti sempre di seguire le procedure.
– Io so lavorare solo così, seguendo l’istinto.
– Non è professionale. Sei un cane sciolto, Fidalgo.
– Per una volta, fatti i cazzi tuoi e lasciami lavorare.
Jimenez lo mandò a cagare.
Quando Diego finì di leggere il file, disse a Jimenez che aveva mandato una mail al suo indirizzo, e che non ne tenessero conto.
– Sei uno stronzo, Fidalgo.
– Grazie, altrettanto – rispose Diego, lasciando la stanza.

Delgado rispose al cellulare, con un senso di fastidio. Quella storia era stata un intermezzo piacevole, ma doveva rimanere un episodio isolato. Non aveva nessuna voglia di trascinare un rapporto che non avrebbe neppure dovuto iniziare. La sua voce aveva un tono tutt’altro che entusiastico. Sperò che questo bastasse perché Diego si regolasse. E in effetti, si regolò, dal momento che lo salutò in fretta, comunicandogli, senza perdere tempo, quello che aveva trovato.
– Un giornalista stava scrivendo un servizio sull’Ordine Dalcassiano della Mercede. Peccato che non abbia avuto il tempo di finirlo. È stato interrotto da un paio di proiettili calibro 7,65.
– Mi stai prendendo per il culo?
– Perché cazzo dovrei farlo?
– Nessuno sa niente di questo maledetto Ordine e all’improvviso, proprio a te, capita di trovarne una traccia?
– Non l’ho chiesto io. È una coincidenza fortunata. Invece di esserne contento, questo ti fa incazzare? Ma come stai messo?
– Okay, sono un po’ nervoso, scusami. Mandami questo cazzo di articolo.
– Un grazie non mi avrebbe fatto schifo, Delgado. Comunque te lo mando. Curati.
– Sì, grazie. Ci sentiamo.
Rey si diede dell’idiota. Che gli era preso? Ma sì, lo sapeva benissimo, inutile che fingesse con se stesso. Al ritorno dalla sua trasferta, tornando a casa, si era sentito in colpa nei confronti di Paco. Questo lo faceva incazzare. Ma non poteva buttare la colpa addosso a Diego. Lui era stato consenziente. Stupito, forse, eppure piacevolmente consenziente. Ma benché si fosse voluto convincere che quello che era successo fosse del tutto inatteso, in fondo sapeva perfettamente che non era vero. Lui l’aveva voluto e desiderato quanto Diego e aveva fatto in modo che accadesse. Prendersela con Diego non era giusto, non avrebbe cambiato le cose e l’avrebbe indotto, semmai, a sentirsi in colpa anche verso di lui. Che stronzo!

 

 

Quando gli arrivò la mail di Diego, era accompagnata da poche parole, di tono ufficiale e sbrigativo, completata da un distinti saluti che fu come un pugno in faccia. Gli stava bene. Era giusto. L’articolo di Raúl de la Serna, poco più di una bozza di poche righe, raccontava che l’Ordine Dalcassiano della Mercede era una sorta di società segreta, i cui adepti erano votati alla difesa di un misterioso segreto appartenente alla regina Violeta Estela. L’Ordine era stato istituito da un tal granduca Boris Konstantinovic Romanov, cugino dello zar Nicola II. Il giornalista prometteva di svelare quel segreto, uno scoop che avrebbe avuto ripercussioni insospettate. Che ci faccio? si domandò Delgado. Poi, anche se non ne vedeva un’immediata utilità, quando la sua vice lo chiamò da Losanna, le riassunse in fretta quelle poche informazioni. Consuelo commentò che in una storia di cui non si sapeva niente, anche poco sarebbe stato utile. Gli disse che a Losanna c’era bel tempo e che Michelle Germond sembrava molto simpatica. Infine lo informò di un particolare che lo lasciò disorientato. Rey giudicò che le coincidenze cominciavano ad accumularsi in maniera preoccupante. Tutta quella fortuna non era da lui. Non aveva dubbi che, presto o dopo, gli avrebbe presentato il conto.

Prima di lasciare l’aeroporto internazionale di Cointrin, Consuelo girovagò nell’area commerciale, dov’erano presenti una cinquantina di negozi. Poi entrò alla brasserie Dragon d’Or, e si offrì una lauta colazione sulla terrazza con vista panoramica delle piste. Il tempo era splendido. Quella piccola vacanza le ci voleva proprio. Infine decise che era giunto il momento di raggiungere l’agriturismo di Michelle Germond. Era lì per questo. Il lago era uno specchio appena increspato da un vento leggero, tiepido e profumato. Dal finestrino del taxi, Consuelo vide scorrere le fioriture di cespugli e alberi, i prati di un verde acceso ricoperti di margherite bianche e gialle e di fiorellini viola. Arrampicatosi in cima a una collina, il taxi rallentò per imboccare un imponente cancello aperto, inoltrandosi sul sentiero che attraversava la grande tenuta immersa nel verde.
– Oggi è proprio la mia giornata – commentò il tassista. – È il secondo viaggio che faccio qui.
Consuelo riconobbe la villa che aveva visto nella foto, ma prima di arrivare al grande spiazzo, fu sorpresa da un cartello che annunciava nientemeno che la Vieille du Lac. Dunque quello era il castello della regina Violeta Estela! Un agriturismo? Il tassista si fermò a due passi dal doppio scalone che conduceva all’ingresso della villa e suonò il clacson. Consuelo non capì perché l’avesse fatto. Mise in spalla il borsone, salutò l’uomo e iniziò a salire le scale. Poco dopo vide una donna che le veniva incontro.
– La signora Torres?
– Sì, e lei è Michelle Germond?
– Sono io. L’aiuto?
– No, grazie, è leggerissima.
– Venga. È arrivata appena in tempo per una piccola merenda che stavo per servire agli altri due ospiti. Si tratta di una coppia molto tranquilla. Se ne stanno tutto il giorno a passeggiare.
Intanto avevano raggiunto l’entrata.
– Dunque questa è la Vieille du Lac, la residenza della regina Violeta Estela.
– Esatto. Molti vengono soltanto per questo, aspettandosi una reggia, ma questa è solo una vecchia dimora che conserva tanti ricordi. La regina la comprò nel ’40 e la lasciò così com’era, senza aggiungere molto e senza togliere nulla. Nonostante fosse una regina, Violeta Estela amava una vita semplice. Venga, venga, l’accompagno alla sua camera. Dopo un’altra rampa di scale, Consuelo fu condotta in una stanza ampia e luminosa, con la finestra che affacciava su un magnifico giardino con lo sfondo di un bosco.
– Vuole darsi una rinfrescata, prima di scendere? Io intanto vado ad aggiungere un posto a tavola.
Consuelo preferì scendere subito dopo, per non farli aspettare, ma non prima di aver fatto una breve telefonata a Delgado, per avvertirlo che era arrivata. Lui ne aveva approfittato per metterla al corrente degli strani sviluppi di Madrid. I due ospiti dovevano essere sulla trentina, e sembravano piuttosto timidi e riservati. In compenso, Michelle Germond parlava per quattro. Era difficile fermarla. Sulla tavola c’era di tutto, dal dolce al salato, accompagnato da grandi teiere con una vasta scelta di tè. Consuelo, che non era abituata ad associare il tè al salato, si limitò a mordicchiare qualche biscotto di pasta frolla al limone, tanto per gradire. La colazione fatta all’aeroporto le pesava ancora tutta sullo stomaco.
– Li faccio io. Sono buoni, vero?
– Magnifici – si complimentò Consuelo.
Non sapeva in che modo avrebbe potuto spiegare il vero motivo della sua presenza. Voleva farlo in privato, quando la silenziosa coppia se ne fosse andata.
Consuelo valutò che Michelle dovesse avere meno di cinquant’anni. Era una donna atletica, piena di vigore, che si muoveva velocemente, ma con una certa innata eleganza. I suoi capelli biondi erano attraversati da riflessi color miele e tirati indietro con un cerchietto di madreperla. Aveva occhi scuri, vivaci e acuti, che si muovevano continuamente per tenere tutto sotto controllo. Doveva essere una cui nulla sfuggiva. Una bella donna. Mentre finiva il suo tè, si domandò se fosse proprio lei l’amica di Alfonso Traverso.
– Vuole che le mostri la villa?
– Grazie, mi farebbe molto piacere – rispose Consuelo.
Da quel momento, mentre visitavano le diverse stanze, non le fu concesso che qualche monosillabo. Michelle era un torrente in piena. Per farla stare zitta, bisognava spararle. Consuelo si sorbì tutta la storia della regina, di cui ormai era informatissima, fino a quando raggiunsero la sua stanza privata.
– Qui è stato lasciato tutto com’era nel 1969, quando morì.
Consuelo osservò la camera, confortevole, piena di ninnoli e centrini, quadri bucolici, ritratti. La vista di una pergamena, che riconobbe immediatamente, la fece fremere. E poi lo sguardo le cadde sulla foto di un uomo. Sapeva che non era il re. Poteva forse essere…
– Mi scusi, questo è il granduca Boris Romanov?
Lo sguardo stupito di Michelle le rispose. Per la prima volta, restò in silenzio, osservandola con attenzione.
– Boris Konstantinovic Romanov. Lei è una storica?
– No, ho letto da qualche parte che il granduca aveva fatto la corte a Violeta Estela, prima che lei si sposasse con re Alfredo. Non so perché ho pensato che potesse trattarsi di lui.
– Lei ha un grande intuito, mia cara.
– So che la regina si separò a causa dei tradimenti continui del consorte, e venne a stare qui. La presenza di questa foto potrebbe significare che Boris e la regina si rividero?
– Sì, il suo intuito è davvero notevole.
– Il granduca ha vissuto qui?
– Vuole tutta la storia? Quella che nessuno racconta?
– Sì, mi piacerebbe.
– Si sieda. Se ha un’anima romantica, le piacerà.
Sorridendo, Consuelo si accomodò di fronte a lei e ascoltò Michelle che raccontava quella storia come se fosse una fiaba.
– Da quando aveva tredici anni, la principessa passava le estati a Osborne, nell’isola di Wight. Lì si riuniva la nobiltà che gravitava intorno alla regina Vittoria del Regno Unito, sua nonna, presso la cui corte Violeta Estela viveva. Un’estate, credo che avesse ormai sedici anni, conobbe un altro giovane parente della regina Vittoria, il granduca Boris, di poco più grande di lei. Fu un amore a prima vista. La principessa era molto timida e riservata, educata com’era alla corte, dove la disciplina era incredibilmente rigida. Anche solo gli sguardi che lanciava verso il giovane granduca, le sembravano una perversione riprovevole. Ma quello che le faceva battere forte il cuore era che, ogni volta che lo guardava, incontrava lo sguardo magnetico di lui. Allora, la consapevolezza di non riuscire a nascondere i suoi sentimenti, la faceva arrossire, e lei sentiva un calore insopportabile salirle al viso. Quel ragazzo le piaceva immensamente. Naturalmente tutto finì lì. Ma, in seguito, quando aveva già diciotto anni, lo incontrò ancora durante una vacanza a Nizza. Lei era diventata una splendida giovane donna e lui si era fatto crescere dei bei baffetti, che gli davano un’aria seria e molto adulta. Il granduca, questa volta, non si fece sfuggire l’occasione. Un giorno le confessò il suo amore, dicendole che non aveva mai smesso di pensare a lei. Violeta Estela, travolta dai sentimenti che lei pure aveva nutrito in segreto, fu sul punto di accettare la sua proposta di matrimonio. Il guaio era che non avevano seguito le regole. La proposta di matrimonio doveva percorrere altre strade. Violeta Estela lo convinse così a invitare la madre a scrivere alla sua, assicurandogli che avrebbe subito acconsentito. Ma il destino, a volte, si mette in mezzo in modo crudele. La madre di Boris tardò, per vari motivi, e quando Boris finalmente riuscì a convincerla, il destino, fregandosene altamente dei loro sentimenti, permise che prima della sua, giungesse un’altra proposta di matrimonio, quella del re di Spagna, Alfredo XIII, cui nessuno pensò neppure per un momento di opporre un rifiuto. Violeta Estela l’aveva conosciuto durante una visita ufficiale alla corte inglese, ma non le ispirava gli stessi sentimenti di Boris. Quando la famiglia giudicò quella proposta la più conveniente che potesse mai ricevere, lei ubbidì, soffrendone molto, ma poi si rassegnò. Diventare regina non era la cosa peggiore che potesse capitarle, anche se per raggiungere quell’indesiderato traguardo, dovette abbandonare la religione in cui era stata cresciuta, per convertirsi al cattolicesimo.
– Ma poi s’incontrarono di nuovo.
– Naturalmente. Allora Violeta aveva già tre figli. Quella dei figli era una causa di litigi continui con il marito. Purtroppo il primo era emofiliaco, il secondo era sordomuto, la terza era una femmina e il quarto era nato morto, proprio all’inizio di quell’anno. Violeta era incredibilmente angosciata. Ma durante un grande ricevimento, rivide il granduca Boris. Violeta aveva allora 23 anni, tre figli che la preoccupavano, una vita oppressa dalle convenzioni e dalla rigidità dei cerimoniali, la consapevolezza che il consorte la tradiva, e un infinito desiderio di abbandonare tutto questo. Dal canto suo, Boris aveva lo sguardo più triste che Violeta avesse mai visto. Nonostante l’impossibilità di parlarsi liberamente, riuscirono a capirsi e, in un momento di confusione, ad appartarsi per brevi istanti.
– Boris l’amava ancora?
– Non aveva mai smesso di pensare a lei. E la sua immensa tristezza era dovuta a questo.
– E Violeta?
– Da allora, ogni volta che poteva, gli mandò dei messaggi. Lo rivide due anni dopo. E approfittando che Alfredo non era presente, si frequentarono assiduamente. Durante la loro separazione, il loro amore non aveva fatto altro che crescere. Forse sono gli amori impossibili e ostacolati quelli che crescono più forti, non so. Il loro era così.
Consuelo sospirò.
– E poi?
– Poi non si rividero per un pezzo. Violeta ebbe altri due figli, uno a 26 anni, Manuel, il padre di re José Cesar. E l’anno successivo, l’ultimo, nato anche lui emofiliaco. Da quel momento i rapporti tra lei e Alfredo si guastarono definitivamente. Il marito la tradiva apertamente, tanto che era sulla bocca di tutti. Violeta si sentiva umiliata, arrabbiata, offesa, indignata, ma non poteva farci niente. A un certo punto riuscì a ignorare tutto questo e si dedicò esclusivamente alle opere di carità. Alleviare il dolore altrui era l’unica cosa che riuscisse a lenire il proprio. Poi la situazione politica si complicò sempre di più, finché la famiglia dovette rifugiarsi all’estero, in esilio, vivendo tra la Francia e l’Italia, ma ben presto Violeta decise di separarsi dal marito che continuava a tradirla, seminando figli qua e là. Dapprima si rifugiò alla corte inglese, dove finalmente rivide Boris, ma allo scoppio della seconda guerra mondiale, visto che non apparteneva più alla famiglia reale, fu scacciata con poche scuse.
– E fu allora che venne qui.
– Esatto. Violeta Estela aveva 57 anni, e poco dopo rimase vedova. Naturalmente il granduca Boris la raggiunse immediatamente. Il loro amore si era conservato nel tempo. Boris dallo sguardo triste si trasformò in un uomo finalmente sereno, appagato, persino allegro. Io non l’ho conosciuto, ma mia madre, che era la dama di compagnia della regina, mi ha raccontato tanto di lui. Amava i fiori e i levrieri afgani e ne portò qui una coppia. Ci sono ancora i loro discendenti, alla villa.
Consuelo ebbe la conferma definitiva di ciò che aveva intuito. Approfittò di quel momento per introdurre l’argomento che le premeva.
– Ne ho visto uno in foto, qualche giorno fa, nello studio del duca Traverso y Colon de Carvajal.
– Lo conosce? – si stupì Michelle.
– Era un suo amico? – le domandò Consuelo, a sua volta.
– Perché dice era?
– Mi spiace dover essere proprio io a informarla. Il duca è morto, signora Germond.
– No, non può essere.
– Purtroppo è vero. Mi dispiace.
Un pallore cadaverico sostituì il suo bel colorito. Chiuse gli occhi.
– Non può essere, non può essere… – mormorò ancora.
– Mi dispiace davvero – ripeté Consuelo.
– Com’è morto? – le chiese Michelle, riaprendo gli occhi.
– Gli hanno sparato alla testa.
– Lei come lo sa?
– Sono della polizia e sto indagando sulla sua morte. Sono venuta da lei per raccogliere informazioni. Qualunque notizia potrebbe aiutarci.
– Notizie? – disse smarrita.
– Sì, ad esempio, quella pergamena laggiù, quella dell’Ordine Dalcassiano della Mercede, è molto interessante. Mi sa dire qualcosa in proposito?
– L’Ordine Dalcassiano? Non so, è solo un’onorificenza.
– Ce n’era una uguale dal duca Traverso – affermò Consuelo, avvicinandosi al muro dov’era appesa.
– Davvero? – commentò stupita la donna.
– Questa è di Boris Romanov. Mi sa dire per quale motivo gli era stata accordata?
– Non saprei.
– Chi concede questo genere di onorificenze?
– Di solito, i regnanti.
– Quindi è stata la regina Violeta Estela a conferirgliela?
– Probabilmente sì.
– Il duca Traverso però era troppo giovane per averla ricevuta da lei. Quindi c’è qualcun altro che ha mantenuto questa tradizione. Potrebbe essere l’attuale re?
– Non ne ho idea.
– Conosce altri che ne abbiano beneficiato?
– No, perché dovrei?
– Qui ci saranno senz’altro dei documenti in cui se ne parla.
– No. Ne sono sicura, conosco a memoria tutti i documenti che ha lasciato la regina.
– Le dispiacerebbe mostrarmeli?
– Ma che c’entrano i documenti di allora, con un omicidio compiuto adesso, a distanza di decenni?
– Niente, sicuramente, ma vorrei vederli lo stesso.
– Non capisco perché perda il suo tempo in mezzo a carte polverose, invece di darsi da fare a cercare un assassino che sicuramente si aggira per le strade di Burgos.
O di Madrid, pensò Consuelo, memore di quello che le aveva detto Delgado a proposito del giornalista.
– So che ha ragione, ma ormai che mi trovo qui, preferisco andare fino in fondo, prima di tornare a casa.
– Come vuole – sospirò Michelle.
– Mi parli di lui, del duca Alfonso Traverso.
– Cosa le posso dire? Era un uomo tranquillo, molto chiuso, silenzioso. Conoscere un uomo così non è facile. Non saprei dire... Era gentile, un vero signore. S’interessava di antiquariato. Era la sua passione, e poi è diventato anche una specie di lavoro.
– Aveva nemici?
– Come avrebbe potuto farsi dei nemici un uomo così?
– Appunto. Perché si uccide un uomo così?
– Non mi sembra vero. Mi diceva che anche lui era cavaliere dell’Ordine Dalcassiano?
– Esatto.
– Strano che non me ne avesse mai parlato.
– Sì, è strano. Non eravate amici?
– Così mi ero illusa.

 

 

Alla fine, Diego Fidalgo decise di non delegare nessuno. Al suo collega passò il compito di leggere gli ultimi articoli pubblicati dal giornalista ucciso, mentre lui trascorse un’intera giornata passando in rassegna le bozze degli articoli mai finiti o di semplici appunti di Raúl de la Serna. Uno, in particolare, lo incuriosì. Era un guazzabuglio di nomi e gravi accuse rivolte al mondo corrotto dell’antiquariato. Non nominava mai le fonti, per cui un approfondimento sarebbe stato difficile. Se voleva infilarsi in quel ginepraio, doveva farlo dall’inizio. C’era un mondo sommerso di collezionisti di contrabbando, che non badavano né a spese, né ai mezzi con cui ottenere i pezzi che volevano. Spesso poi erano costretti a mantenerli nascosti, in luoghi segreti e inaccessibili, dove far accedere solo pochi scelti visitatori, gente che sapeva ammirare quei gioielli mantenendo la bocca cucita. Altro che società segreta! Raúl de la Serna aveva messo il naso in un settore pericoloso. Uno qualunque di quei collezionisti, una volta scoperto, si sarebbe ritrovato dietro le sbarre, nonostante tutto il denaro che possedeva. Uno qualunque di loro poteva aver scoperto il giornalista mentre si dava da fare e aver deciso di toglierlo di mezzo.
Quando gli giunse il rapporto balistico, ne fu notevolmente sorpreso. Per qualche momento rimase soprappensiero, poi guardò il telefono sulla scrivania, indeciso. Ma non se la sentì di utilizzarlo. Si limitò a inviare una mail a Delgado, con la relazione.

Delgado la lesse e s’impedì di porsi domande, limitandosi ai fatti. La pistola che aveva assassinato Raúl de la Serna era la stessa che qualche giorno prima aveva ucciso il duca Alfonso Traverso.
Delgado trascorse ore intere a rileggere tutte le deposizioni dei conoscenti e dei pochi amici del duca Alfonso Traverso. Ormai conosceva a menadito tutte le sue abitudini, le sue passioni, i suoi passatempi, conosceva la sua situazione finanziaria, i suoi progetti e persino i suoi amori. A detta di un suo amico, che si definiva fraterno, Michelle Germond era stata l’ultima della lista. Michelle Germond, che aveva trasformato la residenza della regina Violeta Estela in un agriturismo. Sull’agenda del duca aveva trovato l’annotazione di un appuntamento con Raúl de la Serna, pochi giorni prima che qualcuno gli facesse un buco in testa. I due casi erano collegati, ma né Fidalgo, né Delgado, proposero di unire le due inchieste. Si limitarono a collaborare, scambiandosi rapporti, per tenersi aggiornati.
Delgado ripensò alla pistola di Brunswick che avevano trovato sulla scrivania, su cui il duca era riverso. Perché l’aveva tirata fuori? A chi voleva mostrarla? Rey sospirò. Guardò il muro del pianto. Ordine Dalcassiano della Mercede. Il giornalista aveva appuntamento con il duca. Si erano visti. Il duca gli aveva parlato degli scopi dell’Ordine. Poi la stessa 7,65 li aveva freddati. Per interrompere quella collaborazione? Era stato un altro membro dell’Ordine? Ma chi erano? Dov’erano?
 
A Madrid, Fidalgo aveva indirizzato la sua indagine verso il mondo dei collezionisti e degli antiquari, seguendo le indicazioni degli appunti lasciati da Raúl de la Serna. Anche Delgado ne aveva una lista, gente con cui il duca faceva affari. Era giunto il momento di passare a loro. Ma preferiva non farlo apertamente. Aveva bisogno di un’idea. Che cosa sarebbe accaduto se avesse offerto sul mercato una di quelle attestazioni? Chi avrebbe abboccato all’amo? Altri cavalieri dell’Ordine si sarebbero fatti vivi? Magari proprio chi sapeva che quella pergamena era un falso, poiché l’originale era in suo possesso, avendola sottratta al duca? All’improvviso gli tornò in mente Pascal, un falsario eccezionale, oltre che uno scassinatore tra i più alibi, che aveva conosciuto molti anni prima. A quell’epoca si stimavano, erano diventati amici. E sapeva dove trovarlo.

 

 

– Se devo riprodurne una copia impeccabile, che possa ingannare un antiquario o un collezionista esperto, devo avere in mano l’originale. Potevi almeno portarmi un ingrandimento. Non si vede niente – disse Pascal, osservando la foto.
La vecchia casa era sempre uguale, con il giardinetto ben curato, le finestre ornate di tendine di pizzo, i mobili rustici in noce, dall’aspetto solido e robusto; i quadri importanti, fedeli riproduzioni degli originali, dipinti da lui stesso. Solo Pascal era cambiato. I suoi baffoni neri erano diventati bianchi e i suoi capelli erano caduti, lasciando uno spiazzo vuoto in cima alla testa. Non lo vedeva da vent’anni, quindici dei quali li aveva passati in una cella, a spese del Regno.
– A che ti serve? – chiese poi.
– Voglio una scusa per parlare con qualche antiquario e se mi va bene, farmi presentare a dei collezionisti.
– I vecchi metodi da sbirro non ti bastano più?
– In questo caso, li trovo poco efficaci.
– Attento a dove metti i piedi. In quell’ambiente non c’è solo brava gente.
– Ne sai qualcosa, tu?
– Oh, si sentono delle cose, a volte. Cose cui uno non vorrebbe neppure credere.
– Fammi un esempio – lo invitò Rey.
– Un esempio? Mi hanno raccontato di un tizio che colleziona maschere africane antiche. Pare che durante un viaggio ne abbia trovate di suo gradimento, in un villaggio, non ricordo dove, ma sfortunatamente erano considerate sacre da quella gente, che nonostante tutte le sue offerte, non si è lasciata convincere. Due notti dopo, il villaggio è stato assalito da mercenari e tutti gli abitanti sono stati uccisi. Le maschere adesso fanno parte della sua collezione.
– Gente pericolosa.
– Sì. Qua da noi è solo questione di soldi, ma se scoprono che sei un poliziotto e cerchi di ficcare il naso nei loro affari, possono anche incazzarsi. Al giorno d’oggi non c’è più rispetto per niente e per nessuno, lo sai.
– Lo so, Pascal.
– Vacci cauto.
– Lo sono sempre.
– E vacci da solo. In due potrebbero insospettirsi.
– E se mi presentassi con una donna?
– Tu, con una donna! E da quando, Delgado?
– È la mia vice.
– Ah, capisco. Falle mettere un vestito elegante, e una collana di perle.
– Perché?
– Per essere credibili. Se vuoi passare per un collezionista con i soldi, devi avere l’apparenza giusta. In quel caso, ti puoi anche presentare con la tua donna. È bella?
– Ha un aspetto gradevole.
– Bene – approvò, sogghignando.
– Allora, prima di tutto, fammi questa copia. Dovrai accontentarti di una foto a grandezza naturale. L’originale è sparito. Ce la puoi fare?
– Farò del mio meglio, ma sul materiale non posso essere preciso.
– Mi accontenterò.
– Ti aspetto. Vieni con la tua vice.
– Non è a Burgos, attualmente. Quindi, dovrai accontentarti di me.
– Vedrò di sopportarlo.

Mentre si trovava alla villa, Consuelo ne approfittò per fare due chiacchiere con le donne delle pulizie e con il giardiniere. Quest’ultimo, che aveva una settantina d’anni e continuava a dedicarsi al giardinaggio per puro piacere, aveva conosciuto sia la regina, che il granduca. Era entrato al loro servizio quando aveva appena 20 anni. Boris all’epoca ne aveva 78 e camminava a fatica, divorato dai reumatismi. Faceva brevi passeggiate nel giardino, aiutandosi con un bastone dal pomo d’argento. Il giardiniere ricordava commosso quanto amasse i fiori che lui aveva introdotto al suo arrivo. Aveva del granduca un bellissimo ricordo. Amava appassionatamente Violeta, le rose e i suoi levrieri afgani. Purtroppo, due anni dopo la sua assunzione come giardiniere, Boris era morto, lasciando nel cuore della regina un vuoto incolmabile e una tristezza profonda e inconsolabile, che non l’aveva mai abbandonata fino alla sua morte, avvenuta sette anni dopo.
– Si amavano molto – commentò Consuelo, sospirando.
– Il granduca avrebbe fatto qualunque cosa per lei.
– Qualunque cosa… – ripeté Consuelo.
– Già. Un amore senza confini, più forte del tempo e di tutti gli ostacoli che ha dovuto superare. Ma alla fine il granduca ha vinto. Ha vinto su tutta la linea – disse ridendo.
– In che senso?
Il giardiniere si guardò intorno con un certo imbarazzo.
– Devo proprio andare, adesso. Mi scusi – si congedò improvvisamente, allontanandosi con un passo atletico e veloce che non ci si sarebbe mai aspettati, vista l’età.
Ha vinto su tutta la linea? Che voleva dire? si domandò Consuelo.

 

 

Quella sera finì di leggere o scorrere tutti i documenti su cui era riuscita a mettere le mani. Se in giro ci fosse nascosto ancora qualcosa, non poteva saperlo. Con sua grande delusione, dell’Ordine Dalcassiano non si faceva riferimento su nessuno di essi. Aveva trovato anche un paio di diari della regina, che aveva letto con gran fatica. Parlava frequentemente dei figli, che amava molto, come tutte le madri, tranne, notò Consuelo, del figlio Manuel. Forse perché era l’unico a non darle preoccupazioni. Godeva di ottima salute, era il pretendente al trono, aveva contratto un buon matrimonio e viveva felicemente in Portogallo. Consuelo si disse che non le restava che tornare a casa. Ma riponendo alcuni documenti, dovette forzare un cassetto difettoso. Mentre cercava di rimetterlo a posto, si accorse che sul fondo era fissato qualcosa. Cercando di non fare rumore, lo sfilò via, e poi fece lo stesso con altri due cassetti. Attaccato alla paretina del mobile c’era una pergamena come quella di Boris. Diceva: Isabelle Germond, Dama dell’Ordine Dalcassiano della Mercede. Sicuramente la madre di Michelle, suppose Consuelo, mentre rimetteva a posto i cassetti. E sua figlia non ne sapeva niente? Impossibile. Michelle sapeva, ma taceva. Delgado le aveva parlato di una specie di società segreta, messa in piedi per tenere celato un segreto della regina. La mattina seguente, poco prima che arrivasse il taxi che la veniva a prendere, Consuelo rivide il giardiniere e decise di andare a salutarlo.
– Buon viaggio, signora. Torna a Madrid?
– No, a Burgos.
– Burgos? Là viveva un mio amico. È morto pochi giorni fa, purtroppo.
– Si riferisce al duca Alfonso Traverso, per caso?
– Non mi dica che lo conosceva anche lei!
– Oh, sì. Mi è tanto dispiaciuto per quello che gli è successo. A volte i segreti uccidono – bleffò Consuelo.
– Per questo è meglio tenersene alla larga – affermò mestamente il giardiniere.
– Era il segreto della regina, no?
– Io di segreti non ne voglio sapere. C’è il suo taxi, signora. Le auguro un buon viaggio.
Consuelo era sicura di aver letto nel suo sguardo che stava mentendo. Anche lui sapeva qualcosa che non avrebbe dovuto sapere. E riguardava la regina.

Delgado tornò da Pascal con la foto della pergamena.
– Promettimi che me ne farai una copia decente.
– Per chi mi hai preso? Conosco il mio mestiere.
– Certo, se vogliamo chiamarlo così.
Per un attimo lo sguardo di Pascal si appuntò sulla foto come se ci guardasse attraverso. Si perse nei suoi pensieri, poi fissò Delgado.
– Perché non mi racconti cosa stai cercando, esattamente? Ci potrebbe essere un’eventualità che io ti possa aiutare – disse Pascal, tornando a osservarla con attenzione.
– Non credo. A meno che tu non conosca l’Ordine cui si riferisce.
– Non conosco l’Ordine, ma so dove puoi trovarne una uguale.
– Cosa? Non è possibile.
– Ti ricordi il mio ultimo colpo? Quello che mi ha mandato in galera definitivamente, e per cui ho dovuto pagare anche tutti gli altri miei cosiddetti crimini?
– Cosiddetti?
– Dai, andiamo! Erano tutte stronzate. Solo che, a due anni alla volta, hanno fatto un bel mucchio. Ma l’ultimo, era il colpo grosso, quello con cui avrei potuto ritirarmi a godermela, se non mi avessero beccato. Il furto alla casa del conte Luis Antonio de Medina. Me lo ricordo benissimo, anche se sono passati vent’anni. Nel suo studio, proprio di fianco al quadro che nascondeva la cassaforte, c’era una pergamena come questa.
– Pascal, se è vero, ti faccio un monumento.
– Preferirei ricevere un’onorificenza come questa. Pascal Trevajon, cavaliere dell’Ordine Reycassiano della Delgadosa. Qualcosa del genere.
Rey scoppiò a ridere.

 

 

Consuelo tornò quel pomeriggio, con tanti dubbi in testa e neppure una certezza. Senza neanche passare da casa, si precipitò subito in ufficio. Rey l’accolse con un ampio sorriso.
– Hai vinto alla riffa? – gli chiese, quando lo guardò in faccia.
– Meglio. Ho trovato un aggancio, tuttora vivente.
– Aggancio per cosa?
– Per l’Ordine!
– Menomale, perché io non ho trovato un bel niente. C’erano altre due attestazioni che nominavano cavaliere il granduca Boris, e dama dell’Ordine Isabelle Germond, ma nessuna documentazione che ne facesse riferimento.
– Chi sarebbe questa Isabelle Germond?
– La madre di Michelle. Era la dama di compagnia della regina, a Losanna.
– Beh, adesso abbiamo qualcuno che ce ne può parlare, il conte Luis Antonio de Medina. Siamo attesi domani mattina da sua eccellenza, che ci ha graziosamente accordato un appuntamento.
– Wow! Come parli bene…
– Sto cercando di adeguarmi. Il viaggio ti ha stancato? Ti vedo un po’ giù.
– Sono un po’ depressa. Questa trasferta non è servita a niente.
– Ma ti sarai pure fatta un’idea più chiara della vecchia regina, no?
– E a che ci serve? Lì c’è un segreto che la riguarda, questo è certo, ma nessuno ne vuole parlare.
– Sei proprio sicura che lo conoscano?
– Del giardiniere non sono sicura, anche se ha conosciuto bene la regina e il granduca. Era pure amico del duca Traverso. Ho avuto l’impressione che sapesse qualcosa, ma è muto come un pesce. Forse avrei dovuto metterlo sotto tortura. Di Michelle Germond invece sono sicura. Lei sa qualcosa, ma mente spudoratamente.
– Ti ho detto che è stata la donna del duca di Najera? L’ultima, per l’esattezza.
– Ha cercato di farmi intendere che lo conosceva a malapena. Eccolo, il movente! Gelosia! Non abbiamo considerato l’omicidio per gelosia! Il duca Traverso si è innamorato di un’altra e Michelle Germond l’ha fatto fuori!
– E il giornalista che è stato ucciso con la stessa pistola? Stai deragliando, Torres. Il viaggio è stato più faticoso di quanto potessi sopportare? Vai a casa. Vatti a riposare. Ci vediamo domani mattina.
– Sì, capo. Domani mi racconti il resto.
– Anche tu.

Il conte Luis Antonio de Medina era un uomo dall’aspetto modesto. Basso di statura, mingherlino, con pochi capelli in testa, e uno sguardo spaesato che gli cagionava un’aria spaurita. L’esatto opposto di quello che Rey si aspettava. Li fece accomodare in un ampio salotto che aveva odore di chiuso, come se la stanza non fosse utilizzata di frequente e da tempo non si aprissero le finestre.
Consuelo spazzò via con la mano un capello impigliato sul divano. Il conte li invitò a venire subito al dunque, rivolgendosi con lo sguardo a Consuelo. Lei a sua volta guardò Delgado, aspettando che fosse lui a parlare. Rey le sorrise, poi rivolse la sua attenzione al conte e, senza preamboli, gli domandò notizie della sua onorificenza. Il conte trasalì.
– Come fate a saperlo?
– Non ha importanza. Ci dica piuttosto chi gliel’ha conferita e perché.
– Quello era un reperto storico. Fu attribuita a mio nonno, di cui io porto il nome.
– E chi gliela concesse?
– Credo che fu il secondo marito della regina Violeta Estela, il granduca Boris Konstantinovic Romanov.
– Secondo marito? Vuole dire che si sposarono? – li interruppe Consuelo.
– Naturalmente. Vissero insieme per più di vent’anni. Pensa che la ex-regina Violeta Estela, educata alla corte della regina Vittoria del Regno Unito, potesse tollerare di vivere sotto lo stesso tetto con un uomo che non aveva regolarmente sposato?
– Ma l’assegnazione di un’onorificenza non spetta soltanto ai regnanti? – gli chiese Consuelo.
– In effetti è così, ma quella nacque proprio in onore della regina in esilio e infatti non è riconosciuta legalmente, per quanto mi è dato sapere. Era forse una sorta di piccolo premio di consolazione per i sudditi più fedeli, dispersi dalle catastrofi della politica e della guerra. Si concedeva agli amici che mantenevano il loro affetto all’ex-regina, che consideravano ancora in carica. Ma si trattava di una cerchia ristretta. Cinque o sei in tutto, forse.
– Non ha documenti che ne descrivano l’assegnazione, qualcosa che ci possa meglio spiegare i motivi per cui veniva concessa?
– No, non esistono documenti del genere, che io sappia.
– C’è qualcosa che non mi convince. Ho letto alcuni diari della regina e il nome del conte Luis Antonio de Medina non viene mai citato.
– Forse in quel periodo non si scrivevano, quindi la regina non ne aveva notizie.
– Lei possiede un carteggio tra suo nonno e la regina?
– È stato donato all’archivio reale. Là può vederne i microfilm, se le interessa.
– Può mostrarci la pergamena, signor conte? – domandò Rey.
– Mi dispiace, l’ho ceduta a un antiquario, diversi anni fa.
– Quale antiquario?
– Adesso non ricordo. Posso cercare tra le mie ricevute e farvelo sapere domani o dopo, se la trovo.
– Si ricorda se era stata richiesta da qualche collezionista?
– Mi ricordo che l’antiquario afferrò al volo l’occasione perché sapeva già di poterla piazzare subito.
– Signor conte, sono molti gli antiquari con cui ha avuto a che fare?
– Quattro o cinque.
– Le saremmo grati se potesse farci una lista.
– Come volete. Posso farveli pervenire per posta elettronica?
– Naturalmente. Cercheremo di non disturbarla ulteriormente.
– Nessun disturbo, credetemi.

 

 

Quando la copia di Pascal fu pronta, Rey e Consuelo andarono a ritirarla.
– Che casetta deliziosa – commentò Consuelo, attraversando il piccolo giardino.
Pascal aprì la porta mentre salivano i tre gradini di accesso al portico.
– Tu devi essere la famosa vice di Delgado – indovinò Pascal, con una stretta di mano calorosa.
– Famosa?
– Rey mi ha parlato molto di te. Mi ha anche detto che è pericoloso farti arrabbiare.
– Così dicono. Ma anch’io so qualcosa di te.
– Non credere a niente. Sono tutte calunnie.
– Bando ai convenevoli, Pascal. Fammi vedere la tua opera d’arte – li interruppe Rey.
– Eccola qui. Perfettamente identica all’originale, in ogni singolo dettaglio, tranne che per il supporto cartaceo, che ho potuto soltanto immaginare e sul quale perciò non posso garantire.
– Mmm... In che modo potrebbero scoprire che è falsa?
– Solo facendo un’analisi di datazione radiometrica. Ma nessun antiquario farebbe una cosa simile per un reperto che vale poco sul mercato. Queste analisi costano e per farle bisogna prelevare diversi campioni, rovinando il pezzo. Insomma, di solito basta che siano accompagnate da una certificazione di autenticità.
– E tu hai fatto anche questo?
– Certo. È firmato da un perito che non può né confermare, né sconfessarmi.
– Cioè è morto.
– Naturalmente. L’unico problema potrebbe nascere se l’antiquario va a controllare la registrazione. Ma di solito nessuno lo fa.
– Tu non me la racconti giusta. Hai perso il pelo ma non il vizio.
– Caro amico, io sono quello che sono. E tu lo sai benissimo, altrimenti non avresti chiesto il mio aiuto. Non essere ipocrita, questo non è da te.
– Hai ragione, Pascal.
– Avete già un’idea su quale antiquario puntare?
– Abbiamo una piccola lista. Per il momento la stiamo studiando.
– Bene. Ricordati i miei consigli.
– Li seguirò.

Che dovesse indossare un abito elegante, passare dal parrucchiere, procurarsi accessori adeguati e una collana di perle, parve a Consuelo del tutto esagerato. Ma Rey fu irremovibile. Così, quando si presentò al commissariato bardata in quel modo, con l’impressione imbarazzante di essere vestita in maschera, tutti si voltarono a guardarla. Fernando Gil addirittura strabuzzò gli occhi e poi le chiese se dovesse andare a un matrimonio. Consuelo preferì non rispondere. Avrebbe fatto fatica a trattenere una risposta tagliente. In fondo, Fernando non ne aveva colpa. Era colpa di Rey.
– Perfetto – commentò Delgado, vedendola entrare. – Possiamo andare.
Rey era vestito come il solito, in abito nero, con camicia nera. L’unica concessione all’eleganza, che potesse considerarsi una novità, era una cravatta grigio argento. Sembrava un boss della mala.
– Delgado, così non va bene – commentò Consuelo, scuotendo la testa.
– Che c’è che non va?
– Ci voleva una camicia bianca.
– Non ne ho.
Consuelo l’osservò con sguardo duro.
– Nemmeno io avevo un abito elegante, eppure tu mi hai costretta a comprarmelo. Adesso tu ti compri una camicia bianca e te la metti.
– Mai!
– Allora non vengo!
Per un attimo si fissarono inferociti.
– Tu vieni.
– Pascal ha detto eleganti. Io sono elegante, e tu sembri… sembri…
– Un boss della mala – affermò Fernando dalla porta.
– Mi hai tolto le parole di bocca – confermò Consuelo, sorridendogli con complicità.
Delgado lanciò uno sguardo di ghiaccio verso la porta. Fernando si dileguò.
– Andiamo a prendere questa cazzo di camicia – disse Rey a denti stretti.

 

 

Sui diversi antiquari della lista di Luis Antonio de Medina, avevano fatto qualche indagine superficiale. Quello che sembrava avesse il maggior numero di scambi con collezionisti affezionati era un certo Félix Almendres, con cui anche il duca assassinato aveva avuto a che fare, ma che non avevano ancora contattato. Fernando Gil lo teneva sotto sorveglianza già da un paio di giorni. Fu quindi a lui che si presentarono Rey e Consuelo con la loro esca. Il signor Almendres si mostrò molto ossequioso, quasi servile, quando vide la pergamena, completa di cornice e vetro anticati, un’aggiunta voluta da Pascal. Dopo aver risposto alle domande generiche di Rey, Almendres asserì che aveva un acquirente interessato e la pagò ben più di quanto Pascal avesse supposto. Consegnò l’assegno a Delgado e salutò la coppia augurandosi di rivederli presto. Appena fuori, Rey tirò fuori il cellulare per avvertire Gil.
Si erano allontanati di poco quando suonò il cellulare del commissario.
Rey ascoltò e si fermò.
– Aspetta, Torres. Gil dice che abbiamo già un collezionista in arrivo.
– Così presto?
– Torniamo indietro. Voglio vederlo. Ha detto che sarà lì tra un quarto d’ora.
– Che velocità! Come mai tutta questa fretta?
Rey e Consuelo si fermarono davanti a una vetrina, a pochi metri dall’antiquario. Purtroppo non c’era un posto dove nascondersi. Si finsero interessati, indicandosi qualcosa a vicenda, fino a che un uomo non entrò nel negozio di Félix Almendres. Dopo qualche minuto, cominciarono ad allontanarsi molto lentamente nella direzione da cui l’uomo era arrivato, voltandosi spesso a controllare che, uscendo, non si dirigesse altrove.
– Arriva – disse Rey, allungando leggermente il passo.
Quando l’uomo li superò, portando sotto il braccio quello che sembrava un quadro ben confezionato, lo seguirono. Era della grandezza giusta. Doveva essere la loro pergamena.
– Noi abbiamo la macchina là – disse Consuelo.
– E lui dove ce l’avrà?
– E se invece è venuto a piedi?
– Tu prendi la macchina, io lo seguo a piedi.
– Va bene. Teniamoci in contatto con il cellulare. Farò un isolato alla volta, se posso. Se lui svolta, dimmelo subito.
– D’accordo. Adesso vai, adelante! – rispose Rey.
Delgado lo seguì a piedi, svoltando a destra e a sinistra nelle vie traverse. Consuelo si perse quasi subito, perché si trovò contromano. Dopo un quarto d’ora, l’uomo varcò il portone di un palazzo vecchiotto a tre piani, con balconi coperti. Rey chiamò Gil per domandargli il nome del collezionista cui l’antiquario si era rivolto, poi lo cercò tra i nomi incisi in piccole targhe di ottone, ciascuna munita di pulsante. Consuelo arrivò in quel momento, per caricare Delgado.
– Il collezionista è entrato lì?
– Sì, si chiama Herrera. Abita in questa palazzina.
– Bene. Torniamo al commissariato?
– Prima andiamoci a cambiare – propose Rey.
– Grazie. Mi sento ridicola.
– Non dirlo a me.

– Gil, hai qualcosa? – chiese Delgado, entrando in ufficio.
– Teniamo d’occhio Miguel Herrera.
– Molto bene.
– E adesso? – chiese Consuelo, entrando a sua volta.
– Aspettiamo. Farà qualche telefonata? Ne parlerà con qualcuno? Vedremo.
– Dove stiamo andando, Rey? Non abbiamo niente di niente. Stiamo girando a vuoto.
– Lo so. Chiama Fidalgo. Senti a che punto è lui con Raúl de la Serna.
Consuelo chiamò. Rey ascoltò le sue risposte, la sua risata, vide che accennava un assenso con la testa, come se Diego potesse vederla. Mentre lui immaginava Fidalgo all’altro capo della linea, la telefonata si concluse.
– Allora?
– Hanno arrestato un certo numero di ricettatori, ma sono ancora in alto mare con l’omicidio. Non sanno dove sbattere la testa.
– Come noi.
Consuelo sospirò. Poi si alzò e andò a fermarsi davanti al muro del pianto.
– Il momento in cui mi è sembrato di essere più vicina a scoprire qualcosa di determinante è stato quando ho parlato con il giardiniere della Vieille du Lac.
– Perché non l’hai costretto a dirti tutto?
– Non lo so. E tu cosa ti aspetti dal giochetto della pergamena?
– Un collezionista che stia dietro a questi documenti storici deve saperne qualcosa. Oppure, se la fortuna ci aiuta, può capitare sotto il naso di uno dei cavalieri. Vediamo chi abbocca. Sono quasi certo che chi se l’è assicurato con tanta fretta, sappia di che cosa si tratta.
– Non necessariamente. Michelle Germond ne ha avuto uno sotto il naso per tutta la vita e non ne sapeva niente, o così sosteneva. Il conte Luis Antonio de Medina l’ha ereditato dal nonno, e non ne sapeva niente, o così ci ha fatto credere. L’antiquario ha detto che gliene sono passati altri tra le mani, ma ne ignorava il significato. Non ne aveva idea nemmeno il curatore del Centro Studi Araldici, che pure è un esperto. Se c’è dietro un segreto che non dev’essere svelato, ed è stato mantenuto fino a oggi, non saremo certo noi a scoprirlo. A noi basta capire chi ha ammazzato il duca e il giornalista. Comunque, per chiudere la faccenda, io faccio un ultimo tentativo: vado a leggermi il carteggio tra la regina Violeta Estela e il vecchio conte de Medina. E poi dell’Ordine non ne parliamo più.
– Ma è assurdo! Cosa pensi di trovarci? E poi è a Madrid!
– Non è all’altro capo del mondo, Delgado, è a due ore e mezza di macchina da qui.
Joder! A Madrid! pensò Rey. L’ultimo posto al mondo dove vorrei mandarti. Eppure rispose:
– Come vuoi. Io non ne posso più di archivi e biblioteche. Anzi, per essere precisi, non ne posso più di questo caso. Fammi un favore, se vedi Fidalgo, digli che non ce l’ho con lui.
– Riferirò.

 

 

Fernando Gil arrivò in ufficio presto. Ai cambi di stagione dormiva sempre poco. O meglio, crollava addormentato molto presto la sera e si svegliava presto la mattina. Consuelo era partita di nuovo e doveva vedersela da solo con Delgado, che diventava nervoso. Non riusciva a spiegarsene la ragione. Sarebbe spettato di più a lui, diventare nervoso in assenza di Consuelo. Quanto gli piaceva, quella donna, anche se somigliava a un cactus e bisognava tenerla alla giusta distanza, per non farsi pungere.
Andò subito a controllare le registrazioni. Finalmente c’era stato un po’ di movimento dal collezionista. Miguel Herrera aveva chiamato Jaime del Sol, annunciandogli di essere riuscito finalmente a mettere le mani su una pergamena molto rara, invitandolo a casa sua per ammirarla.

Miguel Herrera non volle credere subito di essere stato ingannato, ma il suo amico Jaime gli fece notare alcuni particolari che dapprima lo misero in dubbio, e poco dopo gli diedero la certezza.
– Almendres me la paga!
– Il certificato sembra autentico. Di sicuro è stato fregato anche lui.
– Ma adesso se lo riprende e mi restituisce fino all’ultimo euro.
– Mi sembrava strano che ce ne fossero in giro. Dicono che sia un titolo ereditario, che si tramanda di padre in figlio. Nessuno oserebbe disfarsene.
– Quanti ne esistono, secondo te?
– Sei o sette al massimo. Ho visto con i miei occhi quello del granduca Boris Konstantinovic Romanov, una volta. L’amica del duca di Najera non ne ha voluto sapere nulla di vendermelo. Ha detto che avrei dovuto passare sul suo cadavere.
– Chi? Michelle Germond? Quella sembra addestrata dalla Gestapo. Non so come Alfonso potesse sopportarla.
– E, infatti, non la sopportava più.
 
A Madrid c’era il solito caos organizzato. Consuelo respirò a pieni polmoni l’atmosfera d’indaffarata compostezza tipica della città. Ripensò a quanto le piacesse vivere là, ai locali che frequentava, alla gente che incontrava. Ma sembravano tutte cose lontane, cui aveva potuto rinunciare senza fare tante storie. In fondo, vivere in una città più piccola, quasi a misura d’uomo, non le dispiaceva affatto. Mentre si dirigeva all’archivio reale, telefonò a Diego Fidalgo, per informarlo che si trovava a Madrid. Lui la invitò ad andarlo a trovare, quando avesse finito con le sue letture impegnate. Consuelo dedicò alcune ore allo scambio di corrispondenza tra la regina Violeta Estela e i suoi vari amici e parenti, traendone l’immagine di una donna che si dimostrava forte per coprire le proprie debolezze. Aveva sofferto molto, ma una regina ha la prerogativa di saperlo nascondere. Luis Antonio de Medina senior era tra gli amici più affezionati. Ma questo non portava Consuelo di un solo passo più vicino alla verità.
Quando giunse nell’ufficio di Fidalgo, lui era seduto alla sua scrivania e stava leggendo qualcosa su un tablet.
– Hola, Ruminante, ti sei convertito alle nuove tecnologie?
– Consuelo, la mia guerriera preferita! – esclamò, alzandosi per abbracciarla.
– Attualmente disarmata e stanca...
– Siediti. Per rispondere alla tua domanda, no, non mi sono convertito, questo l’aveva lasciato Raúl de la Serna in casa della sua fidanzata. Ci prendeva appunti.
– E hai trovato qualcosa d’interessante?
Diego si guardò intorno con espressione imbarazzata.
– Andiamo a prenderci un caffè – le rispose.
Trasferì il tablet nel suo zainetto nero e se lo mise in spalla, indicando la porta. Una volta fuori, Consuelo lo guardò interrogativamente.
– Sì, ora conosco il segreto, – le sussurrò – ma è meglio che rimanga tale, te lo assicuro.
– Allora hai capito chi è l’assassino?
– Non ancora. Questa è un’altra storia.
– Non c’è un posto dove possiamo discuterne senza sussurrare?
– Andiamo a casa mia.

 

 

– Tu sei dimagrito, invece Kiko è cresciuto. Le due cose sono collegate? – commentò Consuelo, osservando l’iguana arrampicata in cima al tronco di un albero, in un angolo del soggiorno di Diego.
– Non mi pare – rispose il collega, distratto, lanciando uno sguardo assente al terrario.
– Allora, ti decidi a svelarmi questo terribile segreto?
Diego si schiantò sul divano a peso morto. Fissò lo sguardo nei suoi occhi e si lasciò andare a un sospiro rassegnato, come se fino allora fosse stato combattuto all’idea di spifferarglielo, e finalmente fosse giunto alla risoluzione che doveva farlo.
– Uno dei figli della regina Violeta Estela non era figlio di Alfredo XIII.
Consuelo sbarrò gli occhi. Rimuginò per qualche momento su tutto quello che sapeva e alla fine capì.
– Oh, cazzo! Boris! Ecco cosa intendeva il giardiniere. Boris ha vinto su tutta la linea… L’unico figlio in salute della regina, Manuel, era anche figlio suo! E per giunta è… Oh, cazzo! L’attuale re è suo figlio!
– Ci sei arrivata da sola. Cosa succederebbe se si scoprisse? Io sono arrivato alla conclusione che sia meglio lasciare le cose come stanno. È preferibile che questo segreto resti un segreto.
– Il giornalista voleva sbatterlo su tutti i giornali: è per questo che i custodi del segreto l’hanno fatto fuori.
– E chi gliel’aveva raccontato?
– Alfonso Traverso! Firmando la sua condanna a morte.
– E adesso ci resta una sola domanda.
– Chi è stato? – completò Consuelo.
Diego annuì, grattandosi il pizzetto.
– Se non vogliamo mettere in mezzo il re e i servizi segreti, ci resta una piccola cerchia di probabili sospetti: – propose Consuelo, contandoli sulle dita – il giardiniere, Michelle Germond e Luis Antonio de Medina. Uno solo di loro, o tutti assieme, perché no?
– Se escludiamo il re, che difficilmente poteva sapere cosa si stava tramando alle sue spalle, e i servizi segreti, che non credo siano così furbi da essere arrivati a saperne qualcosa, io mi concentrerei su Luis Antonio de Medina, dal momento che il giardiniere e Michelle Germond sono a Losanna. Luis Antonio de Medina aveva il movente e la possibilità, era nel luogo giusto al momento giusto. Magari è stato lo stesso duca a tradirsi con lui. Erano amici, no?
Consuelo lo fissò con sguardo vitreo.
– Merda, non lo so. Perché non lo so? In quest’indagine sto perdendo il filo. Lo chiedo a Gil – affermò, tirando fuori il cellulare.
Diego seguì la conversazione senza capirci molto.
– Allora?
– Era nella rubrica del duca, quindi si conoscevano. Adesso si accerterà se ci sono appuntamenti annotati sulla sua agenda. E poi cercherà di indagare sugli spostamenti di Michelle Germond. Del giardiniere non so neppure il nome, accidenti. Sono stata troppo superficiale.
– Non preoccuparti. Non si può sempre azzeccarle tutte. Non sarà difficile scoprirlo.
– Ah, prima che me ne dimentichi, ti saluta Delgado. Mi ha chiesto di farti sapere che non ce l’ha con te.
Diego sorrise appena, un po’ sorpreso.
– Mi fa piacere saperlo.
– Avete litigato?
– Non esattamente.
– Meno male.
– Hai poi deciso se chiedere il trasferimento oppure no?
– No. Credo di poter sopravvivere a Burgos.
– Delgado ne sarà contento.
– Dici?
– Te l’assicuro. Mi ha fatto una testa così.
– A me invece ha detto solo di rifletterci bene, ma sembrava proprio una minaccia.
– Lui è fatto così. Non è capace di esprimere calore umano, ma sotto la cenere cova tizzoni ardenti.
– Come sei poetico, Fidalgo. Non è che hai un debole per lui?
– Questo è un segreto che non ti rivelerò.
Consuelo rise. Diego cambiò argomento.
– Vuoi adottare Kiko? Sta cercando casa. Te lo regalo completo di terrario. Te lo porto a Burgos e te lo monto io.
– Sei impazzito? Dove lo trovo il tempo per occuparmi di quella lucertola gigante?
– T'impegna solo cinque minuti al giorno per dargli da mangiare. Il resto è tutto automatico.
– No, Diego. Se fosse un gatto, forse. Ma una lucertola, no, mi dispiace. Non saprei da che parte prenderla.
– Adesso te lo faccio vedere.
Consuelo lo fissò disperata.

Fernando Gil saltò sulla poltroncina. Consuelo gli aveva chiesto di indagare sui movimenti della Germond e del suo giardiniere, di cui era riuscito a identificare il nome, Gustave Tabas. E ora aveva appena fatto una scoperta che avrebbe potuto dare un forte impulso alle indagini. Rey sacramentò in ceceo.
– Ce l’avevamo in pugno sin dall’inizio! Era qui, quando sono stati uccisi il duca e il giornalista. Trova la data di partenza. Dobbiamo essere sicuri. Io intanto dico a Consuelo di cercarne la presenza negli alberghi.
– Consuelo è tornata?
– Sì, sta arrivando.
– Molto bene – commentò Gil con soddisfazione.
Delgado lo osservò per un attimo con curiosità, ma non disse niente.
Quando, poco dopo, Consuelo entrò in ufficio, trovò Rey che attaccava un biglietto al muro del pianto.
– Michelle Germond era sul mio aereo per Ginevra? Ma come ha fatto a…
– Evidentemente è arrivata alla villa prima di te.
Consuelo ci pensò.
– Ma certo! Io mi sono fermata a girare per i negozi e poi a fare colazione. E adesso che ci penso, il tassista mi disse che quello era il secondo viaggio che faceva alla Vieille du Lac. Lì per lì non ci ho fatto caso. Ero tutta concentrata sulla scoperta che l’agriturismo era la dimora della regina.
– Fernando ci dirà se era qui, quando sono stati uccisi il duca e il giornalista. Tu puoi cercarne traccia negli alberghi, mentre intanto io faccio due chiacchiere con Miguel Herrera e il suo amico Jaime. Li ho convocati qui. Dovrebbero arrivare tra poco. E di Fidalgo che mi dici? Ci sono novità?
– Sì, ce n’è una clamorosa, ma te la dico solo se chiudi la porta.
Rey sollevò un sopracciglio, fissandola negli occhi come se volesse leggerle nel pensiero. Non ci riuscì, quindi andò a sbarrare l’uscio.
Consuelo si spostò nell’angolo tra le due pareti rivestite di sughero. Rey la raggiunse, sempre più incuriosito.
– Che c’è?
– Diego ha scoperto il segreto della regina – gli sussurrò Consuelo.
Delgado ascoltò la sua rivelazione senza battere ciglio, quindi ci rimuginò sopra.
– Credo che abbia ragione Fidalgo. Meglio che ce lo teniamo per noi. José Cesar ne sarà a conoscenza?
– Chi lo può dire?
In quel momento bussarono alla porta. Consuelo si affrettò alla sua scrivania, mentre Rey andava ad aprire.
– Ci sono Miguel Herrera e Jaime del Sol – lo informò Fernando, lanciando un sorriso e un saluto con la mano verso Consuelo.
– Falli sedere alla tua scrivania. Io arrivo subito.
Il muro del pianto era una presenza ingombrante, che avrebbe potuto sigillare le labbra dei due collezionisti. Rey, invece, voleva porre domande cui pretendeva risposte quanto più possibile spontanee.
Consuelo lo vide concentrarsi un attimo davanti ai foglietti e alle foto appesi al muro. Vide che stirava la schiena e poi lo seguì con lo sguardo mentre lasciava la stanza.
Lei accese il computer, afferrò la cornetta del telefono e si dedicò agli alberghi. Ma quella non sembrava proprio la sua giornata fortunata. E se Michelle Germond si fosse fatta ospitare da qualcuno? Per esempio, dallo stesso duca di Najera? Consuelo andò a rileggersi le relazioni di Anson. Non erano state rilevate tracce di donne, in casa del duca, tranne un’impronta incompleta sulla pistola di Brunswick. Stranamente, non c’erano impronte sulla foto del cane. Avevano trovato invece tracce di uomini. Varie impronte e un capello corto, scuro, di cui stavano facendo le analisi del DNA. Consuelo si bloccò. Un capello? Si rivide spostare dal divano di Luis Antonio de Medina un lungo capello chiaro. Biondo. Biondo com’era bionda Michelle. Si domandò se il conte de Medina conoscesse Michelle.
Intanto Delgado era rientrato nel suo ufficio e stava prendendo appunti. Consuelo gli espresse il suo dubbio. Rey non fece in tempo a rispondere, che Fernando Gil entrò annunciando che Michelle Germond era partita da Ginevra il 1° maggio ed era rientrata il 7. Anche se lo sapevano già, tutti osservarono il muro del pianto. Il 2 maggio era stato ucciso il duca, il 5 maggio il giornalista. Consuelo aveva telefonato a Michelle il giorno seguente. La donna le aveva parlato come se si trovasse a casa sua, a Losanna, descrivendole quella bella giornata primaverile, e invece era là, in Spagna, in una giornata grigia e piovosa, che Consuelo ricordava perfettamente.
– La nostra signora Germond è molto prudente, oltre che furba. Che ne pensi della mia idea che l’abbia ospitata il conte de Medina?
– Potrebbe essere vero. Temo che dovremo fargli un’altra visita.
– Ha detto che non era un disturbo.
– Questa volta lo sarà. Mentre noi andiamo a trovarlo, tu, Gil, contatta Fidalgo a Madrid e digli di cercare la presenza della Germond negli alberghi, intorno al 5 maggio.
– Fidalgo non è a Madrid – lo corresse Consuelo.
– E dov’è?
– Qui. A casa mia, a montare il terrario.
– Non mi dire che è riuscito ad appiopparti Kiko!
– Ci aveva provato anche con te?
– Già.
– Beh, con me c’è riuscito.
– Sei troppo buona, Torres.
– Dalle mie parti lo direbbero in un altro modo, molto meno diplomatico – sospirò Consuelo.
– Allora pensaci tu, Fernando. Lascia perdere tutto il resto.
– E il giardiniere?
– Per ora puntiamo sulla Germond.

 

 

Il conte Luis Antonio de Medina non fu cortese come al loro primo incontro. Neppure li fece entrare in casa, adducendo la scusa di avere in corso una riunione di lavoro. Prima di sbattergli la porta in faccia, però, consigliò a Delgado di fissare un appuntamento.
Delgado fissò una perquisizione. Si era incazzato.
– E adesso andiamo a vedere come se la cava Fidalgo – disse a Consuelo, che gli sembrava sulle spine.
– Come ho potuto farmi convincere? – si lamentò.
– Dovresti dirmelo tu.
– È un rullo compressore. O ti convince o ti schiaccia.
– Non sai quanto hai ragione – commentò Rey.
Il soggiorno di Consuelo sembrava essere stato l’epicentro di un devastante terremoto. Diego era riuscito da solo a spostare tutti i mobili su un angolo, e stava lavorando nell’altro. Kiko era sdraiato sul divano.
Consuelo rabbrividì.
– Non credo di riuscirci, Diego. Ferma tutto!
– Ma ho quasi finito!
– Mi sono ricordata che alla firma del contratto di locazione, mi hanno imposto di non ospitare animali, quindi, smonta tutto.
– Ma…
– Rimetti tutto come stava, è un ordine! – urlò, tornando sui suoi passi e uscendo, non senza sbattere la porta.
– Ops! – esclamò Diego, guardando Rey.
Delgado si mise a ridere.
– Le donne sono volubili – la giustificò.
– E adesso che faccio?
Rey si sedette sul divano e prese in braccio l’iguana, accarezzandola dalla nuca alla coda. Kiko ne sembrò molto soddisfatto.
– Montalo a casa mia – gli propose.
– Nel tuo contratto non c’è il divieto di ospitare animali?
– L’amministratore ha parlato di cani e gatti. Non mi pare di avergli sentito nominare dinosauri in miniatura.
– Ti amo, Rey.
– Non dirlo davanti a Paco.
– Sarà il nostro segreto.

La perquisizione nell’appartamento del conte de Medina, che lui utilizzava anche come studio per i suoi affari, diede alcuni risultati soddisfacenti. L’onorificenza del nonno era appesa esattamente dove la ricordava Pascal. Il conte conosceva benissimo il duca ucciso, tanto che gli trovarono una foto di gruppo, di alcuni anni prima, in cui, tra gli altri, erano presenti Alfonso Traverso, Michelle Germond e Jaime del Sol. La sua presenza nella stessa foto non era una prova schiacciante, ma il braccio di Alfonso Traverso sulle sue spalle e il suo braccio sotto quello di Michelle, lo erano abbastanza da decretare la loro confidenza, se non un’amicizia profonda. Inoltre, il capello chiaro che Consuelo aveva spazzato via con la mano, incredibilmente, era stato ritrovato ancora vicino al divano, mentre un altro era impigliato in un cassetto del bagno di servizio, utilizzato per riporre una quantità di spazzole e pettini di varia foggia. Cosa se ne facesse di tutta quell’attrezzatura tricologica il conte de Medina, vista la scarsa chioma di cui era provvisto, Consuelo non seppe spiegarselo. Si spiegarono invece benissimo cosa ci facesse una Mauser 7,65 incastrata sotto la base del divano, nel poco frequentato salotto del conte. Al commissariato, dopo una lunga serie di domande senza risposta, il conte annunciò che avrebbe parlato solo in presenza del suo avvocato. Delgado fece un incredibile sforzo per non mandarlo al diavolo.
– Allora lo faccia venire qui – gli disse Rey, che stava perdendo la pazienza.
Consuelo decise di portarselo al bar. Rey le concesse di farsi trascinare solo fino ai distributori automatici.
– Capo, fai un respiro profondo, ormai ce l’abbiamo in pugno. Lo possiamo incriminare per omicidio, non appena la balistica ci confermerà che la Mauser è l’arma dei delitti.
– Aspettiamo notizie da Losanna, prima di sparare a zero. Fidalgo si è fatto sentire?
– Ha chiamato appena sceso dall’aereo. Cercherà di procurarsi impronte digitali e campioni organici sia della Germond che di Gustave Tabas.
– Intanto lavoriamoci il conte. Vediamo se arriva quel maledetto avvocato.
La presenza dell’avvocato servì a poco. Il conte rispose a una sola domanda, con tutta la convinzione di cui fosse capace:
– Non ho ucciso io Alfonso Traverso.

 

 

Il ritorno di Diego restituì a Rey un po’ di buonumore. Lo ricevettero in ufficio a porte chiuse. Per prima cosa Fidalgo assicurò che aveva prelevato campioni e impronte digitali. Poi raccontò che aveva chiacchierato amabilmente con Michelle Germond, ricavandone l’impressione che fosse completamente pazza. Soltanto per aver osato una velata critica nei confronti della regina e di Boris, la donna si era scagliata contro di lui come una furia, e per provarlo ne mostrò i segni sulle braccia, dove alcuni graffi davano l’impressione che fosse stato aggredito da un gatto selvatico. Il suo cauto incontro con il giardiniere era invece rimasto nei limiti della civile convivenza. Gli aveva chiesto alcuni consigli sulla coltivazione delle rose e l’uomo era stato ben felice di raccontargli la storia delle sue esperienze, dai primordi ai giorni nostri. A suo dire, il granduca Boris Konstantinovic Romanov, aveva battezzato un suo innesto Violeta Estela, in onore della sua amata. Gustave, con orgoglio, lo considerava un premio prezioso. Si era talmente lasciato andare alle confidenze, che si era spinto fino ad affermare che era meglio di una medaglia o di quelle stupide pergamene che regalavano ai loro amici e parenti.
– Gustave mi ha detto che una di quelle pergamene fu assegnata anche a Manuel, il figlio di Violeta Estela.
– Quindi lo misero al corrente che il suo vero padre era Boris – ne dedusse Consuelo.
– Sarei curioso di sapere se lui lo confidò mai a suo figlio – disse Rey.
– Non so perché, ma io credo di no – affermò Diego.
– Sarà meglio non rivangare vecchie storie. Abbiamo avuto già diverse guerre civili per molto meno – consigliò Rey.
– Non credo che una notizia del genere, al giorno d’oggi, scatenerebbe simili conseguenze – commentò Consuelo.
– Fidatevi, è meglio riseppellire tutto. Dimentichiamoci di questa storia – disse Diego, appoggiando l’opinione di Rey.
– Ma è il movente di due omicidi! – obiettò Consuelo.
– Di moventi se ne possono trovare altri – suggerì Diego. – E poi, quando avremo le prove, i moventi non ci serviranno più.

Le indagini di Fidalgo nel mondo dei ricettatori di opere d’arte e di antiquariato erano state estese anche a Burgos, senza trovare niente. In compenso, durante una perquisizione, nelle cantine di Felix Almendres era stata trovata una statua romana di epoca classica, che l’aveva messo nei guai. Però, di tutto questo, non importava niente a nessuno. Tutti aspettavano col fiato sospeso che la scientifica si decidesse a dare notizie. Passarono diversi giorni prima che Anson fornisse il suo responso: nessuna corrispondenza tra i campioni prelevati al conte de Medina e a Gustave, con quelli presenti sulle due scene degli omicidi. Invece, l’impronta sulla pistola di Brunswick, risultava appartenere a Michelle Germond, così come i due capelli biondi trovati in casa del conte de Medina, e una mezza impronta sulla Mauser, che pure sembrava essere stata ripulita con cura. Consuelo si domandò come mai invece non erano state ritrovate sulla foto del levriero afgano che Michelle aveva spedito al duca. Le aveva accuratamente cancellate? Perché? Sapeva già che l’avrebbe ucciso? Ma allora, perché aveva toccato la pistola antica? Infine, Consuelo ricevette risposta a un suo preciso quesito. C’era corrispondenza tra la calligrafia del messaggio sulla foto dell’afgano e quella sul biglietto Per il Re? Il perito calligrafico l’aveva finalmente accertato e confermato. Rimaneva quindi un unico dubbio: la Mauser era davvero l’arma dei delitti? Rey era di pessimo umore. Consuelo ne pagò le conseguenze per un paio di giorni, poi il suo spirito combattivo prevalse. Iniziò a rispondergli con battute taglienti, affilate come spade. Sotto quei colpi, Rey parve risvegliarsi all’improvviso, comprendendo che il suo atteggiamento avrebbe potuto compromettere i loro rapporti. E di sicuro non era quello che voleva. Era nervoso. Non solo perché le indagini si muovevano con una lentezza esasperante, ma anche perché ogni sera, davanti allo sguardo carezzevole di Paco, provava un rimorso postumo. Si sentiva in colpa. Ma poi si giustificava con se stesso, dicendosi che lo amava profondamente, che con Diego c’era stata solo una scopata e nient’altro. Niente che avesse coinvolto i suoi sentimenti, niente che potesse sminuire il loro rapporto. Il problema era che, ogni giorno di più, gli pesava nasconderglielo. Avrebbe preferito che non ci fossero ombre né segreti, tra loro. Poi si riscosse, ricordandosi dov’era.
– Scusami, Torres. Non ce l’ho con te.
– Tu non ce l’hai con me, ma te la prendi con me. Sono stufa, Delgado, di essere il capro espiatorio delle tue paturnie. Hai fatto lo stesso con Fidalgo? È per questo che mi hai mandata a dirgli che non ce l’avevi con lui?
Delgado si sorprese del lucido intuito di Consuelo e incassò, sollevando le palme al cielo come ad ammettere la propria colpa, ma anche a scusarsene, riconoscendo che non poteva farci niente.
– Lo so quello che ti fa innervosire. Ma ho appena ricevuto l’informazione che ti farà stare meglio. La balistica ha stabilito che la Mauser è l’arma usata per gli omicidi del duca Traverso e del giornalista.
Delgado balzò in piedi come una molla.
– Ecco! Adesso finalmente possiamo muoverci.

 

 

Quando si presentarono davanti alla sua porta, il conte Luis Antonio de Medina li accolse con un sorriso mesto, da martire.
– Siete qui per arrestarmi?
– Sì. Deve seguirci al commissariato.
Il volto del conte diventò grigio.
Il locale adibito agli interrogatori era al piano seminterrato. Le finestre, poste in alto, erano blindate con robuste sbarre dipinte di nero. La porta fu chiusa alle loro spalle da un corpulento agente che si pose a guardia dell’ingresso, ben visibile attraverso un vetro retinato. Delgado aspettò che il conte si sedesse, poi cominciò a girare per la stanza, mentre Consuelo si sedeva di fronte a lui. Un robusto tavolo li separava. Il volto grigio di de Medina, chiuso in un ostinato silenzio, mostrava un’angoscia profonda.
– Ci racconti com’è andata, signor conte. Come ha ucciso il duca Traverso?
Il conte sobbalzò.
– Non sono stato io!
– Allora è stata la sua amica, Michelle Germond?
Il conte non sembrò molto sorpreso di quella domanda, ma non rispose.
– Va bene. Glielo dico io, com’è andata – affermò Delgado, alle sue spalle.
Mentre raccontava quello che sapevano sulle vere origini del re, Delgado girò intorno al tavolo, per porsi di fronte a lui, osservandone attentamente le reazioni.
– Da quando… sapete? – domandò il conte, con voce incerta.
– Le domande, se non le dispiace, preferisco farle io.
All’improvviso de Medina si rianimò.
– Apprezzo molto il fatto che, sia voi, che il vostro collega di Madrid, non abbiate divulgato…
– … il segreto della regina? – completò Consuelo.
– Proprio così.
– Come fa a esserne certo?
– Una notizia del genere sarebbe finita sulle prime pagine di tutti i giornali, in un batter d’occhio.
– Sì, abbiamo deciso di mantenere il segreto anche noi. Sarebbe troppo destabilizzante e pericoloso per il paese.
– Esatto.
– Del resto, non è forse per questo che ha ucciso il duca Alfonso Traverso e il giornalista Raúl de la Serna? Davvero un ottimo sistema per impedire che divulgassero questa storia – intervenne Rey, mostrando una grande sicurezza.
– Io non ho ucciso nessuno.
– La pistola che teneva nascosta sotto il divano dice il contrario.
– Quella pistola non è mia. Io non l’avevo mai vista prima.
– E chi può averla nascosta in casa sua, allora?
– Non lo so.
– Non sarà stata forse Michelle Germond?
Il conte si passò una mano tremante sulla fronte. Stava sudando copiosamente.
– Lei ha ospitato la signora Germond, quindi può avercela nascosta lei – insistette.
– Le conviene parlare, signor de Medina, se non vuole essere accusato di duplice omicidio – incalzò Consuelo.
Il conte sospirò, con espressione rattristata. Infine, la decisione di abbandonare il suo riserbo gli si lesse in faccia, prima ancora che cominciasse a parlare.
– Il duca Traverso era mio amico. Non c’è niente di più penoso che perdere un amico in questo modo stupido. Avevo tentato più volte di farlo ragionare, quando mi aveva detto di essersi rivolto a quel giornalista. Io non sapevo cosa fare, allora ne ho informato Michelle Germond, sperando che almeno lei riuscisse a farlo desistere da quella follia. Lei ci ha provato, potete credermi, ma in ultimo, non ha trovato altra soluzione che farlo tacere per sempre, purtroppo. E con lui, il giornalista.
– Quanti membri appartengono all’Ordine Dalcassiano? – domandò Consuelo.
– Viventi, tre.
– Lei, Michelle Germond e Gustave Tabas, giusto?
– Avete individuato anche Gustave Tabas! – esclamò, con una sorta di rassegnata ammirazione.
– E perché Michelle ha sottratto l’attestazione del duca?
– Gliel’ha ritirata perché ha tradito. Non la meritava più.
– La pistola è sua, conte? – gli chiese Delgado.
– No, se l’è procurata Michelle, non so dove.
– E lei l’ha ospitata per l’occasione.
– Lo ammetto, ma non sapevo che sarebbe arrivata a tanto.
– Però c’è arrivata. E dopo aver ucciso il duca, si è recata a Madrid per completare il lavoro. È andato con lei?
– No. Abbiamo litigato. Io ero contrario.
– Eppure, Michelle ha portato a termine il suo progetto criminale, uccidendo anche Raúl de la Serna. In seguito, nonostante avesse litigato con lei, la sua amica ha avuto la sfacciataggine di tornare a casa sua.
– Voleva convincermi che non aveva avuto alternative.
– E poi doveva nascondere la pistola da qualche parte…
– Non sapevo che l’avesse nascosta da me.
– Non faccio fatica a crederle – commentò Consuelo.
– Se lei collaborasse, potremmo tenerne conto – propose Delgado.
– Collaborare? In che senso? – domandò, con lo sguardo allucinato.
– Trovi una scusa per far tornare qui Michelle Germond.
– E come?
– Lei la conosce bene. Le verrà in mente un modo.
Luis Antonio de Medina si coprì il volto con le mani. Respirò rumorosamente un paio di volte, cercò di calmarsi e poi riemerse con uno sguardo meno stralunato.
– Le dirò che Alfonso Traverso l’ha nominata nel suo testamento e che c’è bisogno della sua presenza.
– Si fiderà?
– Di me, per il momento, si fida ancora.
– Per ora, la lascio tornare a casa, ma non tenti qualche scherzo, altrimenti, la prossima volta che ci vedremo non saremo più tanto generosi, con lei. Chiami subito la sua amica e mi avvisi immediatamente quando partirà.
– Lo farò, non ne dubiti.

Pochi giorni dopo, quando Michelle Germond mise piede all’aeroporto Villafria, fu immediatamente presa in custodia da due robusti poliziotti in divisa. Lei non fece una piega. Solo, incassò il collo nelle spalle, come se all’improvviso la gravità terrestre agisse su di lei con una pressione maggiore. Il cielo di Spagna le pesò sulla testa. In occasione del suo primo interrogatorio, Diego Fidalgo volle essere presente. Michelle Germond guardò di sfuggita Consuelo e Diego, che conosceva già, per appuntare il suo interesse sulla figura di Delgado, che vedeva per la prima volta. Fu proprio lui a rivolgerle le prime domande. Ovviamente, la Germond non sembrava molto in vena di parlare. A Consuelo sembrò singolare, sapendo che di solito era una donna che non sapeva stare zitta. Certo, la situazione era molto diversa da quella in cui l’aveva conosciuta. Dopo i primi tentativi di convincerli che non sapeva di cosa stessero parlando, Fidalgo adottò una tecnica già sperimentata. Osò un paio di battute volgari nei confronti della regina Violeta Estela, che scatenarono immediatamente la reazione di Michelle. La lasciarono parlare a ruota libera, in attesa che si tradisse, ma lei non ci cascò. E quando finì di sfogarsi, si rinchiuse in un silenzio impacciato, ma ostinato.
– Sappiamo tutto, signora Germond. Abbiamo le prove che lei ha ucciso il duca Alfonso Traverso, suo intimo amico, e il giornalista Raúl de la Serna, perché stavano per rivelare il segreto della regina Violeta Estela. Quel segreto di cui lei ha scelto di essere l’attenta custode, per difendere il trono di José Cesar.
Il volto della donna sbiancò, ma s’impose di non pronunciare più nemmeno una parola.
– Va bene, se non vuole dire nulla a noi, lo farà al processo – concluse Rey, dopo alcuni altri tentativi fallimentari.

 

 

– Non parlerà – affermò Consuelo, mentre tornavano in ufficio.
– S’inventerà qualche storia. È una donna intelligente. E anche se non vorrà mai spiegare perché ha ucciso il duca e il giornalista, la decisione sulla sua sorte non è di nostra competenza.
– Per fortuna.
Fernando Gil vide rientrare Delgado, Torres e Fidalgo, con espressioni serie e insoddisfatte. Consuelo lo guardò e gli sorrise. Fernando ebbe un tuffo al cuore.
– Ci sono novità, Consuelo? – le chiese, mentre gli passava davanti.
Lei tentennò il capo in un diniego, ma gli rispose Rey:
– La Germond è un osso duro. Non vuole parlare.
– Poco importa. Ci sono abbastanza prove e testimoni per farla condannare – aggiunse Diego.
– Mi è venuta fame – affermò Consuelo, senza sapere di aver anticipato Diego di un soffio.
– Stavo giusto andando a cenare. Vieni con me. Offro io – osò Fernando.
Rey lo osservò, sollevando un sopracciglio, dicendosi che il suo dubbio diventava una certezza. Tra quei due c’era del tenero. Bene. Chiodo scaccia chiodo. E lui si sarebbe tenuta la sua vice.

Nella sua cella buia, Michelle se la prese mentalmente con Luis Antonio. Anche lui l’aveva tradita. Alla fine aveva parlato: i poliziotti sapevano tutto. Avrebbe fatto bene a sbarazzarsi di tutti loro: non solo di Alfonso e di quello stupido giornalista, ma anche di quel chiacchierone di Gustave e di quello smidollato di Luis Antonio. Solo lei era capace di mantenere davvero un segreto. Solo lei. E adesso quel segreto sarebbe stato divulgato in tribunale. Altri giornalisti ne avrebbero scritto articoli, infangando la memoria della regina e portando lo scandalo fino al re. Non poteva permetterlo. Non si doveva parlare di quella storia. Il silenzio doveva prevalere. Silenzio su tutto. E quella notte il silenzio prevalse. Mentre l’aria le veniva meno, un singolo ricordo affiorò da un lontano passato dimenticato. Si rigirava tra le piccole dita un quadrifoglio che aveva trovato sul prato, e pensava che la fortuna l’avesse baciata per sempre. Avrebbe conosciuto un uomo meraviglioso come il granduca Boris, che l’avrebbe amata come lui amava la regina, sarebbe stata ricca e felice, e tutti i suoi giorni sarebbero stati come quello, luminosi, profumati, esaltanti. Nel buio umido e tetro di quella cella, Michelle Germond esalò l’ultimo respiro.

 

 

Come in trance, Rey depose lentamente la cornetta del telefono, guardando Consuelo con una strana espressione.
– Che cosa è successo? – gli domandò lei, preoccupata.
– Michelle Germond si è impiccata nella sua cella, stanotte.
Consuelo ripensò incredula alla donna energica e briosa che aveva conosciuto, e che gestiva la Vieille du Lac con amore appassionato e pugno di ferro.
– Ha voluto mantenere il suo segreto fino in fondo.
– E con il suo gesto estremo ha chiesto a tutti noi di fare altrettanto.

Quando Rey tornò a casa, quella sera, trovò Paco chino davanti al terrario, impegnato a nutrire il loro nuovo ospite. Dopo un primo momento di grande perplessità, Paco gli si era affezionato. E a quanto pareva, il sentimento era reciproco. Kiko preferiva ricevere il cibo dalle mani di Paco, invece che dalle sue; prediligeva le carezze di Paco, piuttosto che le sue; adorava restarsene appollaiato sulla spalla di Paco, anziché sulla sua.
– Traditore! – disse Rey, rivolto a Kiko, che masticava inespressivo un ciuffo di basilico.
– Io non ti ho mai tradito – obiettò Paco.
– Dicevo a lui.
– E tu l’hai fatto?
Rey trasalì.
– Dicevo a Kiko, che ti preferisce a me.
Paco si rimise in piedi, serrando la vetrina, e si voltò verso Rey. Lui lo baciò sulla bocca, socchiudendo gli occhi. E mentre sperava che Paco ne fosse distratto, si sentì un vigliacco.
– Adesso tocca a te. Ti ho preparato un piatto speciale, perciò non hai ragione di esserne geloso.
– Non sono geloso.
– È questo che mi dà un po’ da pensare. Mi ami sempre, Rey?
– Certo che ti amo.
– In amore non ci sono certezze.
– Io ce l’ho.
– Diego è partito?
Rey fu percorso da un brivido gelido lungo la schiena.
– Sì, ieri, subito dopo l’interrogatorio della Germond.
– Tornerà per il prossimo?
– Si è impiccata stanotte. Non ci saranno più interrogatori per lei.
Paco ne parve sorpreso e dispiaciuto.
– Cosa l’ha spinta a farlo, secondo te?
– Non lo so.
Rey ripensò al segreto della Germond e a una vita votata al suo mantenimento. Si era rivelata una custode integerrima, guardiana implacabile, con l’unico scopo d’impedire il diffondersi di una verità ormai lontana, che pure poteva ancora trovare il modo di causare sconvolgimenti nella vita di tutti. Si era trattato di un peso gravoso da portare, eppure lei aveva scelto di farlo, fino in fondo, decidendo di abbracciare un destino senza sconti.
– Mmm, credo che tu lo sappia, ma ti capisco se non vuoi parlarne con me.
Rey guardò Paco, il suo Paco. Si fidava di lui. Ciecamente.
– No, non è così. Adesso ti racconterò questa storia. Ti racconterò tutto.
– Proprio tutto, Rey?
Delgado decise che era giunto il momento di togliersi ogni peso dallo stomaco.
– Sì, proprio tutto.

 

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Il falsificatore