Hector si agitò sul seggiolino dello stadio, mentre gli spettatori attorno a lui si muovevano per trasferirsi verso le uscite. Era saturo. Quelli erano i pasti che preferiva. Passioni sfrenate, ghiotte, anche un po’ rustiche, che lo colpivano da ogni parte e lo nutrivano abbondantemente lasciandolo sazio per molto tempo. Quando intorno a lui non ci fu più nessuno, sospirò e si alzò per dirigersi verso l’uscita.

 

Su una panchina del parco, nei pressi dello stadio, Ginevra guardò negli occhi Victoria e le lesse in viso che l’aveva convinta, finalmente. Era stato difficile. Ma poiché per lei era di vitale importanza, ce l’aveva messa tutta.
- Sei proprio sicura? – le chiese l’amica, ancora una volta.
- Ti ama, Victoria. Me l’ha confessato ieri sera e non sai quanto gli sia costato. E’ arrossito come un adolescente. Ti ama, credimi. Non ti farà soffrire. Non è più come quando aveva quindici anni. Adesso sa esattamente quello che vuole e vuole te.
Victoria distolse gli occhi da Ginevra e li abbassò sulle proprie mani giunte, osservandole come se appartenessero a qualcun altro.
- Ginevra, tu sai quanto ho sofferto per questa storia. Non è che abbia proprio paura, ma non me la sento di tornare a soffrire come allora.
- Non succederà. – affermò con sicurezza. Ormai l’aveva convinta. Lo sapeva.
Hector aveva assistito a quella conversazione, nascosto dietro un albero. Vi si era bloccato non appena aveva udito la voce di Ginevra. Conosceva quella voce, riconosceva i suoi sentimenti e le sue emozioni. Li aveva incontrati per caso la sera precedente, in un bar del centro. Parlava con un uomo. Hector si era sentito subito vagamente incuriosito. C’era in lei qualcosa in cui non gli era mai capitato di imbattersi. La donna, col viso accaldato, guardava l’uomo con adorazione. Hector aveva riconosciuto un sentimento dolce e tenace, qualcosa di molto nutriente di cui tuttavia non aveva voluto cibarsi. La donna che amava quell’uomo, stava perorando la causa di un’altra. Incredibile. L’uomo era fortemente attratto da lei, ma i suoi sentimenti per l’altra erano ugualmente forti e si dibatteva nell’incertezza. Avrebbe preferito convincere lei, che esserne convinto, eppure aveva ceduto. Ginevra. Si chiamava così. Hector leggeva il suo amore per quell’uomo, un amore incondizionato, puro, profondo e tenace, e non riusciva a comprendere perché lei lo stesse spingendo verso un'altra, invece di avvincerlo a sé, come qualunque altra donna avrebbe fatto. Ne assaporava il sottile dolore di sottofondo, non era amaro o acre come avrebbe dovuto, era invece un dolore dolce, anche quello come il sapore del suo amore. Straordinario.
Anche in quel momento, mentre convinceva Victoria a incontrarsi con Robert, Hector sentiva provenire da lei il medesimo dolore. Era un sentimento soave, eppure privo di debolezza o dell’ansia di fuggirne. Era strano. Quella donna era strana. Inquietante, interessante, sconvolgente. Non si era mai imbattuto in niente del genere, da quando aveva subito la trasformazione, molti anni prima.

Hector aveva trent’anni quando aveva incontrato lo stregone degli Xaugant, nel bel mezzo della foresta amazzonica. Dopo i primi tre mesi in cui lo avevano lasciato studiarli da lontano e prendere appunti, qualcosa era cambiato. Un giorno, forse convinti che fosse del tutto innocuo, l'avevano invitato ad avvicinarsi, accogliendolo con un banchetto, e strappandolo per sempre alla sua vita.
L’incontro con lo stregone era stato determinante. Qualcosa in lui lo terrorizzava, ma non sapeva cosa. Lo aveva scoperto solo in seguito a quella notte tremenda, la più lunga di tutte, la sua notte eterna. Da allora non si era più nutrito di cibo e non era più invecchiato. Si cibava di sentimenti ed emozioni, privandone le sue vittime, lasciandole svuotate e quasi prive di umanità. Solo in seguito aveva compreso che gli umani si riprendevano, che avevano risorse inesauribili e che per un amore smarrito ne rinasceva un altro, col tempo. Ciononostante, Hector preferiva nutrirsi di cibo grezzo e grossolano, come le passioni sportive, in luoghi affollati come gli stadi, o agli incontri di boxe intorno a un ring, dove la violenza era quasi tangibile e il sapore greve e pesante gli restava in circolo per molto tempo, lasciandolo davvero sazio.
Di suo non aveva mantenuto sentimenti, quasi nulla lo colpiva a sufficienza da provocargli reazioni. La curiosità, forse, ma davvero di rado. Quella donna, Ginevra, gliel’aveva rimessa in circolo, in maniera davvero impressionante. Era bello sentir circolare dentro di sè un’emozione tutta sua. Provare qualcosa, sentirne il sapore e quasi potersene autonutrire, per bastare a se stesso. Che condizione stupefacente. Fu quella sensazione a spingere Hector a muoversi dietro di lei, che aveva lasciato la panchina e si dirigeva fuori dal parco con passo deciso. Ginevra aveva la pelle chiarissima, spruzzata di efelidi delicate, l’andatura leggermente ondeggiante delle donne che portano scarpe basse, la vita sottile appena sfiorata dai lunghi capelli rossi, ondulati, legati in una semplice coda di cavallo. Portava pantaloni beige molto larghi e un giubbetto di pelle blu, abbottonato fino al collo.
Hector non sapeva leggere nei pensieri, ma come se lo avesse fatto, intuì che la donna stava piangendo. La superò e le vide in viso scorrere le lacrime. Ginevra si voltò a guardarlo stupita. Non lo aveva sentito avvicinarsi e ne fu quasi spaventata. Hector le sorrise appena e le mormorò:
- Posso aiutarti?
Ginevra si asciugò le guance con una mano e rispose in un soffio:
- No, grazie. Va tutto bene.
Hector fu investito dalla sua emozione. C’era gioia in lei, non dolore, come si era aspettato. Come poteva essere possibile?
- Come può farlo? Non la capisco. – si lasciò sfuggire, parlando tra sé, a voce così bassa da essere a malapena un sussurro.
Ma Ginevra aveva sentito benissimo.
- Di cosa stai parlando? – si stupì.
- No, niente… E’ meglio che vada. Arrivederci. – la salutò, avviandosi per la sua strada, mentre si chiedeva cosa gli stesse accadendo. Come poteva essere diventato tanto stupido? Forse si era nutrito in eccesso, causando danni al suo cervello? Non gli era mai successo.
Ginevra si chiese cosa avesse voluto dire quell’uomo. Le sembrava di averlo già visto, ma non ricordava dove. I suoi pensieri si concentrarono su di lui finchè non lo vide svoltare in una via laterale. I suoi capelli neri afferravano raggi di luce solare trasformandoli in lampi blu.  I suoi abiti neri sembravano fatti apposta per mimetizzarlo tra la folla. E i suoi occhi, li aveva visti bene, avevano il colore delle foglie in una foresta dove la luce solare non riusciva a infiltrarsi. Il suo volto era inquietante, freddo, distaccato, eppure le aveva parlato, si era interessato delle sue lacrime, aveva provato compassione per lei. Ciononostante, tra la sua espressione e le sue parole, aveva notato una dicotomia che le aveva provocato un brivido. Estraniante. Questo le era sembrato, prima che la confondesse con quella frase “Come può farlo? Non la capisco.” Come faceva a sapere quello che aveva appena fatto? E davvero si riferiva a quello? E poi cosa gli importava? Lei sapeva che era la cosa giusta. La scelta migliore. Victoria amava Robert da sempre e Robert aveva amato Victoria senza saperlo. Dovevano stare insieme. Poco importava che lei fosse follemente innamorata di Robert. Non era lei quella giusta. Non poteva dare un simile dolore a Victoria. Sapeva che era la cosa migliore da fare. Altrimenti perché provava quella sottile felicità, più forte del dolore?
Hector non si lasciò distrarre. Riusciva a seguire i sentimenti di Ginevra anche in mezzo alla folla. Avevano un’impronta particolare, quasi una voce, più profonda e affascinante di ogni altra, una purezza che lo lasciava di stucco. Erano, come dire? luminosi.
Tornò a seguirla più da vicino, facendo molta attenzione a non farsi vedere da lei. Non gli era mai capitato di lasciarsi assorbire così completamente da una preda. Preda? A quel pensiero qualcosa si rivoltò nel suo stomaco. No, Ginevra non sarebbe mai stata una preda per lui. Come poteva anche solo immaginare di sottrarle i suoi sentimenti, così unici e rari, per lasciarla svuotata? Era un pensiero orribile. Allora perché la stava seguendo? Perché non la lasciava in pace a vivere la sua vita? L’attrazione che provava per lei era qualcosa di nuovo e vagamente esaltante. Non poteva darle un nome e ancora non ne comprendeva il significato, ma di sicuro sapeva di non poterne fare a meno.
Una volta uscita dal lavoro, Ginevra chiuse in un compartimento stagno della sua mente le preoccupazioni professionali, e tornò a pensare a Robert e Victoria. A quel pensiero le tornò alla mente l’uomo misterioso del parco, e scacciò subito via anche quello, come un insetto molesto. Era venerdì sera, ma lei non sarebbe andata fuori con nessuno. Avrebbe cenato in casa da sola, poi avrebbe guardato un po’ di tv e infine avrebbe infilato un pigiama e si sarebbe lasciata andare al mondo dei sogni. Non aveva alcun programma per il fine settimana e rendersene conto, all’improvviso, la rattristò.
Mentre girava le chiavi nel portone di casa, vide un movimento con la coda dell’occhio. Si voltò di scatto, ma non vide nessuno. Le tornò in mente quell’uomo, ma fu il pensiero di un attimo. Subito lo respinse.
Quello che non poteva in alcun modo controllare, era il tenore dei suoi sogni. Ginevra si svegliò in un bagno di sudore. L’uomo nero aveva invaso il suo tranquillo mondo onirico, trasformandolo in un territorio spaventoso, disseminato di pericoli sconosciuti e decisioni deliranti. Per fortuna, non ne ricordava più nulla, tranne gli occhi che la seguivano. Perché un incontro casuale tanto breve e insignificante dovesse aver fatto breccia nelle sue paure più nascoste, le risultò un mistero. Ma non c’era solo paura, in quel sogno, ne era certa. Aveva provato curiosità, attrazione e una strana eccitazione. Alla fine della mattinata, che aveva trascorso senza combinare nulla, aveva deciso che forse, se lo avesse rivisto e ci avesse parlato, tutto sarebbe rientrato nella giusta prospettiva. Ma dove trovarlo?
Nel pomeriggio, quasi sfinita da quell’ansia che la attanagliava senza motivo, decise di fare una passeggiata nel parco dove l'aveva incontrato.

 

Hector si era riposato un paio d’ore, quella notte. Non dormiva, nel vero senso della parola, ma staccava la spina. Si concedeva di chiudersi in se stesso senza lasciare che i sentimenti altrui lo raggiungessero. Era riuscito a tanto, solo dopo molti anni di allenamento. Era convinto che più avesse indugiato in quell’esercizio,  più a lungo sarebbe riuscito a mantenersi fuori dal mondo. Era il suo modo di dormire. Si chiudeva in un guscio. Non pensava a nulla, non sentiva nulla, era vuoto, cavo, silenzioso. Ma quella notte il suo riposo era stato più breve del solito, disturbato molto presto dal pensiero di Ginevra, dai sentimenti di tristezza che l'avevano colpito mentre lei rientrava in casa, dal ricordo del suo inquietante sguardo grigio. E poi, per tutta la mattina, quella specie di ansia che veniva scacciata e ripresa senza posa. Quando si era reso conto che lei si stava muovendo, naturalmente, l’aveva seguita. Cos’altro poteva fare? Non riusciva proprio ad allontanarsi da lei.

Benchè si tenesse a debita distanza, Hector aveva seguito i sentimenti di Ginevra fino al parco. Pensò che forse aveva appuntamento con la sua amica. Entrò nel parco con circospezione, per evitare di farsi notare da lei, ma quasi subito la vide. Era ferma nello stesso punto in cui lui l’aveva fermata il giorno precedente per rivolgerle quelle stupide frasi. Ginevra si guardava intorno come in cerca di qualcuno, ma i suoi sentimenti erano privi di speranza. Sapeva già di non poter trovare chi cercava? Aveva perso qualcosa?
Hector la seguì con lo sguardo, nascondendosi dietro alti cespugli sul bordo del sentiero. L’attrazione che esercitava su di lui era potente come una calamita, così potente che quasi lo lanciò fuori, mostrandolo alla sua vista. Hector riuscì a trattenersi per qualche minuto, ma poi fu costretto a cedere.
Ginevra lo vide camminare tranquillamente nella sua direzione. Lo fissò negli occhi e gli sorrise, proprio come se lo stesse aspettando.
Dio, che sorriso! Il sole era meno luminoso di quel sorriso, era un cantico delle creature, una sinfonia di Beethoven, un’aurora incendiata in un cielo limpido. Hector ne fu colpito in modo inaspettato. Era una vita che nulla aveva il potere di colpirlo in quel modo. Si bloccò.
- Salve! – disse Ginevra con la sua voce morbida e vellutata, muovendo un passo verso di lui.
Un brivido percorse le orecchie di Hector.
- Salve. – rispose, non riuscendo ancora a muoversi.
- Ci si rivede. Lei viene spesso in questo parco? – chiese lei, come volesse intavolare una tranquilla conversazione tra vicini.
- Sì, abbastanza spesso. – riuscì a dire, mentre si sforzava di muovere un passo verso di lei.
- E’ bello qui. E’ tranquillo, vero?
- Molto tranquillo. – approvò Hector, riuscendo a muovere un altro passo, per coprire i due metri che lo separavano da lei.
- Non fa freddo, oggi. – mormorò Ginevra. I suoi pensieri si erano incartati. Blaterava a vuoto senza capire perché.
Hector sentì i suoi sentimenti. Voleva comunicare con lui. Perché?
- Hector. – si presentò, porgendole la mano, quando fu in grado di colmare il resto della distanza che li separava.
- Ginevra. – rispose lei, stringendola con calore.
Niente cognomi. Meglio tenersi sul vago. Hector era sempre convinto che quella di parlarle fosse una pessima idea.
- Ti va di fare due passi fino al laghetto? – gli propose lei, indicando la direzione con un dito.
- D’accordo. – acconsentì Hector, benché reticente.
La sua espressione si mantenne come sempre indifferente.
Era totalmente concentrato sulle emozioni di Ginevra. Il luogo dove si fossero diretti era il suo ultimo pensiero. Doveva fare molta attenzione per non cedere alla curiosità che lo rendeva quasi elettrico.
- Cosa fai per vivere? – gli chiese Ginevra.
- Mi occupo di affari.
- In che ramo? – insistette lei.
- In effetti ho una rendita che tento di far fruttare al meglio.
- Ah, sei ricco! – concluse.
- No, non proprio. Sopravvivo. E tu che lavoro fai?
- Io sono quella che fa fruttare le rendite per permettere a quelli come te di non lavorare.
- Ah. 
- Scusa. Non sono stata gentile.
- Non c’è nulla di cui scusarsi. – ribatté lui con distacco.
Per un po’ la loro conversazione peregrinò tra argomenti neutri e impersonali, con grande soddisfazione di Hector, che temeva un eccessivo coinvolgimento. A un tratto però Ginevra commentò:
- Devo ammettere che ieri mi hai molto colpita.
- Ti ho colpita? Davvero? E perché?
- Non lo so. Forse perché hai parlato con me, quando mi hai vista piangere. Sei stato gentile. Nessuno lo fa più.
- Essere gentile?
- Interessarsi degli altri. E poi, tu mi hai incuriosito.
Hector lo aveva capito benissimo e cominciava a preoccuparsene vagamente. Come ci era finito in quella situazione? Perché non trovava subito una scusa per andarsene? E se Ginevra gli avesse posto domande alle quali non poteva rispondere?
- Quello che hai detto ieri… “Come può farlo?”  A cosa si riferiva?
“Eccone una.” Pensò Hector, infastidito per essersi messo in quell’assurda situazione.
- Non ricordo di averlo detto. – rispose, con l’espressione più innocente che riuscì a mettere insieme. – Sicura che non ti abbia chiesto “Cosa hai fatto?” per via delle lacrime…
- Se non vuoi dirmelo, non importa. Ero solo curiosa.
- Il fatto è che non so di cosa tu stia parlando. Me lo spieghi? – mentì.
- No. Se non era quello che hai detto, mi tengo il resto per me.
- O.k. non c’è problema, sei tu che hai tirato fuori l’argomento.
- Stiamo già litigando? Che strano. Io non lo faccio mai con nessuno.
Hector la fissò dritto negli occhi per un istante. Occhi grigio chiaro, così limpidi che vi si poteva specchiare.
- Davvero non litighi mai?
- Davvero.
- E quando qualcuno ti fa arrabbiare, ma arrabbiare sul serio, cosa fai?
- Niente. Cerco di capire il suo punto di vista e poi tento di trovare un compromesso col mio.
- Oddio, ma non puoi essere sempre d’accordo con tutti e con tutto, no?
- Quando proprio non lo sono, trovo una scappatoia.
- Cioè?
- Dipende. Se sono sul lavoro, i miei capi hanno sempre ragione. Nella vita privata, gli amici che agiscono contro i miei principi non sono più miei amici. Tutto qui. Se ho problemi con un commerciante, cambio negozio, se mi trovo male in un hotel, mi trasferisco altrove. Cose così.
- Capisco. Non vuoi imporre i tuoi principi e le tue convinzioni a nessuno. Ma se avessi ragione tu? Se le tue idee fossero le migliori?
- E come faccio a sapere di avere ragione? Nessuno ha mai davvero ragione. Ognuno guarda le cose dal suo punto di vista, ma non esistono un torto e una ragione in assoluto.
- Vuoi dire che se io volessi uccidere qualcuno, potrei avere ragione, dal mio punto di vista? Uccidere non è sbagliato in assoluto?
- Forse no.
- È un modo di vedere molto pericoloso, lo sai?
- È per questo che di solito non ne parlo. Ho innescato discussioni accanitissime tra i miei amici, con una frase del genere.
- E sono ancora tuoi amici?
- No, purtroppo no. – sospirò Ginevra.
Hector scoppiò a ridere. Non ricordava più quando fosse stata l’ultima volta che aveva riso.
- Sei deliziosa. – gli sfuggì, appena prima di tornare serio.
-  Grazie. – rispose lei, arrossendo lievemente. Poi gli chiese:
- In cosa credi, Hector?
Che razza di domanda era?
- Credo che tu sia una persona davvero speciale. E credo che meriti che la vita ti faccia incontrare delle persone speciali come te.
- Ho incontrato te.
- Io non sono il genere di persona a cui mi riferivo.
- Ma a me sembri speciale.
- Oh, no. No no no. Sono un lupo solitario. Non so nemmeno come sia possibile che stia parlando con te, in questo momento.
- Sono io che attiro quelli come te. È normale. Io attiro sempre il genere di persona che di solito se ne sta per conto suo e che non socializza nemmeno sotto tortura. Non dipende da te, dipende da me. È il mio karma.
- E di solito come va a finire?
- Che loro riprendono la loro via e io torno a casa.
- Vedi che ho ragione? E tu quando penserai a te stessa?
- Penso sempre a me stessa. Non faccio altro. Aiutare le persone a ritrovare se stesse mi rende felice.
- E adesso sei felice?
- Abbastanza.
- Bugiarda.
- Lo sarò sicuramente quando avrò fatto qualcosa per te.
- Per me? Io sto a posto così, grazie. Non ho bisogno di nulla.
- Allora perché mi hai cercata?
- Io ho cercato te? – chiese Hector, con l’espressione più ironica che gli riuscì di sfoggiare.
- Sì, mi hai seguita. Mi segui da ieri.
- Davvero? Pensavo fosse stato un caso l’averti incontrata.
- Invece no. Tu non te ne sei reso conto, ma mi cercavi. E io mi sono fatta trovare.
- Affascinate. Stai sempre parlando del karma, vero?
- Esatto. – affermò Ginevra.
- Naturalmente ci sarà un motivo, per tutto questo, solo che noi, ancora, non lo sappiamo. – suppose Hector, marcando ancora di più l’espressione ironica.
- Esatto.
- E tu vuoi scoprirlo. – concluse Hector.
- Naturalmente.
- E questo cosa comporta?
- Che noi ci vedremo ancora, diventeremo amici, tu ti confiderai con me e io troverò la soluzione più giusta per risolvere i tuoi problemi.
- E se io non avessi problemi?
- Impossibile. Sei qui con me. Devi avere per forza un problema, e anche bello grosso, altrimenti non avresti bisogno di me.
Hector sentì chiaramente la certezza nelle emozioni di Ginevra. Lei ci credeva davvero. E questo gli provocò un vaghissimo senso di… paura?
- Ma tu chi sei? – le chiese, a voce così bassa che lei lo udì appena.
- Io sono una che ti cambierà la vita.
- Ne sembri davvero convinta.
- Lo sono.
- E se io sparissi dalla tua vita proprio oggi? – “che è esattamente ciò che farò”.
- Mi preoccuperei molto. Vorrebbe dire che i tuoi problemi sono più forti di me. Fino a oggi non è mai capitato.
- Tu sei un po’ matta. Te l’hanno mai detto?
- Praticamente tutti.
- Ah, beh. Questo mi consola. – commentò Hector, chiedendosi in quale forza della natura si fosse imbattuto. A quale specie apparteneva Ginevra? Che cos’era? Quali erano i suoi poteri?
- C’è qualcosa in te che mi incuriosisce. Devo sapere cos’è. – ammise Ginevra.
- Anche tu hai qualcosa che non capisco. Cosa sei esattamente? A me puoi dirlo. Credo agli angeli custodi, alle fate, alle streghe e persino ai vampiri. Tu cosa sei? – le chiese Hector, per provocarla e sviarla nello stesso tempo.
- Io sono una specie di umana. E tu?
- Anch’io.
Ginevra rise.
- Si è fatto tardi. Purtroppo devo andare. Mi ha fatto piacere conoscerti, Ginevra. Bada a te stessa e cerca di essere felice.
- Sembra un addio. – mormorò lei, con espressione rattristata.
“Lo è.”
- Sono sicuro che ci incontreremo molto presto. Io vengo spesso a passeggiare da queste parti.
- Vuoi che ci incontriamo per caso? Non mi chiedi il numero di telefono?
- Niente telefoni, per il karma. Lui sa cosa fare. – affermò Hector, sorridendole come meglio poteva e tendendole la mano destra, per congedarsi educatamente.
Stringendola, Ginevra lo guardò negli occhi.
- Problemi più grossi di quanto pensassi. – mugugnò a bassissima voce, come a se stessa.
Hector si allontanò fingendo di non aver sentito. C’era un pizzico di disperazione che svolazzava tra i sentimenti di Ginevra. Ancora curiosità, e poi… cos’era quello? Affetto? No, sicuramente si sbagliava. O forse stava di nuovo pensando a Robert.
- Dimmi almeno a che ora vieni di solito!
Hector si voltò di scatto. Era quasi arrivato all’ingresso del parco, quando la voce di Ginevra alle sue spalle l’aveva bruscamente bloccato. Non si era accorto che le sue emozioni fossero tanto vicine, che lei l’avesse rincorso.
Ginevra lo raggiunse senza fiato.
- Vieni domani? – gli chiese, a voce bassa.
- Penso di sì, più o meno a quest’ora. – le rispose Hector, sentendo montare un nuovo vago senso di panico. - Sono già in ritardo per un appuntamento. Lasciami andare, adesso. Vatti a divertire, è sabato. Ciao. - concluse Hector velocemente.
Poi si voltò e si affrettò fuori dal parco. Quella donna era decisamente pericolosa.

 

Hector si lasciò andare a quella fuga liberatoria con la determinazione che di solito avrebbe impiegato soltanto per salvarsi la vita, come se Ginevra avesse potuto in qualche modo, davvero, rappresentare un pericolo incombente… (Il suo istinto di autoconservazione era molto sviluppato.) Man mano che si allontanava, confondendosi tra la folla, il vago senso di panico che lo aveva sfiorato si dileguò. Quella sensazione era stata come un fantasma, come il prurito su un arto che era stato amputato. Eppure lo aveva avvertito. I suoi pensieri tornarono più chiari, le decisioni più limpide. Si lasciò alle spalle il parco e il quartiere dove Ginevra abitava e continuò a camminare senza meta, incurante di dove stesse andando. Iniziò a esaminare quello che era successo e ad analizzare le sensazioni di Ginevra che lo avevano colpito e quelle ben più vaghe che lui stesso aveva provato. Emozioni. Sfocate emozioni  erano nate dentro di lui, da lui solo. In risposta a quelle di Ginevra, è vero, ma erano sorte in lui spontaneamente, come in un lontano passato che ricordava appena. Non era più soltanto la curiosità, c’era stata ansia, persino paura. Paura? Di che cosa? Di essere scoperto, di essere conosciuto per quello che era. Aveva sfiorato anche il dolore, tenue, lontano, come una musica in sottofondo. Dolore di non potersi lasciar andare a quell’amicizia spontanea che Ginevra gli offriva. Ma la risposta più sconcertante era affiorata davanti a un moto di affetto puro che lei gli aveva sparato addosso, con un misto di compassione, comprensione, affinità, che lo aveva a suo modo stupito, perché nato dal nulla. Cosa aveva fatto per suscitarle quei sentimenti? Stavano solo parlando di banalità. Aveva l’impressione che a provocarle non fossero state le parole che aveva pronunciato. Ginevra vedeva oltre. Ti puntava dritto al cuore e sparava. Se lui avesse posseduto un cuore, ora sarebbe già stato nei guai.
Ancora vagamente sorpreso di aver provato di nuovo qualcosa che somigliava a sentimenti umani e di averli riconosciuti, si trovò costretto a prendere una decisione. L’avrebbe rivista? “No”, urlava la voce del lupo dentro la sua testa. “Sì”, rispondeva l’umano che albergava sepolto profondamente dentro di lui e che, per la prima volta da tempo infinito, ritrovava la voce, l’autocoscienza e la forza di riemergere alla luce del sole. “No”, quella donna ti scoprirà, se non l’ha già fatto. Dirà a tutti quello che sei. Ti prenderanno. Ti rinchiuderanno per studiare il tuo corpo, per strappargli i segreti della vita che non invecchia. Ti uccideranno. Non invecchierai, ma morirai.
Morire senza aver vissuto? Era solo questo il suo destino? Un’infinita serie di giorni tutti uguali, vissuti senza il conforto di un amico, di un confidente, di un eguale con cui confrontarsi? Una vita priva di sentimenti? Tranne quelli sottratti alle sue vittime per cibarsene…
Da dove nascono questi pensieri non miei? Quando mai mi sono preoccupato di questo, o di qualunque altra cosa?
Attenzione! Quella donna ti sta già cambiando.
“Sì”, tu sei in grado di provare sentimenti tutti tuoi. L’hai visto, no? Eri di fronte a lei e davanti a quello sguardo hai strizzato gli occhi, quando ti è apparso troppo luminoso e intenso. Taci, umano! Non so di cosa stai parlando. Mi hai stancato.
Io so cosa devo fare. Le starò alla larga.
Sarebbe stato facile, frequentando luoghi affollati e ricchi di emozioni nutrienti. Per prima cosa, quella sera stessa, sarebbe andato ad assistere all’incontro di boxe, di cui aveva già il biglietto in tasca. Per la sera seguente aveva prenotato una poltrona a teatro. Il lunedì avrebbe fatto un salto fuori città, lontano da tutto e da tutti. Si sarebbe riposato. E poi…
Poi si vedrà.

Ginevra tornò a casa con passo lento e pesante. Era difficile trascinarsi dietro il peso di quella delusione. L’uomo nero, Hector, non voleva più vederla. Era stato fin troppo chiaro. Educato, gentile, distaccato e chiaro: non era interessato a lei. Si era inventata tutte quelle stupide storie per incuriosirlo, per permetterle di affrontare almeno un altro round, ma lui non c’era cascato. Non se ne faceva niente di una come lei. Non aveva torto. A chi era mai interessato davvero di lei?
Sei una stupida. Stupida stupida stupida. Ma cosa ti è saltato in mente?
Eppure c’era qualcosa in lui… Aveva provato la sensazione che Hector le avesse risucchiato l’ansia, come il giorno precedente il dolore. Non ce n’era stato molto, è vero, ma quando lui le si era avvicinato, mentre piangeva, era scomparso del tutto. Probabilmente non era stato lui, era colpa della sua fervida immaginazione. All’improvviso sentiva che per la prima volta era lei ad avere bisogno di qualcuno, di Hector, per la precisione.
Stupida. Ti stai di nuovo innamorando dell’uomo sbagliato. Tipico di te. Non sai fare altro. Hai appena gettato la spugna con Robert e già sei a caccia di un nuovo dolore da coltivare. Masochista. Senza il dolore di un amore non corrisposto ti sembra così vuota la vita? Senza crogiolarti nella tua insana desolazione, ti è proprio così difficile affrontare un nuovo giorno? Persa. Mi sono persa nel suo sguardo e adesso non trovo la via d’uscita.
Però, che incredibile incontro! Uscire a cercarlo e trovarmelo di fronte proprio come se mi stesse aspettando.
Cosa darei per rivederlo!

 

Hector seguì i propri programmi alla lettera, evitando accuratamente di sintonizzarsi sui sentimenti di Ginevra. Anche se il pensiero di lei lo colpiva a intervalli regolari, si oppose a ogni tentazione di cercarla, finché, dopo qualche giorno, banalmente distratto da qualcosa, il suo radar si sintonizzò automaticamente su Ginevra. La sua ferrea decisione subì all’istante un imprevisto tracollo. Ciò che emanava da Ginevra lo lasciò senza fiato. Era paura. Una paura totale e opulenta, che non lasciava spazio a nient’altro. La sua reazione spontanea fu quella di preoccuparsi per lei. Preoccupazione? Era chiara e forte come mai prima, perfettamente riconoscibile, nonostante fosse appena un’avvisaglia.
Cosa le stava succedendo? Qualcuno le voleva fare del male? Dove si trovava? Hector si ritrovò immediatamente a seguire quell’emozione così intensa da riuscire a guidarlo senza difficoltà come una freccia luminosa. In breve si ritrovò al parco. Sulla solita panchina era seduta Ginevra e, nei dintorni, nessuno che la molestasse. Hector avrebbe voluto tornare sui propri passi non visto, ma Ginevra si voltò nella sua direzione, proprio come se lo avesse sentito arrivare. In quello stesso istante, tutta la paura di Ginevra svanì nel nulla. Lei gli sorrise e lui si costrinse a risponderle sollevando appena gli angoli della bocca, avvicinandosi.
Non appena Ginevra se lo vide di fronte, Hector fu travolto da una bomba ardente, composta in parti uguali di stupore, sollievo, speranza, amore, gratitudine, tutto in dosi massicce. Ci sarebbe stato da sfamarsi per un mese.
- Sei venuto! – gli disse sorridendo.
- Ciao. – la salutò, mentre tentava di interporre uno scudo tra sé e quel fuoco che lo investiva.
Le emozioni di Ginevra erano di una potenza inaudita.
- Vieni, vieni! – lo invitò, costringendolo a sedersi accanto a lei.
- Di cosa avevi paura, Ginevra? – le chiese subito.
- Come fai a saperlo?
- Te l’ho letto in viso quando ti ho vista.
- I miei pensieri sono così facili da leggere?
- Non so leggere i pensieri, Ginevra, ma percepisco certi… atteggiamenti interiori dalle espressioni del viso. Con te mi riesce piuttosto semplice. Quindi, di cosa avevi paura?
Ginevra soppesò i pro e i contro, tentò di indovinare cosa lo avesse condotto da lei, valutò i rischi, considerò le speranze e infine ammise con se stessa che dirgli la verità costituiva la sua unica, improbabile, incerta possibilità.
- Avevo paura di non rivederti più.
“Fregato. Mi ha fregato di nuovo.” Ma, stranamente, questa consapevolezza non lo disturbò affatto.
Prima che potesse risponderle, Hector si ritrovò Ginevra tra le braccia, che lo baciava con un ardore travolgente e disperato, neanche fosse un naufrago che si stringe all’unico galleggiante di salvataggio disperso nell’oceano. 
Hector dovette fare appello ai suoi vaghi ricordi squisitamente umani, per rispondere a quel bacio inaspettato, che forse, tuttavia, aveva aspettato senza saperlo. Staccarsi da lei fu più difficile di quanto si fosse atteso. Di nuovo provò vaghe, lontane, tenui emozioni tutte sue, in risposta a quelle che gli giungevano da Ginevra, nonostante fossero attutite dal suo scudo.
L’umano sepolto in lui esultò. Il lupo ringhiò. E Ginevra sospirò.
Hector la fissò più seriamente di quanto fosse lecito in un simile frangente, provocandole increspature d’ansia così evidenti da superare il suo schermo.
- E adesso di cosa hai paura? – le chiese.
- Non ho paura… Sì, ho paura che tu te ne vada. Che non ti importi niente di me. Io non so leggere bene nelle espressioni del viso, ma ci provo. E in te leggo distacco, indifferenza e freddezza.
- È solo una maschera. Mi importa di te. Vedi? Sono qui.
- Mi confondi. Forse, se mi dicessi perché sei qui…
- Lo sai perché. – mormorò Hector, sperando che bastasse a tranquillizzarla. Avrebbe tratto da sola le sue conclusioni, mettendoci tutto ciò di cui aveva bisogno e di cui lui non sapeva neppure parlare.
Conosceva così bene le emozioni: erano il suo pane quotidiano. Eppure non riusciva a ricordare cosa rappresentassero per l’essere umano, né a cosa servissero. Per moltissimo tempo lui ne era stato totalmente privo e gli era sembrato di aver vissuto bene lo stesso. Questo rimescolio interiore a cui Ginevra l'aveva costretto, ora lo minacciava dall’interno, provocando due distinte reazioni. Da una parte ne destabilizzava l’equilibrio, dall’altra, lo lasciava incredibilmente affascinato,  cosa che, se ne rendeva conto con una infinitesima parte della sua consapevolezza inumana, rappresentava per lui il vero pericolo. Forze dimenticate lottavano dentro di lui. Il lupo tentava di trascinarle verso l’oscurità dell’oblio, mentre l’umano le risputava in superficie, per farle riemergere alla luce del sole.
- Forse lo so, ma preferirei che me lo dicessi tu. – insistette Ginevra.
- Non so parlare di sentimenti. – “So soltanto nutrirmene.”
- Voglio solo sapere se ho qualche speranza.
- Io non credo di essere in grado di rispondere alle tue necessità. – ammise Hector, sinceramente.
- Chi ti ha ridotto così? Che donna può averti fatto tanto male? – sospirò Ginevra – Un amore non corrisposto, o uno finito, prima o poi si dimentica. Anche se ti ha fatto soffrire, non è detto che un altro, il mio, per esempio, ti faccia soffrire allo stesso modo.
- Non si tratta di questo, Ginevra.
- Allora di cosa?
Hector sospirò. Camminava in equilibrio su un filo da cui poteva cadere da un momento all’altro. Fare il funambulo non gli era mai stato congeniale. Per un istante questo pensiero lo distrasse abbastanza da fargli perdere la presa sul suo scudo, rendendolo facile bersaglio dei sentimenti di Ginevra, i quali eruppero verso di lui senza freno, lasciandolo in preda al suo umano esaltato, folle di aspettative, e alla famelica voracità del lupo. Quando si fu ripreso, era del tutto frastornato.
- Io non provo sentimenti. Non ne sono capace. Non sono come te. Mi dispiace, Ginevra. – si ritrovò a confessare.
Per qualche momento lei si limitò a guardarlo, poi i suoi occhi si appannarono e le lacrime iniziarono a scorrere sul suo viso dall’espressione delusa.
Una larvata parvenza di rimorso appannò i pensieri di Hector. Rimorso? Senso di colpa? Come poteva provarli? Come riusciva anche solo a riconoscerli in sé?
Istintivamente allungò una mano sul viso di Ginevra, per cancellare le sue lacrime, ma altre scaturivano dai suoi occhi. Non sapeva come farle smettere. Il dolore che le provocava gli risultò insopportabile, tanto che per cancellarlo, se ne cibò.
Ginevra restò attonita, gli occhi sbarrati, mentre un’espressione d’accusa si disegnava sui suoi lineamenti.
- L'hai fatto di nuovo. Ora sono sicura che sia stato tu, anche l’altro giorno.
Hector chinò il capo ed emise una sorta di debole lamento. Non riusciva più a nascondersi. Doveva fuggire.
- Devo andare, Ginevra. Noi non potremo mai essere amici.
- No, ti prego, non andare. – mormorò, afferrandolo per la manica.
- Mi dispiace. È meglio così, credimi. – disse Hector, liberandosi con uno strattone e allontanandosi in fretta, con la mente occupata dall’immagine del volto di lei, che rifletteva tutto il dolore e la delusione che le aveva letto dentro.
Dopo una breve esitazione, Ginevra, decisa a non mollare, lo inseguì, ma appena fuori dal parco, lo perse di vista. Quel suo abbigliamento nero lo mimetizzava così bene in mezzo alla folla.
La sua sofferenza era come un macigno piazzato esattamente sopra al cuore. Faceva fatica a respirare. Si sentiva intontita, quasi come se l’avessero picchiata. E poi provava una profonda vergogna, per essersi resa ridicola con quel bacio che gli aveva imposto. Era chiaro che Hector non lo aveva gradito. Aveva risposto appena, come per educazione. Cosa le era venuto in mente? Come aveva potuto sperare di trattenerlo con un bacio? Non aveva mai fatto nulla del genere. Perché proprio con lui? Il più freddo, distaccato e indifferente degli uomini? Che idiota. Che terribile idiota.
Hector sentiva il dolore di Ginevra come amplificato,  per  via della concentrazione che esercitava sui suoi sentimenti, e per via dello scudo che aveva rimosso. Quel dolore non lo lasciava indifferente. Ginevra stava soffrendo per colpa sua. Ma cosa doveva fare? Non poteva scoprirsi. Quella donna era troppo perspicace. Sapeva che era del tutto inutile inventarsi qualche bugia. Lei aveva già capito tutto. Era troppo pericolosa.

Per alcuni giorni Ginevra si recò al parco, si sedette alla stessa panchina, sempre alla medesima ora, sperando di rivedere Hector. Contemporaneamente, Hector si chiuse in casa per evitare di incorrere nella tentazione di incontrarla, però, anche da lì, seguiva la scia dei suoi sentimenti. Sapeva che era al parco. Sapeva che lo stava aspettando e sapeva che soffriva. Il suo istinto gli diceva a chiare lettere che doveva restarle lontano, ma una parte di lui trovava i suoi motivi del tutto irrilevanti. Hector si stupiva di quelle considerazioni e di quelle contraddizioni. Non gli era mai successo prima.
Passarono due settimane prima che Hector rimettesse piede nel parco. Era domenica. Era uscito poco prima dell’alba, in un’orario che Ginevra non aveva mai preso in considerazione per le sue passeggiate. Hector sentiva la necessità di camminare in mezzo al verde. Certo, avrebbe potuto raggiungere un parco più lontano, ma avrebbe dovuto andarci in macchina, e lui odiava guidare. Si sentiva al sicuro, a quell’ora mattutina. Guardava gli alberi prendere colore, via via che la luce del giorno li raggiungeva. Ascoltava gli uccelli dare il benvenuto al nuovo giorno. Seguiva il sentiero, assorto nel ricordo del volto di Ginevra. Un volto a forma di cuore, con il naso dritto, gli occhi un po’ tristi, grigi come un cielo d’autunno, circondati da folte ciglia scure, le sopracciglia sottili. Un volto spruzzato da una manciata di chiare efelidi, incorniciato da folti capelli rossi, striati di ciocche bronzee. Quel volto lo perseguitava. Se lo vedeva davanti, ora, come se fosse lì ad aspettarlo.
- Ciao, Hector.
Hector sobbalzò, stupito. Non era la sua immaginazione. Ginevra era davvero davanti a lui, in mezzo al sentiero. Come aveva potuto sorprenderlo? Come aveva potuto rimanere sordo ai suoi sentimenti? Non era mai stato così terribilmente distratto.
- Ciao, Ginevra. – rispose, mantenendo a forza un’espressione impassibile.
- Sei mattiniero. – commentò lei.
- Anche tu.
- Speravo di incontrarti, prima o poi. Lo so che non vuoi essere mio amico, ma a me fa piacere vederti.
- Anche a me. – rispose Hector, senza riflettere.
- Allora perché mi eviti?
- Se avessi voluto evitarti, non sarei qui.
- Però non sembri molto soddisfatto di avermi incontrata. La tua freddezza mi mette un po’ i brividi.
- Allora perché ti ostini a cercarmi?
- Mi devi una spiegazione.
- Io non ti devo niente. – rispose Hector, fissando il suo sguardo glaciale negli occhi tristi di lei.
- Ho bisogno di una spiegazione. Ti prego. Non ci dormo la notte. Che problema può essere per te, darmi una semplice risposta? Poi non ti disturberò più. Per favore.
Hector sospirò. Sembrava un sospiro di pura rassegnazione, ma comunque di assenso.
  Ginevra si sentì autorizzata a lanciarsi.
- Sei un monaco tibetano?
- Ginevra, ti prego… non sono un monaco. Sono solo diverso da te.
- Questo l’avevo capito. Tu possiedi un potere straordinario!
- Non direi.
- Cosa ti costa ammetterlo? Cosa pensi che potrei farmene di questa informazione? Non lo direi a nessuno. È una cosa che resterebbe tra te e me.
- Lascia stare, Ginevra.
- Tu hai il potere di risucchiare le emozioni della gente.
Hector non seppe più come negarlo.
- Se non sei un monaco tibetano, cosa sei?
- Niente. Non sono niente.
- Ti prego.
- Cosa vuoi da me, Ginevra?
- Solo un po’ d’amicizia.
- Solo un po’ d’amicizia… Io non sono esattamente quello che si può definire un tipo amichevole. Sono come hai detto tu: freddo e indifferente. Questo non ti basta per rinunciare all’idea?
- No. – ammise Ginevra, candidamente. - Allora, visto che non puoi ricambiare i miei sentimenti, potresti assorbire i miei?
Hector sobbalzò, come se lo avessero punto.
- Non è che non voglia ricambiarti, è che la mia natura me lo impedisce.
- Sei sempre stato così? – chiese Ginevra.
- No, prima ero come te. Poi ho incontrato un mostro che mi ha trasformato.
- Esiste davvero qualcuno che può fare questo? – si stupì.
- Tu che credi ai poteri dei monaci tibetani, non credi che esistano i mostri che quegli stessi monaci combattono?
- Che cosa sei?
Hector decise all’improvviso di farla finita.
- Sono un keshai, una specie di vampiro che si nutre dei sentimenti e delle emozioni umane, ma io non ne provo. Sono vuoto e freddo, congelato nel tempo, perciò non invecchio.
- È straordinario!
- Ti sembra?
- Io ti aiuterò. – affermò decisa Ginevra.
- E come? – le chiese Hector, incuriosito, suo malgrado, dall’entusiasmo e dalla determinazione che aveva letto in lei.
- Non lo so bene, ma credo che inizierò le mie ricerche proprio dai monaci tibetani.
- Lascia stare. Le ho già fatte io. Non ho trovato niente di concreto, solo dicerie e antiche tradizioni orali tramandate di generazione in generazione, in piccoli villaggi sperduti tra le montagne.
- Ah, che peccato.
- Sì, un vero peccato. Comunque io vivo bene così. Non c’è motivo di dispiacersi per me. Non provo niente, nemmeno il rammarico di aver perduto qualcosa che ricordo solo vagamente.
- Cioè la tua umanità? Te ne ricordi appena? E non ti manca?
- Perché dovrebbe mancarmi?
- Chi ti ha ridotto così?  Chi è stato a trasformarti?
Quando Hector si decise finalmente a raccontarle la sua storia dall’inizio, Ginevra si concentrò tanto attentamente sulle sue parole, che smorzò tutte le altre emozioni, trasformandosi in un lago tranquillo, percorso ogni tanto da brevi e morbide increspature. In lei tutta quella tranquillità appariva innaturale.
Era la prima volta che Hector ne parlava con qualcuno, la prima volta che sentiva di aver trovato chi potesse davvero comprenderlo, astenendosi dal giudicarlo. Sentiva che per Ginevra lui non era il mostro, ma la vittima.
- Dove si trovavano esattamente gli Xaugant? – chiese alla fine.
Dopo averglielo spiegato, Hector si domandò quale fosse la natura di quella curiosità. Che importanza poteva avere?
- Probabilmente non esistono più. Era una tribù molto piccola, isolata, circondata da tribù nemiche. Non possono essere ancora là. – commentò Hector.
Dopo aver risposto a tutte le sue curiosità, Hector si sentì meglio, come se l’averne fatto partecipe qualcun altro lo avesse reso più consapevole di se stesso.
Quando pensò fosse giunto il momento di congedarsi, Hector si alzò con calma dalla panchina su cui si erano seduti.
- Ciao. – disse soltanto.
- Ciao. – gli rispose Ginevra – Ci rivedremo?
- Non lo so.
Non lo sapeva davvero.

 

Hector sentiva che c’erano stati un’infinità di microscopici cambiamenti in lui. Cose da nulla, ma per uno che in tanti anni aveva potuto cambiare così poco, erano strani, perché giunti tutti insieme, concentrati in così breve tempo. Non sapeva se dovesse considerarlo un evento positivo o negativo. L’ago della bilancia pendeva verso Ginevra. Starle vicino gli piaceva. Ma quello che provocava in lui non era chiaro. Quando le prime larvate emozioni gli si erano rivelate, lo stupore aveva offuscato il suo giudizio. Era un bene o un male? Tornare a sensazioni umane, ben consapevole di non poterne provare mai più, lo lasciava lievemente insoddisfatto. Non poter contraccambiare i sentimenti di Ginevra lo frustrava, in modo lieve ma ugualmente irritante. C’era una nuova costellazione di reazioni che lo invadevano, tutte indefinite, eppure così umane. Avrebbe voluto davvero tornare a provare tutto questo con la stessa intensità di una volta? Dolore, felicità, amore, disperazione, paura, piacere? Non ne era del tutto sicuro. Se non fosse stato per lei… Ma c’era Ginevra. E probabilmente l’avrebbe rivista, perché era cibo delizioso per un affamato come lui.

Quando andò a trovarla erano passati soltanto due giorni. Non aveva potuto resistere di più. Andò a bussare alla sua porta alle nove di sera. Ginevra gli aprì e lo fece entrare nel suo appartamento, senza neanche chiedergli come avesse fatto a trovarla.
- Togliti il cappotto. – gli disse.
Ginevra lo afferrò e lo appese a un gancio sul muro, poi si voltò a guardarlo. Maglione girocollo nero, calzoni neri. Un fisico da urlo, pensò, mentre l’attrazione per lui le dava una scossa elettrica in tutto il corpo.
Hector, impassibile, si sedette sul divano, mentre lei seguiva con desiderio ogni sua mossa.
Hector lesse il suo desiderio ed inarcò un sopracciglio. “Che diavolo sta succedendo?”
- Perché mi guardi così? – le chiese.
- Perché sono una donna. E sono molto umana. E tu sei molto affascinante per essere un uomo così poco umano.
- Mi dispiace, non sono in grado di seguirti.
- Se ci riprovo, me ne pentirò di nuovo. – mormorò Ginevra.
- Riprovare cosa?
- Questo. – disse Ginevra, baciandolo di nuovo.
Il desiderio di Ginevra si stampò nei tessuti di Hector come un marchio. Tentò di opporre il suo scudo a quel calore, ma vi riuscì solo in parte. Qualcosa in lui stava cedendo, una remota zona d’ombra si stava illuminando. Si sforzò di non nutrirsi di quella cosa deliziosa che Ginevra gli porgeva, perché non voleva che smettesse, non voleva che lei se ne privasse e si rifiutava di vederla cambiare. Ginevra gli piaceva così com’era.
- Lo sapevo che potevi fare di meglio. – sospirò lei, quando infine si staccò dalle sue labbra.
- È stato… interessante. – commentò Hector, ripristinando il suo scudo.
- Anche per me.
- Ho letto in te un sentimento che non capisco. Oltre al desiderio, intendo. Tu provi amore, per me. Perché?
- Non me lo so spiegare. Dalla prima volta che ci siamo incontrati, è successo qualcosa di strano dentro di me.
- Ma il tuo amore non ha alcun motivo di esistere. Tu non mi conosci nemmeno.
- Lo so. L’amore è così. Nasce e basta. Sta a noi farlo crescere o farlo morire.
- Beh, questo dovresti proprio farlo morire.
- Non ci penso proprio.
- Sei masochista?
- No. Sono solo innamorata.
- Ma io non posso ricambiarti. – obiettò Hector.
- Lo so, ma non fa niente. Ormai è troppo tardi.
- I tuoi sentimenti sono troppo forti per me. Rischio in ogni momento di sottrarteli per nutrirmene. Sei una tale tentazione!
- E tu fallo! Sono a tua completa disposizione.
- Non dire sciocchezze. – ringhiò Hector, rabbuiandosi.

 

La volta seguente andò meglio, gli sembrava. Ginevra era meno insistente, più tranquilla. Non si era agitata, non aveva fatto storie. Ma poi, mentre si stava congedando, Ginevra lo bloccò sulla porta con una domanda.
- Mi prometti che ci rivedremo?
- E tu mi prometti che non sprecherai più i tuoi sentimenti con me?
- Hector, io non spreco niente. Mi vengono naturali, come respirare. Non cercherò di fare in modo che tu li ricambi. Ho capito. Non puoi, ma non mi importa. Lascia che ti ami senza chiederti nulla in cambio. Voglio solo vederti, se non ti dispiace. Puoi tornare a trovarmi, di tanto in tanto?
- Sì, questo posso farlo. Siamo amici adesso, no?
- Amici, sì. Me lo farò bastare. – affermò Ginevra, sommergendolo di gratitudine.

Ogni giorno Hector si diceva che quella storia non aveva senso, e che dunque doveva finire. Lei lo investiva con quel suo sentimento d’amore incondizionato, a cui, poco a poco, Hector si ritrovò a desiderare di poter rispondere. Ma non poteva farlo. Era tutto inutile. Ginevra avrebbe fatto bene a trovarsi qualcuno che la potesse amare come meritava. A volte si sforzava di non pensare a lei, riuscendo a tenersene lontano per un paio di giorni, ma poi finiva inesorabilmente davanti al suo portone. C’erano sere in cui il lupo lo costringeva a fare un passo indietro e a riprendere la sua strada. Altre in cui bussare alla sua porta era l’unico rimedio alla noia mortale che aveva iniziato a coglierlo, sempre più spesso, quando era lontano da lei.  Una noia soffocante, asciutta, logorante, divenuta ben presto sua inseparabile compagna di viaggio. Noia nutrita dei ricordi di una sequela infinita di stagioni attraversate senza mutamenti, senza incontrare mai nulla che lo avesse costretto a cambiare esistenza.
A che gli era servito vivere? Solo Ginevra aveva avuto il potere di smuovere quelle acque stagnanti.
Gli apriva la porta con quel sorriso che era come un sole splendente. Allora lui tentava di imitarla. Ginevra lo prendeva per mano e lo trascinava sul suo divano, ridendo di gioia. Mai a nessuno Hector aveva fatto quell’effetto. Mai nessuna lo aveva amato così, e ogni volta più intensamente, come se il tempo alimentasse quel sentimento a dispetto delle parole che lui le diceva, per sminuirlo. Ci aveva provato. Lo faceva sempre, ma Ginevra era cocciuta. Certe sere i suoi discorsi perfettamente razionali non facevano che provocarle un’altalena di sentimenti, movimenti interiori repentini e affascinanti, che erano così tipici di lei, quasi il suo marchio.

 

Una sera le cose si erano complicate ulteriormente. Senza sapere come fosse accaduto, si ritrovarono completamente nudi.
- Vieni con me. – gli disse Ginevra, prendendolo per mano.
La camera da letto era illuminata da una semplice, minuscola applique, che lasciava ombre dappertutto.
Ginevra lo fece stendere sul letto e ricominciò a baciarlo, mentre i suoi capelli scorrevano come seta sul suo petto. Hector tentò di mantenere fermo il suo scudo, ma la sua concentrazione, a tratti, veniva meno, colpendolo con quel miele spietato di desiderio e passione che ormai era ben oltre una tentazione, si era trasformato in un tormento, una vera e propria tortura. Ginevra trasferì i suoi baci ardenti dalla sua bocca al mento, poi al collo, al petto e ai capezzoli. Hector comprese che questo era ciò che avrebbe desiderato da lui, così la spostò sotto di sé e la imitò, finchè i suoi sospiri si fecero incredibilmente affrettati. Ginevra gli afferrò una mano e la portò alle sue parti intime e umide. Fu semplice insegnargli cosa fare. Quando raggiunse l’orgasmo, Hector restò di stucco.
Nonostante il suo scudo, l’appagamento e la felicità di Ginevra lo colpirono come una palla di cannone.
- Mi dispiace che tu non abbia mai provato niente del genere. – mormorò Ginevra, osservando dispiaciuta il suo membro, che non aveva raggiunto l’erezione.
- Adesso dispiace anche a me. – rispose Hector, invidiandola impercettibilmente.
- Ci riproveremo. Chissà…
La sua speranza non moriva mai. Hector lo sapeva bene.

Qualche volta Ginevra riusciva a mantenersi sottovoce, tenendo a bada le sue emozioni, abbastanza da permettergli di starle accanto senza alzare il suo scudo.
In quelle occasioni lui riusciva a riflettere fedelmente le sue emozioni, benchè, ovviamente, fossero soltanto miseri germogli, niente a che vedere con la lussureggiante foresta di sentimenti che Ginevra nutriva, ma erano quanto di meglio potesse fare.
Poi c’erano le volte in cui si sentiva patetico. Questa sensazione nuova e molto più forte delle altre, era la risposta alla speranza che Ginevra si ostinava a nutrire, la speranza che lui potesse cambiare per lei, per amarla come avrebbe desiderato. Quelle sere erano un vero supplizio. Invariabilmente, sfociavano nel suo rifiuto di rivederla, per diversi giorni. Si chiedeva “Che ci faccio qui? Non serve a lei, che non vedrà mai esauditi i suoi desideri, e non serve a me, che non potrò mai essere quello che vorrei diventare per lei.”
Questo desiderio di cambiare, di tornare umano, era strettamente legato alla sensazione di essere patetico. Le due cose erano nate assieme e come gemelli siamesi si trascinavano l’uno con le gambe dell’altra, divenendo sempre più forti.

 

Ginevra aspettava ogni sera che Hector bussasse alla sua porta. A volte la sua attesa risultava vana e allora si interrogava sul motivo che teneva Hector lontano da lei. Sperava non si trattasse di un rigurgito di quella fredda indifferenza che le mostrava le prime volte in cui si erano incontrati.
Vedeva Hector cambiare lentamente, molto molto lentamente, stimolando comunque la sua speranza che un giorno potesse guarire. Ma poi c’erano le ricadute, le sere in cui Hector non si faceva vedere, e allora bisognava ricominciare tutto da capo.
Una volta gli aveva chiesto che sapore avessero per lui le emozioni di cui si nutriva.
- Hanno sapori molto vari e a volte sono differenti anche a seconda di chi le prova. Per esempio l’amore è dolce, il dolore è amaro, ma in te hanno spesso la stessa impronta.
- L’impronta è come un odore o un sapore?
- E’ un aroma, ma è quasi un sapore.
- E le altre emozioni?
- In linea generale, la violenza è grassa. È come nutrirsi di un maialino arrosto. L’invidia è come un gelato al limone. La speranza è come un sufflé di verdure. Il dolore di solito è amaro, denso come un caffè ristretto. La cattiveria è salata.
- E la disperazione?
- Dolciastra, direi.
- Tu cosa preferisci?
- Io mi nutro preferibilmente delle passioni che esplodono negli stadi. Più sono affollati, meglio è. Prendo una piccola porzione da più fonti possibili, in modo da saziarmi senza che le mie vittime se ne accorgano.
- Non ti sei mai nutrito di amore?
- All’inizio sì. Non sapevo niente, ero del tutto impazzito. Sapevo solo di essere affamato e mi buttavo sul primo cibo appetitoso che mi si piazzava sotto il naso. Non facevo distinzioni. Poi, col tempo, ho imparato molte cose, tra le quali anche che potevo nutrirmi senza svuotare le mie vittime, e che in mezzo alla folla sfamarmi era più facile.
Ginevra avrebbe voluto chiedergli di nutrirsi di lei, del suo stupido amore per lui, così da lasciarlo libero una volta per tutte e lasciare libera lei di dimenticarlo. Ma non ebbe il coraggio. Non proprio.
- Non ti andrebbe di assaggiarmi un po’?
- Ho già mangiato, grazie. – rispose Hector con una freddezza così formale che la lasciò di ghiaccio.
- Se non puoi accettare il mio amore, accetta almeno il mio corpo!
Hector la fissò negli occhi, con vago timore. Ginevra si avvicinò a lui e, come aveva già fatto altre volte, lo baciò.
Hector mantenne saldo il suo scudo e si sforzò di rispondere al bacio. Pensava che sarebbe stato come tutte le altre volte, fino a quando una specie di elettricità lo travolse. Il suo corpo rispondeva a quel bacio in modi che lui stesso stentava a capire. La strinse forte a sé, per sentire il corpo di lei tremare contro il proprio. Era una sensazione potente, talmente forte da distoglierlo dall’attenzione al suo scudo, che all’improvviso cedette, sommergendolo della sensazione potente del piacere di Ginevra. Si staccò con una tale immediatezza da lasciare Ginevra di sasso. La sua delusione si stampò nella mente di Hector.
- Scusami. E’ troppo. – si giustificò.
- Scusami tu. Non dovevo.
Come poteva lasciarla così? Delusa, insoddisfatta, fremente.
Dopo aver rimesso a posto lo scudo, si avvicinò di nuovo a lei e iniziò ad accarezzarla dolcemente. Ginevra lo guardò stupita, poi i suoi occhi si fecero languidi, sotto le sue carezze, infine si chiusero. Hector le sollevò la maglietta e lei lo lasciò fare. Se Ginevra non lo toccava, riusciva a resistere. Ginevra allungò le mani verso il suo petto.
- No! Lasciami fare, ma non toccarmi, ti prego.
Ginevra annuì.
Hector la sollevò dal divano e la condusse in camera da letto. La spogliò e la fece distendere. Era bellissima. Il suo corpo era caldo e fremente. E quello di Hector si era trasformato.
- Oh, è meraviglioso, Hector. Ci sei riuscito!
Ginevra lo guidò dentro di lei, per la prima volta e per la prima volta anche Hector ricordò che cos’era un orgasmo.

Dopo quella sera, Hector aveva disertato i loro incontri per un’intera settimana.
Ginevra si chiedeva se sarebbe tornato. Quello che la faceva uscire dai gangheri era che non aveva la più pallida idea di dove cercarlo, nel caso non si fosse fatto più vivo. Hector non aveva telefono e manteneva segreto l’indirizzo del suo rifugio. E lei non aveva mai pensato di pedinarlo, una volta uscito da casa sua. Ma cosa poteva tenerlo così disperatamente lontano da lei? Non gli era piaciuto riscoprire le possibilità del suo corpo? Non aveva provato piacere? Eppure le era parso di sì.
Nel frattempo non se n’era rimasta con le mani in mano. Aveva consultato tutto il reparto di esoterismo della biblioteca pubblica più vicina e letto su internet tutto ciò che potesse avere anche il più lieve collegamento con la situazione in cui si trovava Hector. Niente. Niente di niente. Ma Ginevra non riusciva a rassegnarsi. Doveva esserci un modo. Per forza doveva esistere una soluzione. Se esisteva un problema, la soluzione era lei.
Allora rileggeva il suo diario, per consolarsi. Riviveva la sua storia dall’inizio e ne valutava i cambiamenti, i minimi miglioramenti, che le davano speranza, nonostante i rifiuti di Hector. Sapeva che avrebbe trovato il modo, prima o poi, per stare con lui, da pari a pari.

 

Hector non dava appuntamenti, non voleva legami, neppure a breve scadenza. Quando andava via, le diceva soltanto:
- Ci si vede. – Ma non diceva quando.
Fino a quella sera di fine primavera.
- Domani è sabato. Ti va di venire al mare con me?
Ginevra si concentrò per mantenere il suo entusiasmo a un livello sopportabile per Hector e gli rispose:
- Sì, sarebbe magnifico.
Aveva capito che le sue emozioni forti erano insostenibili per lui. Quando le provava, Hector si barricava dietro un muro che la lasciava fuori. All’inizio ne aveva sofferto, ma poi aveva capito. Offrirgli un pasto così invitante non era giusto, visto che lui cercava con tutte le sue forze di non cibarsi di lei. Così aveva imparato a mitigare i suoi slanci. Lo faceva per lui, ma soprattutto per se stessa: non sopportava di vederlo freddo e indifferente.
- Ti passo a prendere alle nove?
- Alle nove va benissimo.
Hector voleva smuovere la sua noia in qualche modo, voleva fare qualcosa  di diverso. Voleva di più. Molto di più. Ma non sapeva cosa. L’idea di andare al mare non era sua. Aveva ascoltato per caso una conversazione tra due amiche, lungo la strada che lo portava da Ginevra. E quell’idea gli era piaciuta. Anche a Ginevra era piaciuta. Era sorpresa ed entusiasta. Moderatamente entusiasta. Forse preferiva la montagna. Glielo avrebbe chiesto, se se ne fosse ricordato.
La spiaggia dove si fermarono quella mattina era deserta. Qua e là tronchi d’albero sradicati, sbiancati dal mare, erano arenati come navi in secca. Qualche gabbiano lanciava i suoi lamenti nell’aria. A Ginevra sembravano le voci di anime in pena. Il sole era caldo, ma l’aria era ancora frizzante. Camminarono a piedi nudi sulla sabbia, incrociando piccoli granchi coraggiosi e schivando grosse conchiglie taglienti.
Hector sembrava distratto. Ginevra non osava parlare. Intuiva che c’era qualcosa di strano in quella gita. Era la fine o l’inizio di qualcosa? Ogni tanto lanciava uno sguardo al suo viso, nel tentativo di indovinarne i pensieri. Vedeva i suoi occhi riflettere il colore dell’oceano. Non erano più verdi, ma blu, di un blu profondo, scuro, inquietante. Poi anche lui si voltò a guardarla. Ginevra gli sorrise timidamente, come a scusarsi della sua presenza.
- A cosa pensi? – le chiese.
- A nulla. Ti vedevo assorto e non volevo disturbarti.
- Ma cosa dici? Accanto a te mi sento vivo.
- È la cosa più bella che tu mi abbia mai detto. Grazie.– mormorò Ginevra.
Hector le posò un braccio sulle spalle e la strinse a sé.
- Se potessi essere felice, tu saresti la mia felicità. – le sussurrò all’orecchio.
- Prego che un giorno si possa trovare il modo. – commentò Ginevra.
Hector si staccò da lei e si chinò a raccogliere un sasso, piatto e rotondo, poi lo lanciò in acqua, facendolo rimbalzare sulla superficie per quattro o cinque volte, finchè non scomparve in profondità.
- È un discorso che abbiamo già fatto. – disse Hector, tornando alla sua voce fredda e distante.
Ginevra si pentì di aver pronunciato quella frase. Aveva rovinato tutto, come sempre, con Hector.
"Perché non si arrende? Non sarò mai l’umano che desidera."
- Ginevra, ho pensato che per qualche tempo sarebbe meglio se noi non ci vedessimo. Tu devi pensare alla tua vita. Devi frequentare persone come te.
- Le frequento già. Ma mi piace anche stare con te.
- Ormai ho deciso. Sarà solo per un po’. Diciamo che ci prendiamo una vacanza, visto che sta per arrivare l’estate. In autunno tornerò a trovarti.
- Ti dimenticherai che esisto!?
- Non ti dimenticherò mai. Su, non essere triste. – le disse, sollevandole il mento con un dito, affinché lo guardasse negli occhi. - Non ti sto dicendo addio.
- Ma è come se lo facessi. – sospirò Ginevra. – Promettimi che tornerai davvero.
- Te lo prometto.
A giugno scoppiò l’estate. Ginevra mise a punto gli ultimi preparativi per il viaggio che aveva faticosamente organizzato, quindi decise di partire. Hector lo aveva già fatto.

Mentre Hector scrutava il Monastero delle Pietre Volanti, apparso sulla cresta del monte su cui si stava arrampicando da ore, Ginevra scendeva dall’aereo che l’aveva condotta a Manaus. Un gruppetto di persone, tra cui un antropologo con cui aveva scambiato una fitta corrispondenza, l’attendeva al terminal degli arrivi. Fuori dall’aeroporto un fuoristrada, attrezzato di tutto punto, era pronto a partire per la foresta amazzonica.

 

Hector era già stato una volta al Monastero delle Pietre Volanti, una cinquantina di anni prima, per l’esattezza, ma non lo trovò affatto cambiato. Questa volta si era procurato un interprete. La sua determinazione attuale gli impediva di commettere i medesimi errori di un tempo. Quel viaggio lo aveva portato a riflettere su se stesso. Aveva fatto molta strada e quasi tutta grazie a Ginevra. Il suo lato umano era riemerso a fatica dall’oblio, per costringerlo a una decisione che un tempo era solo una vaga nebbia senza consistenza: voleva tornare umano. Per questo si presentò al Monastero delle Pietre Volanti, accompagnato da Li Po.
L’incontro con il lama Yesce Tenphel fu fissato di lì a due giorni. Nel frattempo era stato loro concesso asilo in una cella vuota in fondo al dormitorio dei novizi.
Li Po era molto silenzioso, ma se Hector gli poneva delle domande, le sue risposte erano ampie e accurate, come se la sua preoccupazione maggiore fosse quella di fargli comprendere la verità, anche nascosta, delle cose.
Quando infine poterono incontrare Yesce Tenphel, Hector giunse subito al sodo, senza tanti preamboli.
- Mi chiamo Hector e sono un vampiro di sentimenti. C’è una cura per me?
Li Po tradusse senza batter ciglio.
- Un keshai! Non ne ho mai incontrato uno. – commentò Yesce.
Hector restò in attesa. Yesce lo osservò a lungo, poi disse:
- Adesso ti metterò alla prova. Io creerò una forte rabbia dentro di me. Tu la preleverai senza prendere altro.
Hector chinò il capo. Li Po, sempre impassibile, si limitò a guardarli.
- Bene. – disse Yesce – Ora che ti ho conosciuto, sono ottimista per la tua guarigione. Non sei troppo giovane per tentare.
- Troppo giovane? – si stupì Hector.
- I keshai appena trasformati non hanno controllo su se stessi, sono molto pericolosi. Un mio predecessore ne incontrò uno, una volta, che fece razzia tra i novizi. Gli ci vollero sei mesi per rimettere le cose a posto.
- Temo di essere stato io. Sono già stato qui.
- Allora sai a cosa mi riferisco. Gradirei che questa volta non ti nutrissi all’interno del monastero.
- Non dubitare. Posso astenermi per tutto il tempo che occorre. Tu puoi guarirmi?
- Non io, no, ma ti manderò da un monaco mio amico. Lui è l’unico che sappia cosa fare. Vi darò una guida con cui potrete partire domani all’alba.
Hector fu molto soddisfatto di essersi trascinato dietro Li Po. La frustrazione di non comprendere nulla di quanto gli veniva detto, aveva compromesso irreparabilmente la sua ricerca, l’ultima volta che era stato lì.
Camminando per tutto il giorno, furono in grado di raggiungere il nuovo monastero sul far della sera. Li Po gli comunicò che quel piccolo tempio si chiamava Monastero del Sentiero Infinito e che vi viveva un unico anziano monaco di nome Lodoe Delek. Solo dopo aver bussato a lungo e con tutta la loro forza, il monaco venne ad aprire, costringendo Hector a chiedersi se non fosse sordo.
Lodoe Delek era sorridente e placido. La sua serenità riempiva ogni spazio libero dentro di lui, tracimando lungo i corridoi e nelle stanze vuote. Il piccolo monastero vibrava come un diapason.
Lodoe li invitò a mangiare, ma, mentre il giovane monaco che li aveva guidati e lo stesso Li Po, con gratitudine, accettavano, Hector fu costretto a mettere subito in chiaro la sua condizione.
- Grazie per la tua gentile offerta, Lodoe. Purtroppo a me è impossibile accettarla: sono un keshai.
- E cosa ti aspetti da me? – gli tradusse Li Po.
- Che tu mi guarisca.
Lodoe si voltò a guardare attentamente il giovane monaco.
- È stato il lama Yesce Tenphel a mandarti qui, vero?
- Sì, proprio lui.
- Lo sapevo che avrei dovuto ritirarmi nelle profondità di una grotta al centro della terra. – sospirò.
- È così difficile?
- È quasi impossibile. Mediterò e ti comunicherò le mie decisioni, domani. Adesso mangiamo. Tu puoi restare, o farti un giro, come preferisci.
Hector preferì farsi un giro e affacciarsi a guardare le stelle che in quella notte di vetro sembravano volerglisi precipitare addosso.
Il giorno seguente, Lodoe congedò la giovane guida e si occupò di preparare Li Po.
- Prima di prendere una decisione, devo sapere che cosa devo combattere. Innanzi tutto è necessario che tu mi traduca esattamente, parola per parola, tutto quello che dirà il keshai.
Li Po chinò tranquillamente la testa in un silenzioso assenso.
- Hector, adesso devi fare un passo indietro, tornare ai tuoi ultimi ricordi di umano e descrivermi con ogni dettaglio possibile come è avvenuta la tua trasformazione. Quando, dove, per opera di chi, minuto per minuto, senza tralasciare nulla. Per aiutarti, ti provocherò un leggero stato di ipnosi. Sei pronto?
- Sono pronto.
In un primo momento, Hector si lasciò distrarre dal suono cristallino di una campanella che Lodoe scuoteva ritmicamente, poi, all’invito di Li Po di tornare indietro con la mente, si sentì precipitare in un profondo pozzo buio.
- Studiavo le tribù della foresta amazzonica già da un paio d’anni, quando mi imbattei negli Xaugant. Durante i tre mesi in cui mi aggirai intorno al piccolo villaggio, mi colpì soprattutto una cosa: si muovevano poco. Avevo compreso che il loro territorio era ridicolo, troppo piccolo perché un gruppo di venti persone riuscisse a trarne sufficiente sostentamento. Inoltre erano circondati da tribù ostili. La loro sopravvivenza era in pericolo. Non li avevo mai visti mangiare. Pensavo che probabilmente lo facessero al chiuso delle loro capanne. Poi, una sera, uno di loro mi si avvicinò, mi fece ampi gesti per farmi capire che volevano che mi unissi a loro. Nella piccola radura circondata dalle capanne avevano preparato una specie di banchetto. La poltiglia che vedevo nelle tazze di legno allineate su foglie gigantesche non era molto allettante, ma per i miei studi antropologici quello era un passo avanti di tutto rispetto. Partecipare al loro banchetto avrebbe avuto altri vantaggi. Potevo sopportare di ingoiare qualche schifezza, non sarei certo morto per questo, pensavo. Stupido…
Hector rimase in silenzio per qualche istante, poi, proprio come se rivivesse un incubo, la sua espressione cambiò.
- E questo chi è? Lo stregone. Oddio, perché mi guarda così? Cosa vuole da me?
Un altro silenzio prolungato.
- Cosa è stato? Mi sento così vuoto, all’improvviso. Non provo più niente, né curiosità, né paura. Lo stregone mi fa segno di seguirlo. Entro nella sua capanna, subito dietro di lui. È buio pesto. Che puzza tremenda. In mezzo al pavimento di terra battuta c’è un largo braciere. La luce che emana dai tizzoni ardenti gli illumina la pelle unta, nera. I miei occhi si sono abituati al tenue chiarore. Lo guardo in viso. I suoi occhi sono neri come la notte, freddi. Siamo seduti uno di fronte all’altro, in mezzo a noi il braciere. Ha una serie di penne nere e bianche infilate in una fascia sulla fronte. I suoi capelli sono lunghi, arruffati, divisi in ciocche tenute insieme dal fango. Dovrebbe risultarmi orripilante, invece mi lascia del tutto indifferente. Continua a guardarmi, immobile come una statua. Io mi sento sempre più vuoto. A un tratto il suo braccio si muove, lampeggiando dei riflessi del fuoco morente. Getta qualcosa sulle braci, da cui si solleva un fumo biancastro e puzzolente. Con un ventaglio di penne spinge il fumo verso di me. Mi si strozza il respiro. Tossisco. Tossisco fino a lacrimare. Non respiro più, mi sento svenire. Buio. È così buio. Non respiro. Sono disteso a terra. Sono morto. So che sono morto perché non respiro. Eppure provo un intenso dolore, in tutto il corpo. Non riesco ad aprire gli occhi. Certo, sono morto. Ma allora perché sento dolore? Non ho più un corpo, solo dolore che mi trafigge tutto intorno. Dolore e buio. Per sempre. Non c’è altro, il tempo non esiste più. Una notte infinita di dolore. È questo l’inferno? Deve essere così. Questo dunque significa bruciare all’inferno? Nemmeno la speranza che prima o poi finisca. L’eternità adesso è un concetto terrorizzante. Una notte eterna, a bruciare all’inferno.
Hector produsse una serie di lamenti, che procurarono a Li Po una seria pelle d’oca. Lodoe attendeva con pazienza che Hector continuasse.
- La notte eterna subisce un cambiamento, dalle mie palpebre filtra una luce rossa. Ho ancora delle palpebre? Esiste ancora una luce? Se solo fossi in grado di vederla. Con tutte le mie forze, cerco di aprire gli occhi. Alla fine ci riesco. Sono in mezzo alla foresta. Il villaggio è sparito. Chi mi ha portato qui? Dove sono? Il dolore è meno intenso. Riesco a muovermi. Riesco a camminare. Sono ancora vivo. Credevo di esserlo, ma poi ho capito. Quando i miei appetiti si sono destati e ho iniziato a nutrirmi, e poi, quando col tempo non subivo alcun mutamento, ho capito cos’ero diventato. –
Hector tacque. Il suo sguardo era lucido.
- E sei venuto qui a cercare qualcuno che fosse in grado di guarirti.
- Riesco a desiderarlo. Non vuol dire che posso farcela?
- Può darsi. Però devi sapere una cosa. Il dolore che hai provato quella notte è niente, in confronto a quello che proverai, e non per una notte soltanto. Ci vorrà almeno un mese, per invertire la trasformazione. Te la senti di affrontare questo nuovo inferno? E c’è un’altra cosa che non ti ho ancora detto: potresti anche non sopravvivere. Alcuni sono morti nel tentativo. Non ci sono garanzie.
- Sono già morto. Che differenza vuoi che faccia?
Il monaco fissò Hector molto attentamente.
- Hai ragione. C’è una speranza per te. Adesso dimmi perché lo vuoi fare.
- Per tornare umano, naturalmente.
- Perché? Come mai un desiderio simile in un essere che non dovrebbe nutrire alcun desiderio?
Hector pensò a Ginevra e sorrise. Il suo sorriso stupì Lodoe.
- C’è una donna che mi ama. Voglio ricambiare il suo amore.
- Sì, c’è davvero una speranza per te. – affermò il monaco, ridendo.
- Ah, le infinite vie dell’amore e della guarigione! – tradusse Li Po.
- Ancora una curiosità, se non ti dispiace. Come mai non ti sei semplicemente nutrito di quell’amore? Non era un cibo allettante, per te?
- Molto allettante, sì, ma era un amore così raro, come non ne avevo mai incontrati. Mi è sembrato davvero assurdo distruggerlo. Sarebbe stato un peccato.
- Già, un vero peccato, visto che è stato capace di condurti fin qui.
Per due giorni Hector fu lasciato a meditare in solitudine. Lodoe voleva essere ben certo che il keshai capisse fino in fondo a cosa stava andando incontro. Quando tornò a fargli visita, scortato dal paziente Li Po, gli pose un’unica domanda:
- Sei pronto a morire?
- Sono pronto. – gli rispose Hector.

- I tuoi capelli si sono sbiancati. – gli disse Li Po, mentre gli porgeva il suo primo pasto umano.
- Sto già invecchiando? – si domandò ad alta voce.
- No, è stato il dolore. Ma adesso ti senti meglio, vero?
- Mi sento debole, ma anche, come dire?  così felice!
- Tornerai subito da Ginevra, non appena potrai rimetterti in viaggio?
- È l’unica cosa che desidero.
- È il motivo per cui sei qui.
- Credo di aver pensato che tutto quel dolore aveva un senso e perciò ho potuto sopportarlo, almeno finchè sono rimasto cosciente. È stato tremendo.
- Ma ne è valsa la pena.
- Sì, spero di sì.

 

Durante il viaggio di ritorno, Hector non aveva fatto altro che pensare a Ginevra. Li Po, incuriosito dalla sua espressione perennemente sorridente, gli aveva chiesto di parlarle di lei ed Hector ne era stato entusiasta: era il suo argomento preferito, l’unico. Quando si erano salutati, Li Po gli aveva augurato una felice vita da umano e lui si era commosso.
Da quel momento i suoi pensieri si erano concentrati tutti sul prossimo incontro con Ginevra. Non vedeva l’ora di sorprenderla. Finalmente i suoi desideri erano stati esauditi. Peccato che lui non avrebbe potuto sentirne le emozioni come quando era un keshai. Ma poteva immaginarli. Gli sarebbe stato sufficiente guardarla negli occhi, per leggervi la gioia che avrebbe provato rivedendolo, la sorpresa del suo nuovo sorriso, l’amore immenso che lo avrebbe investito, riscaldando il suo cuore. Le sarebbe bastato guardarlo, per capire che ci era riuscito. Poi le avrebbe raccontato ogni cosa, le avrebbe mostrato la sua gratitudine. La loro vita sarebbe cambiata. Avrebbero fatto insieme mille cose, sarebbero andati a mangiare nei più bei ristoranti, avrebbero viaggiato, sarebbero invecchiati insieme amandosi per il resto dei loro giorni.

Quando Hector bussò alla porta di Ginevra, il cuore gli scoppiava di felicità. Attese che gli venisse ad aprire, colmo di aspettativa e di speranza. Il suo amore per lei si era trasformato in una palla incandescente che gli gravitava intorno al petto.
La porta si aprì.
Ginevra vide un uomo sorridente davanti alla sua porta. Lo guardò con il suo nuovo sguardo freddo e indifferente e, giudicandolo un pasto sostanzioso e irresistibile, se ne nutrì.
Hector, svuotato completamente di ogni sentimento, la guardò per un attimo senza riconoscerla, poi strizzò gli occhi e fece un passo indietro, chiedendosi dove fosse finito e cosa ci facesse lì. Quindi, senza una parola, tornò sui propri passi, perdendosi per le strade affollate.

 


Rientrando in casa, in un tedioso pomeriggio di febbraio, Ginevra trovò una lettera sul pavimento. Qualcuno l’aveva fatta passare sotto la porta. Si sedette sul divano e l’aprì.

Carissima Ginevra,
quando ci siamo conosciuti, io ero un keshai e tu un’umana, una splendida umana. L’ultima volta che ci siamo visti, le parti si erano invertite. Ora io sono umano e tu una keshai. Il nostro destino si fa beffe di noi, non ti pare? Il tuo amore per me, alla fine ti è risultato fatale, mentre ha condotto me alla guarigione. Mi sento in debito con te, ti sono infinitamente grato per quello che mi hai donato. Purtroppo, da me sei stata ricambiata molto male. So perfettamente come ti senti. So che le mie parole non possono fare breccia in quello che sei diventata. Spero solo che i tuoi ricordi di umana non siano troppo lontani e che tu riesca a ricordare quanto mi amavi. Adesso sono io ad amarti, come non ho mai amato nessuno. Il tuo tentativo di prosciugarmi non ha sortito l’effetto voluto. Ci ho messo un po’ a riprendermi, ma oggi ti amo più di allora. Ti prego, ti imploro, torna umana per me. Torna ad amarmi di nuovo.
Ginevra lesse fino in fondo, incluse le precise istruzioni di Hector, per contattare Li Po e farsi guidare da Lodoe. Dopo la sua firma c’era un post scriptum: rileggi il tuo diario.

 

Le istruzioni per tornare umana le erano molto chiare; i motivi per cui avrebbe dovuto farlo, molto meno.
E poi, cos’era quella storia del diario?
Ginevra non era curiosa, ma qualcosa la spinse suo malgrado alla scrivania dove erano impilati un bel numero di quaderni con le copertine di pelle. Li aveva già notati prima, ma non li aveva mai aperti. Ne prese uno, quello in cima al mucchio, e iniziò a sfogliarlo dal fondo.
Contro ogni previsione, si ritrovò immersa nella lettura per molte ore. Sapeva di averli scritti lei, ma non si riconosceva. Trascorse il resto della notte a rifletterci.
Adesso aveva un motivo, ma era il motivo di un’altra: sarebbe stato sufficiente a spingerla fino in Tibet? 

Hector teneva d’occhio Ginevra, da lontano. La seguiva ogni volta che poteva. Non c’era giorno che non pensasse a lei, ma non si permetteva più di avvicinarsi. Gli era sufficiente sapere che fosse ancora lì, a due passi da lui, sebbene irraggiungibile. Una giovane keshai era troppo pericolosa per essere avvicinata con ostentata indifferenza.  A volte la sofferenza che provava era più forte del suo amore. Quando lei era umana, il suo dolore per l’amore che lui non riusciva a restituirle era dolce e tenue. Quello di Hector era completamente diverso. Era un dolore pesante e amaro, che lo annebbiava e lo spingeva alla disperazione. A volte, guardandola, sospirava, e quei sospiri erano come un vento cattivo, di quelli che strappano le foglie dai rami, anche quando non sono ancora morte. La seguiva, a volte, nei suoi spostamenti, lungo strade affollate o dentro il parco, lungo sentieri poco frequentati. Certe volte lei si voltava a guardarlo, ma non lo avvicinava mai.

 

Ginevra lo sentiva. Conosceva ogni suo spostamento. Anche se fingeva di non badare a lui, studiava ogni giorno i movimenti instabili delle sue emozioni. C’era una confusione delirante nello sprigionarsi dei suoi sentimenti, che le creava strani, vaghi dubbi. Vi riconosceva un amore intenso, sommerso a volte dal rimorso, a volte dalla disperazione e da un dolore così oscuro da provocarle una curiosa necessità di avvicinarlo per chiedergli cosa significasse. Era lei la causa di tutto questo? Non se ne capacitava. Dai diari che aveva letto, Hector non aveva mai mostrato di poterla amare con tanta intensità. Ma certo, allora era un keshai. Eppure, cosa le aveva detto, una volta? “Se potessi essere felice, tu saresti la mia felicità”. Era questo che gli mancava, dunque? Poter essere felice con lei? Ma lei non ricordava più molto bene cosa volesse dire essere felici. Però stava bene. Non sentiva il bisogno di avere un essere umano accanto a sé, benchè da umana avesse scritto “Se l’unico modo per essere felice, è diventare come lui, lo farò.” Non aveva considerato che diventare come lui comportasse l’impossibilità di provare alcuna felicità. Per quale motivo avrebbe dovuto rinunciare al suo benessere, alla sua vita immobile, alla sua inalterabile giovinezza? Perché avrebbe dovuto rinunciare a tutto questo? Per lui? E chi era Hector per lei? Solo un umano che l’amava. Doveva importarle qualcosa? Ma davvero tutto quel dolore era causa sua?
Un pomeriggio incrociò il suo sguardo e ciò che vi lesse dentro raggiunse un luogo nel profondo di lei che neppure riconobbe. Si sentì sprofondare.

Hector incontrò lo sguardo indifferente di Ginevra e il dolore ardente che provò gli ricordò la sofferenza della trasformazione. Ma poi, d’improvviso, fu sopraffatto dal desiderio. Baciarla. Stringerla tra le braccia. Diventare un tutt’uno con lei. Dimenticare ogni cosa per sempre. Dal fondo della sua anima esplose un richiamo d’amore che affiorò attraverso i suoi occhi per giungere fino a lei. E poi, agonia. Ma in ultimo, senza motivo, anche una luminosa speranza che si rifiutava di morire. Per quell’amore aveva attraversato l’inferno ed era tornato umano. Per Ginevra avrebbe lottato, si sarebbe consumato, sarebbe morto. Un giorno, molto vicino, sarebbe tornato da lei e avrebbe ripetuto gli stessi gesti e le medesime parole che Ginevra aveva fatto e detto per lui, quando le parti erano invertite. Ora che la sua fame sembrava sotto controllo, poteva provarci.

 

Ma, un giorno, l’aveva vista salire su un taxi, con un grosso zaino. Partiva. Dove stava andando? Una tenue speranza prese vita dentro di lui. Possibile che la sua lettera avesse prodotto l’effetto sperato? Un senso di colpa gli si piantò immediatamente in mezzo al petto. Non le aveva scritto a cosa sarebbe andata incontro, tentando la guarigione. Non le aveva nemmeno scritto che avrebbe rischiato la morte. Ma poi si ricordò com’era fatto Lodoe: ci avrebbe pensato lui. Le avrebbe lasciato un’alternativa. Poteva accettare o rifiutare. Se le sue convinzioni non fossero state sufficientemente solide, sarebbe tornata indietro così come era partita: da keshai. E lui l’avrebbe perduta per sempre.

Il monaco chiese a Li Po di accompagnarlo nella stanza di Ginevra, per tradurre ciò che aveva da dirle. Ginevra li vide entrare e pensò che era giunta la sua ora. Da lì sarebbe uscita guarita o morta. E non si sentiva pronta.
- Questa è una mistura che devi bere tutta d’un fiato. Puzza, lo so, e ha un sapore non troppo gradevole. Non farci caso. Ne dovrai bere una tazza ogni giorno, per una settimana. Ti farà soffrire molto, ma devi sopportarlo, perché non c’è altro modo.
- E poi? – chiese Ginevra.
- E poi non ti importerà più. Non ti accorgerai più di niente e di nessuno. Per te esisterà solo il dolore. Quando sarà passato, sarai tornata umana. Spero che tu sia forte abbastanza. Pensa solo a non morire. Ne sarei molto deluso.
Ginevra sospirò. Pensò a Hector.
- Non so nemmeno perché lo sto facendo. – ammise.
- Hai affermato di essere sicura, che volevi tornare umana per Hector. Mi hai mentito?
- No. È solo che non capisco perché lo sto facendo, in realtà.
- Forse perché lui lo ha fatto per te.
- E se morissi?
Lodoe la fissò severamente.
- Non posso farlo, se non ne sei convinta.
Ginevra lo fissò a sua volta e inspirò profondamente.
- Cominciamo. – disse, rassegnata.
- Sei sicura?
- Sì. – rispose Ginevra, mentendo a se stessa per la prima volta, da quando era diventata una keshai.
Lodoe le porse la tazza e la riprese quando Ginevra l’ebbe svuotata.
Quasi immediatamente un intenso calore si sviluppò dentro di lei, raggiungendo le terminazioni nervose lungo gli arti. Scariche elettriche scivolarono velocissime, raggiungendo il suo cervello, scaricandosi come fulmini tra i suoi pensieri scomposti. Anche se chiudeva gli occhi, una luce intensissima la raggiungeva attraverso le palpebre, come se fosse distesa al sole.
Sopportò tutto lamentandosi appena. I suoi pensieri erano confusi. Avrebbe voluto porre altre domande a Lodoe, ma non appena le venivano in mente, subito si dissolvevano, incapaci di raggiungere le labbra.
Sentì Lodoe congedare Li Po. Doveva essere quello il senso delle sue parole, poiché Li Po era uscito dalla stanza con un inchino. Di certo Lodoe sapeva che non era più in grado di parlare. La osservava in silenzio, col volto privo di espressione e lo sguardo fermo, che si poteva quasi dire indifferente. Con una pezzuola umida, ogni tanto, le detergeva il sudore dalla fronte. Ginevra non era certa di questo. Varie volte, riaprendo gli occhi, si rese conto di essere sola, mentre altre volte Lodoe era lì, fermo come una statua. Dopo un tempo che le parve lunghissimo, Lodoe le porse un’altra tazza del suo veleno. Obbedendo al suo invito silenzioso, Ginevra bevve. Non ci furono mutamenti sostanziali nel decorso del suo dolore. Pensava che se si fosse mantenuto a quel livello, avrebbe potuto sopportarlo. Fu solo alla quarta tazza del miscuglio micidiale che il dolore si propagò più in profondità, investendo ogni singola cellula del suo corpo, del quale non aveva più controllo. Udì alte grida intorno a lei. Forse era lei a urlare, ma non lo sapeva.
Se Lodoe fosse riuscito a farle bere la quinta e la sesta tazza di veleno, lei non lo seppe mai. Né sapeva esattamente dove si trovasse, o se qualcuno, oltre lei, fosse presente in quell’inferno immondo. E non gliene importava. Il suo universo era un’unica, solida, immane palla di fuoco, sospesa nel vuoto, in assenza di tempo. E lei ne era il nucleo.
Dall’eternità rovente, a un tratto, improvvisamente e senza alcun motivo apparente, si staccò un pensiero. Possiedo due occhi e li aprì. Vide colori e forme privi di significato e quindi li richiuse, indifferente. Un’altra eternità trascorse prima che un nuovo pensiero si formasse in qualche punto imprecisato del nucleo di fuoco: io sono Ginevra e prima che questo pensiero assumesse un senso. Fu quando tornò a sentire le sue membra, percorse da rapide sciabolate di puro dolore. Contemporaneamente le sue orecchie tornarono a udire lontane urla indistinte. I suoi occhi si aprirono e le forme e i colori che le tremolavano davanti, iniziarono a comporre un’immagine più precisa, quella di una stanza in penombra e di un uomo anziano inginocchiato accanto a lei. Le grida si interruppero per essere sostituite da lamenti attutiti. Richiuse gli occhi.
Quando li riaprì, c’erano due uomini, accanto a lei. Uno dei due parlò:
- Ginevra, mi senti?
Ginevra sono io pensò. Ma non sapeva come comunicare ai due, lì, che ne era cosciente e che li sentiva.
Le sue mani erano di nuovo fresche. Il dolore si era attenuato anche negli arti superiori, quindi tentò di sollevarne uno e fece un cenno con la mano, prima di richiudere gli occhi.
Il tempo riprese a scorrere. Lamelle di luce filtravano dalle imposte chiuse. Lodoe e Li Po erano accanto a lei.
- Ginevra, mi senti?
Ginevra assentì col capo. Si portò le dita alle labbra secche. Lodoe gliele inumidì con un panno bagnato.
- Come ti senti?
Ginevra fece un rapido esame delle zone del suo corpo di cui aveva ripreso coscienza e tentò di parlare.
- Il dolore è più sopportabile. – pronunciò, in un rauco mormorio.
- Bene! Molto bene! – tradusse Li Po – Adesso proviamo a farti bere un po’ d’acqua.
Li Po passò una tazza a Lodoe, il quale, con un piccolo cucchiaio, fece scorrere poche gocce di liquido tra le sue labbra.
- Grazie. – mormorò Ginevra.
- Ce l’hai fatta. Sei salva. Tra qualche giorno starai di nuovo bene. Bene come può stare un’umana. 
Ginevra sorrise.

 

Quando Hector la rivide, erano trascorsi tre mesi. Era di nuovo arrivato l’autunno. Per un paio di giorni si limitò a farle la posta sotto casa. Una o due volte arrivò al suo portone senza trovare il coraggio di bussare. Infine, vedendola uscire di casa, la seguì in direzione del parco. Hector prese la decisione di avvicinarla una volta per tutte. Doveva rischiare. Non aveva alternative.
Ginevra sedeva sulla stessa panchina del parco, su cui l’aveva vista parlare con la sua amica, molto tempo addietro. Guardava davanti a sé, concentrata su un pensiero che la faceva sorridere. Hector sospirò e si avvicinò a lei.
- Posso? – le chiese, prima di sedersi.
- Perché ci hai messo tanto? – gli rispose Ginevra, senza alcuna sorpresa, con un sorriso luminoso, molto simile a quello che gli rivolgeva un tempo.
Hector notò che c’erano nuove piccole rughe intorno ai suoi occhi. Lei osservò i capelli ingrigiti sulle sue tempie.
- Adesso, finalmente, siamo uguali. – gli disse, con evidente soddisfazione.
- Però tu non mi ami più. – commentò Hector, tristemente.
Ginevra lo abbracciò di slancio.
- Ti sbagli. Ho conservato il tuo amore. Non l’ho digerito, chissà perché: mi è rimasto sullo stomaco. Ah, Lodoe ti saluta e ci tiene a farti sapere che sei stato il suo miglior paziente.
- E tu?
- Io sono stata l’ultima. Ha deciso che dopo aver sopportato le mie urla per un mese, era giunta l’ora di andarsene in un eremo, una grotta al centro della terra dove nessun altro keshai potesse raggiungerlo.
Hector scoppiò a ridere.
- Povero Lodoe. Lo abbiamo fatto penare.
- Soprattutto io, credo. Però poi mi ha detto che la nostra è stata la storia più bella che gli fosse mai capitato di conoscere.
- Ma la conosceva solo a metà.
- L’altra metà gliel’ho raccontata io.
- Chissà Li Po come se l’è goduta!
- Ah, era entusiasta. Mi ha chiesto il permesso di scriverla. Secondo lui diventerà un best seller tra i novizi. Lodoe sosteneva che potrebbe essere molto educativa. La morale è che quando non si ha pazienza, si ottiene molta sofferenza gratuita. Insomma, sono io che ho fatto la figura della sciocca impaziente.
- Mi dispiace. Mi dispiace tanto. Avrei dovuto dirti che stavo tornando in Tibet a riprendere la mia ricerca, ma non volevo che rimanessi delusa, nel caso avessi fatto fiasco di nuovo. Come potevo immaginare che tu…
Hector non fu in grado di completare la frase. I suoi occhi erano lucidi. Ginevra lo baciò. Il primo bacio da umana a umano. Un piccolo miracolo che risollevò Hector dal baratro in cui ancora sostava.
- Non è colpa tua. Mi ero convinta che non ci fossero alternative. Se tu non potevi tornare come me, io sarei diventata come te. Mi avresti preso con te, in questo caso?
- Credo di sì. Non potevo restarti lontana neanche un giorno.
- La tua memoria fa un po’ acqua. Ti ricordo che sei stato una settimana intera senza venire a trovarmi, qualche tempo fa.
- Avevo vissuto un’esperienza incredibile. Ci ho messo un po’ a riprendermi. E comunque, anche se tu non mi vedevi, io ti sentivo benissimo anche da casa mia, cosa che purtroppo adesso non posso più fare. 
- Un rimedio ci sarebbe. Potremmo condividere lo stesso tetto.
Hector le sorrise in un modo che Ginevra non aveva mai visto prima e che la abbagliò, per un attimo, come se un sole infuocato si fosse affacciato a illuminare il suo cuore. Le sue labbra furono attratte dalla calamita delle labbra di lui e per un lungo momento il tempo smise di avere un senso.