Quell’estate abitavo tra campagna e mare, in una casa ricavata da un bunker della seconda guerra mondiale. Al corpo circolare, un architetto fantasioso aveva unito altre tre stanze della stessa forma, creando una casa a forma di quadrifoglio. L’avevo affittata per la posizione. Tra me e il mare c’erano il giardino, la strada litoranea e una piccola distesa di scogli. Il giardino offriva l’ombra scura di un palmeto verso l’alta collina e di una pineta verso la strada. Era il paradiso. L’isola di Liscalonga era tranquilla, niente a che fare con quelle invase da torme di ragazzetti urlanti nella notte. Non c’era neppure una discoteca, anche se il progetto si era fatto avanti più volte nel corso degli anni, senza mai trovare consensi sufficienti. La villa era a un chilometro dal paese. Ci andavo in bicicletta, nelle ore meno calde, per procurarmi cibo e giornali.
Da dieci anni a quella parte, la mia meta estiva non aveva subito variazioni. Continuavo imperterrito a prendermi un mese di vacanze, perché il mio lavoro me lo permetteva.
Amavo restarmene là, a contemplare l’alba e i colori violacei del tramonto, che però avveniva dall’altra parte dell’isola. Una mattina, prima dell’alba, anziché sedermi sotto il pergolato, me ne andai, armato di torcia, fin sugli scogli e mi sedetti con i piedi a mollo. Aspettavo tranquillamente che il sole facesse capolino, quando arrivò qualcuno che si sedette esattamente come me, a una decina di metri di distanza. Con le prime luci, lui mi vide e assunse un’espressione poco piacevole. Si alzò, si avvicinò e mi chiese a brutto muso:
- Che cazzo ci fai qui?
- Aspetto l’alba. Perché? E’ vietato?
- Non fare lo spiritoso. Questo è il mio posto.
- Con tutto ’sto affollamento, effettivamente... - risposi, con un tono ironico che lo infastidì.
Fu allora che gli vidi il coltello. Forse prima l’aveva in tasca. So soltanto che quella vista fu molto convincente. Mi alzai e me ne andai. Seguendo la litoranea, mi spostai di poco. Alla prima curva, la scogliera formava una penisoletta che s’inoltrava nel mare. Andai fino alla punta e là di nuovo mi sedetti sull’orlo. Peccato che i miei piedi non toccassero più l’acqua. Ma da lì avrei visto l’alba in santa pace, senza psicopatici rompipalle vicino. All’improvviso sentii uno strano suono. Sembrava una specie di uccello. Guardai per caso verso il punto dov’ero stato prima di essere sfrattato, e restai allibito. Proprio là, davanti allo scoglio dove adesso era seduto lo squilibrato, c’era un delfino. Un delfino vero e rumoroso, che dimostrava tutta la sua gioia di vedere quell’uomo. Sapevo che in qualche delfinario usavano i mammiferi come terapia per gli schizzati. Mi venne subito in mente che a quel tizio la cura non dava effetti. L’uomo si calò in mare e il delfino si lasciò tranquillamente accarezzare. Non sembrava che per quei due fosse il primo incontro. In realtà li vedevo affiatati, nella luce che si faceva sempre più chiara. Poi realizzai. Quello era il suo posto. Certo, che non ci voleva nessuno. Nel suo modo spicciativo mi aveva mostrato di non voler condividere. Non è che gli si potesse dare torto. Forse anch’io avrei fatto lo stesso. Provai una profonda invidia per lo psicopatico. Il sole lanciò il suo primo raggio al di qua dell’orizzonte ed emerse velocemente dal mare. Il delfino prese la via del largo. Per quel giorno, lo spettacolo era finito. Un cielo senza nubi prometteva una giornata abbagliante.
In paese, quel giorno, c’era il mercato. Lasciai la bicicletta vicino all’edicola e me ne andai a passeggiare tra i banchi, curiosando tra vegetali commestibili e appendini carichi di stoffe colorate, che in un modo o nell’altro avevano a che fare con la spiaggia e il sole. Quando lo vidi, il mio sguardo si bloccò su di lui, mentre il mio cervello non recepiva ancora il motivo di tanto interesse. Poi anche lui mi vide e, quando il nostro sguardo s’incrociò, il suo nome mi venne alle labbra:
- Peter! - urlai, allargando le braccia.
Lui fu più lento, oltre che più interrogativo.
- James?
Ci abbracciammo come fanno due vecchi amici che non si vedono da dieci anni e che per nessun motivo al mondo si sarebbero mai cercati. Solo il caso aveva ordito quell’incontro.
Eravamo stati compagni di liceo, grandi amici, inseparabili come gemelli siamesi. Ci eravamo divisi di tutto, il motorino, i libri, le birre, le sigarette, le incazzature, gli sfottò dei compagni che avevano trasformato il mio nome, Giacomo Bondi, in James Bond, e il suo, Pietro Pani, in Peter Pan. Solo le ragazze non ci eravamo divisi, perché a me non piacevano. A me piaceva lui. Anzi, ero pazzo di lui, ma non trovai mai il coraggio o il momento adatto per dirglielo. Col tempo, in qualche modo, questo ci aveva allontanati. Per alcuni anni, non ci eravamo più frequentati con la stessa assiduità, ma ci eravamo sentiti regolarmente, giusto per fare il punto della situazione, poi purtroppo c’eravamo allontanati anche fisicamente, quando lui si era trasferito per lavoro, a seicento chilometri di distanza. Amen.
Quando era giunto il momento, ero stato al suo matrimonio, poi, per qualche tempo, più nulla. Dieci anni di silenzio totale. Io,  regolarmente, pensavo a lui, ma non con nostalgia. In un certo senso, era rimasto a far parte di me, come se non ci fossimo mai separati. Ce l’avevo attaccato addosso, era la mia seconda voce, il mio alter ego, la vocina fastidiosa che mi diceva cosa fare, quando non sapevo dove sbattere la testa, il mio suggeritore. Mancava solo la buca nel palcoscenico. Certo, mancavano anche le tavole, del palcoscenico, ma il mondo che altro è, se non un immenso teatro?
Non mi mancava, insomma, per il semplice motivo che era sempre con me.
- Quanto tempo - ti trovo bene - che ci fai qui - e bla bla bla, le solite cose che si dicono in questi casi.  - E tua moglie? - Qui la sua faccia cambiò decisamente espressione. Un grugno truce, una netta ruga inviperita tra le sopracciglia, la smorfia che ricordavo dai tempi della scuola, per dire che basta, non ce n’era più per nessuno.
- Ci siamo separati. Ah, finalmente sono tornato libero. Adesso posso spassarmela in pace. Ora sto bene. Non sai da quanto tempo non mi sentivo così. Mi sembra di essere ritornato indietro nel tempo.
Eccetera eccetera, fino al porto. Non riuscivo a bloccarlo. A un certo punto mi distrassi persino, tanto era vasta la valanga di cose che mi raccontò. Intanto, cercavo di ricordarmi dove avevo lasciato la bicicletta. Lui smise di parlare, non so se perché mi vedeva ormai distratto, o solo perché davvero aveva finito di sfogarsi. Tornammo indietro, ma la mia bicicletta era sparita. Il giornalaio mi consolò assicurandomi che di sicuro l’avrei ritrovata, ma a me in effetti non me ne fregava molto. Ero solo preoccupato che il noleggiatore non me la facesse pagare per nuova, mentre si trattava di un reperto archeologico, contrassegnato da anni col numero 9.
- Ti posso dare un passaggio?
La proposta di Pietro mi giunse dalle retrovie. Mi ero quasi dimenticato di lui.
- Grazie, ma vorrei prima andare a sistemare questa storia al noleggio.
- Ti accompagno.
Lo guardai bene in faccia e sorrisi. Avevo perduto l’abitudine alla sua compagnia. Mi ricordavo che una volta eravamo stati inseparabili, sì, ma era passato tanto di quel tempo!
- Se non hai niente da fare...
- Sono libero come l’aria. E adesso che ti ho ritrovato, vorrei restare un po’ con te. Abbiamo un sacco di cose da raccontarci.
Peccato che a me, in quel momento, non mi veniva proprio alcuna voglia di raccontargli nulla. Di che cosa potevo parlargli? Del dolore che avevo provato lasciandolo andar via, mentre il mio cuore sanguinava per lui?
Il noleggiatore, certo Niccolò, dall’aria smunta e depressa, mi tranquillizzò, dicendomi che accadeva spesso nei giorni di mercato, che sparissero le biciclette, per poi riapparire magari il giorno dopo. In ogni caso, aveva precisi accordi con gli equipaggi dei traghetti, che non imbarcavano mai biciclette del noleggio, se non precedute da un accordo telefonico con l’agenzia. Quindi, niente di grave, me ne avrebbe procurata un’altra, ma non quel giorno, perché purtroppo erano tutte impegnate.
Alla fine dovetti accettare il passaggio di Pietro, sulla Méhari gialla col tettuccio nero che aveva noleggiato. Liscalonga era forse l’unico luogo al mondo in cui si noleggiavano esclusivamente Méhari Citroen - immatricolate tra l’80 e l’87. Potevi al massimo sceglierti il colore, e a volte neanche quello.
Appena giunti a Villa Quadrifoglio, Pietro fu colto da un grave attacco di ridarella.
- Ma dove sei finito? Cos’è quest’obbrobrio?
- A me piace. E’ in una posizione ottima, è molto fresca e costa poco. Inoltre qui davanti vengono i delfini.
- Lo credo che costa poco, sennò chi se la piglia? Che hai detto? Delfini?
- Sì, all’alba ci viene un delfino.
- E tu ti svegli all’alba per vederlo?
- Esatto.
- Ma che ti è successo, Giacomo? Non ti riconosco più.
- Menomale.
Entrammo in casa. Lì Pietro sembrò iniziare ad apprezzare i vantaggi di quella sistemazione.
- In effetti non è niente male. - commentò dopo un poco, ma quasi a malincuore.
- E’ particolare. - aggiunsi.
- Dai, raccontami di te.
Il vuoto.
Non che non avessi nulla da raccontare, ma mi sembrava di dover resettare, tradurre, ricostruire un linguaggio comune, che in quel momento mi sfuggiva.
- Allora? Hai perso la lingua? Sono io, Pietro, ti ricordi di me? Una volta ci raccontavamo tutto.
- E’ che non saprei da dove cominciare.
- Se stai prendendo tempo per inventarti qualche balla, lascia perdere. Dimmi solo fatti i cazzi tuoi, e per me va bene così. - mi disse, con la faccia offesa.
- Faccio il liutaio. Ho aperto un laboratorio con altri due del mio corso. Vivo da solo, sempre nella solita casa. Ho un gatto, due pesci rossi e un ficus gigante. Dei vecchi amici non vedo più nessuno. Ecco, più o meno è tutto qui.
- Cazzo, e dire che non sapevi fare i riassunti quando andavamo al liceo...
- Beh, adesso ho imparato.
- Ancora solo, eh? Fai bene. Tu sei stato sempre quello più intelligente, tra noi due. Meglio soli, hai ragione. Hai mille volte ragione. Io ci ho messo dieci anni, per capirlo. E per capire altre cose che avrei dovuto capire molto prima. Ma che vuoi farci, sono un po’ lento di comprendonio, a quanto pare.
- Che vuoi dire? Quali cose?
- Ah, no, non voglio parlare solo di me. Voglio che mi racconti della tua vita. Cos’è questa storia del liutaio? Come ti è venuta in mente?
Non fu molto difficile, in fondo, riprendere il filo della nostra amicizia. Certo, da parte mia, c’era anche qualcosa di diverso, una speranza che riaffiorava, una nostalgia selvatica, un desiderio di buttare a mare la prudenza e approfittare di quel momento per confessargli finalmente la verità; raccontare cosa lui avesse rappresentato per me e cosa, inspiegabilmente, rappresentasse ancora. Ma lì per lì non trovai il modo, il momento, lo stimolo, o forse solo il coraggio, per lanciarmi. Restai in stand-bye, con l’ansia di sapere cosa sarebbe successo. Niente. Cosa doveva accadere?
Invece Pietro volle restare a cena, e poi a dormire, e poi volle che lo svegliassi all’alba per vedere il delfino. E io cominciai a sentirmi in bilico su un filo tenuto teso molto in alto, come un funambolo dall’equilibrio precario, in procinto di precipitare, per schiantarsi al suolo. Per la prima volta, mi sembrava di giocare senza rete. Forse perché in un angolino del cervello, una microconsapevolezza mi diceva che quell’occasione sarebbe stata unica, l’ultima, insperata, un regalo del destino. O una punizione del fato, chissà. Magari non avevo sofferto abbastanza, per riscattare tutti i miei stupidi peccati. Quando pensavo in quel modo, mi odiavo sempre.
Prima dell’alba eravamo già seduti sulla punta della piccola penisola. Avevo portato con me due stuoie, per stare più comodi, e un termos di caffè. Pietro sbadigliava senza ritegno, mentre io scrutavo la scogliera per vedere se lo psicopatico si faceva vivo.
Quando schiarì all’orizzonte lo vidi e dissi a Pietro, con voce sicura:
- Tra poco arriva. Guarda là.
- Dove?
- In direzione della villa.
- Non vedo niente.
- Tra poco lo vedrai.
Invece, prima, lo sentimmo, proprio davanti a noi, a una decina di metri. Era come la risata di un uccello. Si fermò a guardarci per un lungo istante, come dovesse prenderci le misure.
- E’ fantastico! - urlò Pietro.
- Ssssss! Non urlare, così lo spaventi.
E difatti il delfino guizzò via.
- Ma dove va?
- Dove ti ho detto, davanti alla villa.
Alla luce incerta e un po’ livida dell’alba che stava sorgendo, il delfino arrivò davanti allo scoglio e lo psicopatico che era là in attesa, si buttò in acqua. Per me si ripeté lo spettacolo che Pietro vedeva per la prima volta.
- Voglio nuotare anch’io col delfino.
- Te lo sconsiglio. Quel tizio gira armato ed è molto geloso del suo rapporto a due.
- Ma prima si è fermato qui davanti. Se domani scendiamo in acqua, può darsi che si metta a giocare anche con noi.
- Può darsi. Magari ci potremmo provare.
- Domani, sì. Domani ci proviamo.
L’unica cosa che mi venne in mente in quel momento era che Pietro avrebbe di nuovo dormito da me. Il mio flauto rispose prontamente a quel pensiero, ergendosi con l’autonomia che gli era consueta. Menomale che avevo indossato una camicia larga e lunga che copriva tutto.
Ecco, non ci era voluto molto per rituffarmi nello storico e indimenticato tunnel del mio amore per Peter Pan.
- Facciamo il bagno adesso, - mi disse - così studiamo il territorio.
- Ci vorrebbe la maschera. Qui i fondali sono stupendi. Io ne ho una in casa.
- E io ce l’ho in macchina.
- Allora, prima attrezziamoci. - proposi, per ritardare il momento di spogliarmi.

 

        Pietro si trasferì da me. Purtroppo nella villa c’erano due camere da letto e quindi non mi fu possibile trovare una scusa per dormire insieme. Ma forse era meglio, visto che la sua sola vicinanza teneva rigido il mio flauto, spesso e volentieri.
Nuotammo col delfino, e anche senza, passeggiammo, prendemmo il sole. Furono momenti stupendi, fino al malaugurato giorno in cui non mi parlò di Luca. Pietro lo conosceva da due mesi e se n’era innamorato. Arrivò a dirmi che aveva scoperto l’amore vero, solo grazie a Luca.
Esplose terribile e improvvisa, con la furia cieca di un ciclone. Gelosia. Da nascondere come un crimine orribile. Da dove era sbucato questo Luca? E io, allora? Io che l’avevo amato in silenzio per anni, senza chiedere nulla, senza pretendere mai niente, restando là semplicemente ad adorare ogni cosa di lui? Io che l’avevo amato senza far rumore... Ogni volta che sentivo pronunciare il nome di Luca era una pugnalata al cuore, che mi lasciava dissanguato, lacerato, stremato, senza fiato, col morale a terra, disperato. Disperato di sentirmi disperato. Cacciato dal paradiso. Odiavo Luca. Avrei voluto urlare a Pietro: - NON NOMINARMELO PIU’! - con quanto fiato avevo in gola.
Mi dicevo, chi cazzo è questo Luca? Lo conosci da due mesi ed è riuscito a rubarti a me, che ti amo da sempre... Odiavo Luca. Avrei voluto cancellarlo dalla faccia della terra. Lo sapevo perfettamente che quel sentimento era folle, che io stesso ero pazzo e ossessionato. Ossessionato sì, da curare. Ma come si cura una gelosia insensata? Valutando razionalmente la situazione, continuavo a darmi dell’imbecille. Eppure la morsa di quell’infausta gelosia continuava ad attanagliarmi, mi faceva ribollire di rabbia, mi mandava al manicomio. Pietro era mio, soltanto mio.  Non volevo dividerlo con nessuno.
Mi dissi che appena tornato a casa, mi sarei rivolto ad uno specialista. Volevo guarire. Volevo tornare normale. Volevo smettere di soffrire stupidamente. Ma esisteva davvero qualcuno in grado di guarirmi da quell’immenso amore platonico? Un amore che non aveva avuto bisogno di nutrirsi della vicinanza, del contatto fisico, della voce di Pietro, per continuare a crescere a dismisura. Lo avevo posto su un piedistallo, lo adoravo come un idolo, lo avevo rivestito di ogni perfezione, per tanto di quel tempo che il tempo aveva smesso di esistere. Era da sempre e per sempre. L’eternità. Un amore eterno che brillava sulla mia vita come un sole abbacinante. L’unica luce della mia vita. E Pietro si vedeva con Luca. Era un dolore troppo intenso, intollerabile. Mi sentivo tradito. Mi sentivo perduto. L’angoscia incise profondamente sul mio umore, rendendomi triste e silenzioso, finché Pietro non se ne accorse, nonostante i miei disperati tentativi di nasconderlo.
Iniziò a far domande, alle quali non riuscivo a rispondere, poi, infine, mi decisi a chiedergli:
- Quando ci frequentavamo, non hai mai pensato a me in quel modo?
Pietro si mise a ridere. E quella risata, per me, fu come una tremenda mazzata sul cranio.
- Tu eri come un fratello per me. Non mi sarebbe mai venuto in mente di rovinare la nostra splendida amicizia.
- Io invece ci ho pensato.
- Menomale che non me l’hai mai detto. Sai dove ti avrei mandato, a quei tempi? Ma adesso che c’è Luca ti capisco.
Certo, ormai c’è Luca. Allora a me non resta che togliermi di mezzo.

 ESCAPE='HTML'

Erano anni che non tornavo a Liscalonga e non ci sarei tornato neppure allora, se Dario, il mio socio, non avesse tanto insistito. Mentre spingeva la mia carrozzella sulla litoranea, vidi la villa Quadrifoglio.
- Qui anni fa ci veniva un delfino, tutte le mattine all’alba, puntuale come un orologio.
- Chissà se viene ancora? Potremmo aspettarlo, un giorno.
- Potrai andarci tu, io sugli scogli come ci arrivo?
- Hai ragione, scusa. Da solo non ce la farei a portarti in braccio fin là.
- Non importa. Vacci tu.
Non ero stato neppure capace di ammazzarmi. Ammazzarmi per amore. Ammazzarmi per Pietro. Dopo qualche mese, avrei potuto riprovarci, ma non ne sentivo più il bisogno. Dario si era occupato di me, facendomi tornare il sorriso e donandomi una serenità che non conoscevo. Ma purtroppo, quello che avevo avuto da offrirgli era un uomo a metà. E non potevo farci niente.
- Quella è la villa, vero? - chiese Dario.
- Sì, quell’obbrobrio.
- Che effetto ti fa?
- Penoso.
- Non l’hai ancora superata, Giacomo.
- Non è vero, e comunque non ho ancora capito perché hai voluto riportarmi qui a tutti i costi.
- Perché chiodo scaccia chiodo.
- Se hai trovato roba buona, che ne diresti di dividerla con me?
Dario si fermò e mi girò intorno, per guardarmi negli occhi.
- Mi ami? - mi chiese a bruciapelo.
- Sì, ti amo.
- Anch’io. - affermò, ipnotizzandomi con il suo sguardo di velluto.
- E adesso che succede?
- Succede che andiamo a stare in quella villa, io e te, per tutto il mese. Succede che i ricordi di quello che faremo, si sostituiranno a quelli che ti sono rimasti appiccicati addosso. E quando andremo via da qui, tu sarai guarito per sempre.
- Non proprio, resterò comunque su questa carrozzella.
- Se i medici insistono che non c’è una ragione fisica perché tu non possa camminare, allora il problema risiede tutto qui. - disse Dario, piantandomi un dito all’altezza del cuore, come una pugnalata.
- Oppure dentro la mia testa. - suggerii.
- E’ vuota, la tua testa, quindi lo escludo.
- Spiritoso...
- Andiamo, prima di ustionarci come due imbecilli. - disse Dario, ricominciando a spingermi.
Stavamo insieme da cinque anni. Era l’unico a cui avessi confessato subito il motivo per cui mi ero buttato dalla finestra. A tutti gli altri avevo detto che mentre stavo pulendo i vetri avevo perso l’equilibrio. Era il mio socio alla liuteria, eravamo amici, ma mai mi aveva mostrato il suo interesse. Ci vollero mesi prima che mi apparissero chiari i suoi sentimenti, e fu solo quando iniziai a comprendere i miei.

 

        Il delfino aveva mantenuto le sue abitudini e Dario poté ammirarlo nelle sue acrobazie. Si era fatto meno timido. Un giorno Dario scoprì che dopo la penisoletta c’era un punto facilmente raggiungibile, dove si era raccolta una piccola spiaggetta. Non c’era, durante gli anni in cui avevo frequentato quel posto. Non avevo molta voglia di andarci, ma lui mi costrinse.
E una mattina presto, mentre ero in acqua, il delfino si avvicinò. Dario ci giocò per un poco, entusiasta, mentre io li osservavo dalla riva.
- E’ meraviglioso qui. - commentò Dario, quella sera, mentre, dopo cena, ce ne stavamo in giardino a guardare le stelle, distesi sui lettini.
Nel silenzio irreale si sentivano solo gracidare le rane di un laghetto artificiale poco lontano.
- Come ti senti? - aggiunse.
- Bene.
- Sicuro? Ricordi penosi? Nostalgie? Le tue solite seghe mentali?
- No, niente. Sto bene. Non penso a niente. Sono contento che ti piaccia star qui.
- Bene.
- Ti amo, Dario.
Lui mi si avvicinò, inginocchiandosi vicino a me, e iniziando ad accarezzarmi, con la dolcezza che sempre mi sconvolgeva, mi disse:
- Adesso ti faccio vedere quanto ti amo io.

        Il giorno dopo Dario portò nella spiaggetta un materassino di gomma e volle a tutti i costi mettermi là sopra. L’acqua era cristallina e trasparente come in una piscina e piccolissime onde la smuovevano appena.
Poi arrivò il delfino. Dario lasciò il materissino ed io persi l’equilibrio, ribaltandomi. Il delfino nuotò sotto di me, infilandosi tra le mie gambe e poi tornò in superficie, mentre io lo cavalcavo. Mi tenevo alla pinna, in equilibrio precario, ma lui era talmente attento da fare il lavoro per due. Era lui a sostenermi. Non credo che sia possibile descrivere la gioia di quei momenti. Impossibile descrivere le sensazioni. L’acqua che scorreva intorno a noi e il sole che scaldava la mia pelle. Girava in tondo, senza allontanarsi. Poi si fermò, lentamente, lasciandomi scivolare da un lato. Io provai l’impulso di nuotare, sentii la volontà di farlo che scorreva in tutto il mio corpo ed ebbi l’impressione che le mie gambe iniziassero a muoversi. Mi tenevo ancora alla sua pinna, e lui mi sosteneva, mentre mi muovevo appena, aiutato dalle piccole onde che arrivavano dal largo. I miei movimenti erano talmente lontani dalle mie sensazioni, che non ero sicuro se davvero stessi muovendo le gambe, o fossero le onde a muoverle. Forse l’uno e l’altro, in un’altalena lenta e ipnotizzante. Arrivammo insieme vicino alla spiaggia. Toccavo. Sentivo le piante dei piedi poggiare sulla sabbia, molto addormentate, ma vive. Non ero sicuro di niente. Le mie sensazioni erano ovattate, lontane, eppure indubbiamente, sentivo qualcosa.
Non dissi niente a Dario. Non volevo che si facesse illusioni. Lo amavo troppo per deluderlo.
Per due settimane il delfino venne a prendermi, mentre facevo il bagno, e mi aiutò a rimettermi in piedi. Ogni giorno che passava, la mia sensibilità aumentava, finché una mattina riuscii a tenermi in piedi, in acqua, da solo, aiutato dal movimento delle braccia.
In casa, mentre Dario era a fare la spesa, feci le prove. Era più facile che in acqua, ma molto più doloroso. Non avevo più muscoli e senza muscoli non si sta in piedi. Sarebbe stata dura, lo sapevo, ma avrei restituito a Dario l’altra metà di un uomo che amava. Glielo dovevo. E lo dovevo a me stesso. Forse sentivo di aver pagato il mio debito. Avevo fatto un’immane cazzata, ma potevo anche smettere di sentirmi in colpa. L’amore era una cosa diversa da una malattia mentale. Ma solo grazie a Dario l’avevo capito.
Fu a letto, una sera, mentre ce ne restavamo abbracciati, che Dario si accorse che potevo muovere le gambe. E lanciò un urlo. Menomale che non avevamo vicini di casa.
- Giacomo, dimmi che non ho le allucinazioni.
- No, Dario, non ce l’hai.
- E’ stato il delfino! Il miracolo del delfino... Lo faranno santo?
- Ma come fai a dire queste stronzate in un momento del genere?
- Ti ho visto, buffone, l’altro giorno, mentre facevi le prove in soggiorno. Volevo proprio vedere quando ti saresti deciso a dirmelo. Mi hai fatto venire un colpo! Per poco non mi cascava la busta con dentro le uova.
- Ah, quando ti ho chiesto se ti sentivi male e tu mi hai risposto che ti eri preso un’insolazione...
- E già. L’effetto è stato lo stesso.
- Ce la farò, Dario, te lo giuro. Ce la metterò tutta. E un giorno ce ne andremo insieme a correre nel parco.
- Prima torna a camminare. Bisogna sempre fare un passo alla volta, ricordati.
- Comunque avevi ragione tu, come sempre. Venire qui mi ha guarito.
- Ti ha guarito le gambe, forse, ma Pietro?
- Chi è Pietro?