Un mattino d’estate, nel nostro ufficio svuotato per ferie, arrivò un nuovo dirigente. Nell’ultimo anno ne avevamo avuti a bizzeffe e, lì per lì, pensai si trattasse del solito tappabuchi da due mesi e via, invece mi assicurarono che si trattava di un trasferimento definitivo. Finalmente avevamo un vero direttore, con le competenze appropriate. Per di più era un bell’uomo, ma non del genere “sono un figo, guardatemi tutte”, al contrario, dava l’impressione di essere piuttosto timido e riservato. Si chiamava Vittorio Senatore. Un altro Senatore era apparso già nella mia vita, un tempo, ma avevo voluto dimenticarlo. A ben pensarci, Vittorio gli assomigliava. Strana coincidenza.
Fin dal primo giorno, mi diede l’impressione di interessarsi a Zaira.
Zaira è una mia collega, simpatica, disponibile, un po’ chiusa e timida, ma con tutte le carte in regola. È anche piuttosto carina, benché sembri del tutto ignara di esserlo. La cosa incredibile fu che sin dal primo giorno, Zaira parlava con il direttore con una sorprendente familiarità, come se lo conoscesse da molto tempo. Ridevano e scherzavano, pur dandosi del lei, come se vi fosse tra loro una sospetta complicità. Zaira non agiva mai così. Di lui non so dire. Non lo conoscevo ancora abbastanza per poterne dir nulla. Ma lei, Zaira, si comportava così solo con i più vecchi colleghi, quelli con cui lavorava da anni, e mai, dico mai, con i dirigenti. Figurarsi con uno appena arrivato! C’era senz’altro qualcosa di strano in tutto questo, e siccome era estate e c’era poco lavoro, decisi che per passare il tempo avrei potuto indagare.
Buttavo l’occhio con finta noncuranza verso di loro, ogni volta che potevo e dopo quindici giorni la situazione tra i due era a questo punto: trovavano spessissimo qualche lavoro da svolgere insieme; Zaira lo seguiva con lo sguardo ogni qualvolta era certa che lui non la vedesse, e lui faceva lo stesso; quando erano insieme, le loro distanze di sicurezza si riducevano col passare dei giorni, eppure difficilmente si guardavano in faccia quando si parlavano. Sembrava che avessero pudore dei loro pensieri e dei loro sentimenti. Scommisi con me stessa che si trattava di un grave caso di colpo di fulmine, di innamoramento a prima vista, insomma. Scommessa che pensavo di vincere nel breve volgere di due settimane. Invece le cose non andarono esattamente in questo modo. Erano ossi duri. Zaira e il Dir non volevano scoprirsi. Per colmo dei colmi avevano lo stesso carattere timido e introverso e sembrava che nessuno dei due volesse fare il primo passo e cedere all’evidenza. Forse, pur di vincere la scommessa, avrei potuto dar loro una mano… Dopo approfondite riflessioni, decisi però che sarebbe stato molto più interessante limitarmi ad osservare l’evolvere degli eventi.
Ad uno ad uno rientrarono dalle ferie tutti gli altri colleghi e la vita nel nostro piccolo mondo tornò alla solita routine, che comprendeva purtroppo anche la presenza di Delia, una vera stronza, che secondo un mio personalissimo studio, era anche una pazza schizofrenica, notizia che tenevo accuratamente riservata, fino al momento in cui non avessi avuto davvero bisogno di divulgarla. È sempre molto difficile dimostrare questo genere di conclusioni, ci vogliono prove e ci vuole coraggio per manifestarle. Delia si comportava da vamp, che degli uomini faceva quel che voleva, e anche, a volte, quel che volevano loro. Era una sorta di cortigiana, per dirla in modo pulito. Com’era inevitabile, appena rientrata in ufficio, adocchiò il nuovo Dir, esattamente come in passato aveva fatto con altri, che fossero colleghi o clienti, era irrilevante. Una volta aveva dato una caccia spietata persino al tecnico del distributore di caffè, il quale, non saprò mai se per evitarla una volta per tutte, aveva cambiato zona di manutenzione. In quell’occasione, per la prima volta, avevo pensato che in fondo la nostra vamp non fosse poi davvero così irresistibile come voleva credere e farci credere e ne ero stata insanamente felice, con un lieve sottofondo di senso di colpa, dovuto al fatto che non mi ero mai ritenuta capace di odio o di invidia e Delia aveva invece esumato questo genere di sentimenti dal fondo buio e nascosto di me, portandoli alla luce. Me ne vergognavo, ma forse ero solo umana, dopo tutto, e quindi imperfetta.
Tornando al direttore, Delia lo puntò dal primo istante e quando puntava una preda, non mollava mai. Accadde di conseguenza quel che era inevitabile: Zaira si ritirò nel suo guscio e si limitò, come me, ad osservare gli sviluppi della situazione, temendo il disastro. Lo temevamo entrambe, anche se allora non ce lo confessammo, perché la confidenza, tra noi, venne solo in seguito.

– Buongiorno, Senatore – disse Delia entrando in ufficio, con un vestito di chiffon verde pistacchio e la sua inseparabile tracolla gialla di Versace, abbinamento a dir poco azzardato.
Il Dir alzò gli occhi dai suoi conti e le rispose sorridendo. L’ufficio si riempì di “Roma”, il profumo di cui generosamente la vamp si innaffiava ogni mattina. Quella sua generosità aveva costretto noi altre donne a divenire tirchie di profumi, per non infastidire tutti con la nauseante cacofonia olfattiva tipica delle profumerie. Delia imperava e noi ci tiravamo da parte, come sempre.
Il Dir tornò a rivolgere la sua attenzione ai conti che aveva sparsi sulla scrivania, ma solo per un attimo, quindi sollevò di nuovo lo sguardo a seguire il ticchettio cadenzato dei tacchi della Delia e il suo incedere ondeggiante verso lo spogliatoio femminile. Vidi Zaira seguire la scena da una angolazione privilegiata. Lei poteva vedere il Dir e la vamp, mentre Senatore non poteva vedere lei. Io cominciai a credere di aver perso la scommessa, che nel frattempo avevo modificato, abolendo scadenze di tempo.
Zaira raggiunse la sua postazione, io la mia, e dopo un attimo arrivò anche Delia, preceduta e seguita dalla sua scia di profumo.
– Avete visto che bella cravatta ha il Dir stamattina? – ci sussurrò Delia ridacchiando.
– L’aveva anche ieri – rispose Zaira con espressione incurante.
– Ah, ma allora te lo studi proprio per bene! – ribatté la vamp agitando i capelli sempre in perfetta forma, tanto da parere una parrucca.
– Anch’io gliel’ho già vista ieri – affermai, per minimizzare la battuta insinuante di Delia.
– Ma tu sei una grande osservatrice, Nora, quindi è ovvio che l’hai notata, invece Zaira ha sempre la testa tra le nuvole, non si accorge mai di niente, quindi, se l’ha osservato, è perché le interessa particolarmente. Vero, Zaira? Non mi dirai che in mia assenza ti sei presa una cotta per il Senatore!
Patatrac! Zaira era fregata. Lo compresi subito, dal pallore improvviso che si distribuì sul suo volto e dal fatto che sorridendo senza rispondere si diede alla fuga, abbandonando la scrivania e fingendo di dovere, con impellenza, cercare una pratica altrove.
Mai fuggire, con Delia. Lei ci va a nozze. Vuol dire che hai qualcosa da nascondere e a Delia non piace che qualcuno le nasconda qualcosa, lo addenta al polpaccio e non lo molla più, finché non ha ceduto, cosa che ovviamente fece con Zaira. La torturò per due giorni interi, finché non sentii che le diceva:
– Lo sai, Delia, che io ho sempre altro da pensare. Non mi sono presa una cotta per nessuno. Non ho più l’età per le cotte da ragazzini! Non mi interessa proprio nessuno.
E lo affermò, con grande decisione, proprio mentre le passava alle spalle il Senatore, che ebbe un attimo di incertezza, come se avesse inciampato, guardò la nuca nuda di Zaira, si sollevò gli occhiali sul naso e poi dirottò verso di me, con un foglio in mano. Aveva cambiato colore e faccia, oltre che cravatta, e all’improvviso ebbi pena di lui, tenerezza, un miscuglio di sentimenti materni e protettivi che avrei voluto esprimere stringendogli le mani. Invece quello che feci fu di sorridergli: volevo consolarlo, suggerirgli di non credere a ciò che aveva udito, cancellare tutto.
– Per favore, mi trasmette questo fax, Signora Eleonora?
– Certo, direttore – risposi, afferrando il foglio che mi porgeva, senza esitazioni.
Il Senatore tornò nella sua stanza a vetri, che io definivo l’acquario, e lo vidi crollare sulla sua poltrona. Ebbi l’impressione che gli avessero sfilato le ossa dalla carne. Quindi avevo visto giusto! Sentir parlare Zaira di cotte e ragazzini l’aveva messo K.o.
Delia aveva seguito, come me, tutta la scena e gongolava. Zaira, che invece era di spalle, non si era accorta di nulla. Ci pensò la vamp, ad informarla, e Zaira fece spallucce, per mostrarle che non le interessava affatto. Dopo qualche minuto, tuttavia, si defilò nel bagno, dove io la raggiunsi. Davanti allo specchio si studiava i capelli, con un rossore diffuso sul volto, che non accennava a diminuire. Mi sorrise dallo specchio e io le consigliai:
– Perché non la picchi, una volta per tutte, e le fai cadere un paio di quei denti rifatti che si porta in giro?
– Sei matta? – mi rispose con espressione scandalizzata.
Ma le lessi negli occhi che lo avrebbe fatto volentieri, se non fosse stata una signora, con una buona educazione.
Il rossore si spense.
– Sai com’è fatta – aggiunse – Bisogna avere pazienza e sopportare, altrimenti è la guerra.
– Lo so, Zaira, ma qualche volta, quando la posta in gioco è alta, bisogna lottare, se proprio occorre.
Zaira mi guardò in modo strano, come se avessi capito qualcosa che lei cercava di tener nascosto e non sapesse se stare al gioco e confidarsi, oppure opporre il solito muro di omertà e riservatezza. Ci teneva alla sua privacy, lo sapevo. Non eravamo così amiche da permetterci confidenze sconvolgenti. Prevalse, dopo un attimo di esitazione, il suo solito atteggiamento di prudenza. Era ovvio che non si fidava abbastanza di me. Per un attimo avevo avuto l’impressione che volesse tuffarsi, ma la sua apnea era terminata in un rifiuto. Mi buttò un – Ci vediamo di là – e uscì dal bagno lasciandomi davanti allo specchio.
Più tardi, quello stesso giorno, il capo mi chiamò. Mi precipitai nel suo acquario perché avevo percepito una nota di urgenza nella voce, fattasi un po’ più roca del solito.
– Chiuda la porta, per favore, signora Eleonora.
Non ci chiamava più per cognome, ma ci dava sempre del lei. Io chiusi la porta e mi voltai con espressione interrogativa. Il Senatore mi mostrò la poltroncina davanti alla scrivania e mi invitò a sedermi. Ero ansiosa di sapere quali compiti aveva in serbo per me.
– Lei conosce bene la signora Zaira? – esordì.
Io esitai, perché mi aspettavo qualunque altra cosa, ma non quella domanda.
– Beh, – balbettai – abbastanza. Lei è una ragazza molto chiusa, mantiene le distanze. Posso dire che siamo buone colleghe, ma non abbiamo sufficiente confidenza per definirci proprio amiche.
– Capisco – commentò il Dir, rigirandosi una penna d’acciaio tra le dita. – E c’è qualcosa… Voglio dire, ha notato qualcosa di diverso in lei? Cioè, pensa che in qualche modo io abbia potuto dispiacerle, che so, farle un torto, senza accorgermene? Insomma, lei sa se per qualunque motivo ce la possa avere con me? – finì tutto d’un fiato, continuando a torturare la penna e sollevando il suo sguardo su di me, in attesa della mia risposta.
Per la seconda volta, quel giorno, mi trovavo davanti a una persona in apnea. Questa volta potevo interromperla affrettandomi a parlare. Che storia, ragazzi! Quell’uomo doveva essere disperato per porre quella domanda proprio a me, visto che noi non avevamo alcun tipo di confidenza. L’unico motivo che lo aveva spinto, è che ci vedeva spesso insieme, Zaira e me, e probabilmente aveva supposto che fossimo amiche. Ero molto sorpresa, tuttavia, perché lo reputavo un tipo molto riservato e anche timido. Fui riassalita da quel senso di tenerezza che mi aveva provocato solo un’ora prima.
– Zaira non ce l’ha affatto con lei, mi creda. Proprio un attimo fa mi stava dicendo quanto sia felice di avere finalmente una guida esperta, un capo su cui si può fare affidamento. E poi le piacciono le sue cravatte – aggiunsi, arrotolandomi una ciocca di capelli tra le dita. Ma che cavolo stavo facendo? Mi morsi un labbro. Forse avevo esagerato, ma lui mi guardava dritto negli occhi con un’espressione così assetata di notizie. Cosa avrei potuto dirgli, per tranquillizzarlo? Zaira è innamorata di lei? Forse era quello che avrebbe voluto sentire da me, ma io non lo sapevo. Lo immaginavo soltanto, e non era abbastanza per dargli illusioni.
Il Dir tornò a respirare e a sorridermi. Le linee del suo volto si distesero, la penna tornò al suo posto e lui appoggiò la schiena alla spalliera dell’alta poltrona girevole su cui era seduto.
– Le mie cravatte, eh? – commentò.
– Come?
– Ha detto che le piacciono le mie cravatte.
– Ah, sì, Zaira dice che lei ha davvero buon gusto per le cravatte – confermai, sentendomi molto molto ridicola.
– La signora Zaira ha stile. Lo dimostra il modo in cui si veste, sempre così semplice ed elegante. Beh, l’ho trattenuta fin troppo. Non vorrei distoglierla dal suo lavoro. Può andare. E grazie.
– Di niente – gli risposi, allontanandomi dal suo ufficio con l’impressione di aver fatto qualcosa che forse non dovevo.
Comunque ormai era fatta. Zaira mi osservò incuriosita. Credo che volesse chiedermi di cosa avessimo parlato, il Senatore e io, ma prevalse come al solito la sua natura riservata. Però le avevo scorto quella scintilla di curiosità negli occhi e pensai che stava per cedere. Ne ero sicura.
Delia, invece, che non sopportava di essere messa da parte, neppure per un solo istante, decise che toccava a lei, ora, conferire col capo e senza indugi si infilò nel suo ufficio, imponendogli la sua presenza non richiesta, con una banale scusa. Grande, Delia. Se non poteva fare la primadonna, erano tuoni e fulmini.
Zaira quel giorno si intristì col trascorrere delle ore e finì col restare indietro nel lavoro e avanti con un gran mal di testa.
Al termine dell’orario di lavoro, alcuni colleghi si offersero di darle una mano, che lei rifiutò categoricamente, ma con grande gentilezza. Così tutti se ne andarono, con Delia in prima fila.
– Io resto con te se posso esserti utile – le proposi, per ultima. Ma lei aveva decisamente qualcos’altro per la testa, e rifiutò con espressione lievemente esasperata. Mi venne in mente che poteva desiderare di restare da sola col Senatore.
– Ho capito. Vuoi restare a tu per tu col capo. Me ne vado e vi lascio soli – le comunicai.
Zaira si allarmò: – No, no. Cosa vai a pensare? Devo solo finire questo lavoro. Due minuti e taglio la corda anch’io. Però grazie. Grazie lo stesso.
Arrossì un poco, giusto un lieve tocco di fard rosato. Era carina, con quel colore sulle guance. Così me ne andai e la mia curiosità restò insoddisfatta.
Poco dopo, Zaira e il Senatore uscirono insieme dal portone.
– Arrivederci, signora Zaira – salutò lui.
– Arrivederci, Direttore – rispose Zaira, senza sollevare lo sguardo.
Poi entrambi si diressero alla propria auto. Io li avevo seguiti con lo sguardo, dalla vetrata del Bar Blu, dove ero seduta a bere un caffè. Nessuno dei due si era voltato a guardare l’altro. Erano entrati in macchina e se n’erano andati in direzione opposta. Erano rimasti in ufficio dieci minuti. Troppo pochi perché potesse essere accaduto qualcosa. Forse avevo perso la scommessa.

Dopo una settimana, il Senatore mi chiamò nel suo ufficio e mi mostrò la solita poltrona. Stava diventando un’abitudine. Anche quella, a quanto pare, di giocherellare con la penna. Osservai il capo con espressione interrogativa.
– Signora Eleonora, come sta Zaira?
Io seguii il suo sguardo al di là dei vetri e vidi Zaira completamente assorta in una telefonata. Poi tornai a fissarlo. Credo che leggesse un poco nella mia mente, perché aggiunse: 
– Non vorrei imbarazzarla. Vedo che non comprende perché le pongo questa domanda. Vede, mi preoccupo della salute dei miei collaboratori. La signora Zaira da qualche tempo mi dà da pensare. La vedo triste e anche un po’ stanca. Mi sa dire se ha qualche preoccupazione personale?
Di sicuro aveva qualche problema di abbigliamento. Era un’intera settimana che la vedevo in nero e grigio, due colori che non le donavano affatto e la facevano sembrare anche più vecchia.
– No, che io sappia. – risposi – Però ho avuto anch’io l’impressione che fosse più spenta del solito.
– Era proprio il termine che cercavo. Grazie. Quando sono arrivato qui era sempre così allegra e serena. Rideva spesso. Mi ha messo subito a mio agio e mi ha aiutato ad introdurmi in quest’ambiente così nuovo per me.
– Certo, capisco – ammisi. Avrei partecipato anch’io se non mi avessero praticamente messo da parte. Ricordai che una punta di gelosia mi aveva punto tra la seconda e la terza costola, verso la metà della prima settimana, quando ero giunta alla conclusione che la mia presenza risultava inopportuna. E lui, che si vantava di avere a cuore la salute dei suoi collaboratori, lo aveva ignorato. Come mai? Eravamo solo in tre. Non avrebbe dovuto risultargli così difficile comprendere che c’era qualcosa di storto. Decisi di non fargli sconti.
– Lei che si interessa molto a Zaira e ai suoi cambiamenti d’umore, ha notato che ha abolito i colori dalla sua vita?
Non so perché gli dissi proprio questo, ma era stato lui ad iniziare la conversazione su un argomento che non doveva affatto riguardarmi e in un certo senso, questo mi dava il diritto di dirgli qualunque cosa, anche sciocchezze come quella. Non capivo perché mi tirava in mezzo. Io cosa c’entravo? Erano solo affari loro, dopo tutto.
Il Dir restò un attimo in silenzio, poi mi sorrise e sospirò.
– Ho bisogno di alleati – mi disse piano, posando la penna che aveva tenuto tra noi fino ad allora, come una sorta di muro difensivo, e dimostrandomi che decisamente mi leggeva nel pensiero.
Appoggiò le mani aperte sulla scrivania e mi guardò ancora. Io non sapevo cosa rispondergli e lui continuò:
– Lei, signora Eleonora, è fidanzata, vero?
– Sì, da quattro anni.
– Non è molto. Sicuramente si ricorda come si sentiva quando…
– Mi ricordo benissimo – lo interruppi, per evitargli di esporsi troppo. Ma lui aveva bisogno proprio di questo: esporsi, confidarsi, chiarirsi. E aveva scelto me. Perché? Non lo saprò mai.
– Eleonora, ho il sospetto di essermi innamorato di Zaira.
Così, era diventata Zaira anche per lui. All’improvviso sentivo molto caldo e non sapevo cosa dirgli.
– Dir, come lei sa, Zaira non si confida con me. Non saprei cosa dirle.
– Brancolo nel buio. Qualunque indizio mi sarebbe prezioso - disse ridendo, con l’espressione di essersi tolto un peso. - Qualcuno mi ha detto che nulla le sfugge, che è un’ottima osservatrice. So anche che non è una pettegola e per questo mi sto fidando di lei. Cerchi di scoprire qualcosa. Ah, vedo la signora Delia sulle spine. Si starà chiedendo di cosa stiamo parlando.
– Ah, Quella! – sospirai – È tremenda.
– Me ne sono accorto – commentò il Dir, ridacchiando - Allora, Eleonora, quali sono le sue impressioni sul comportamento di Zaira? Mi dica qualcosa, poi la lascerò andare.
Cercai di raccogliere le poche idee confuse che mi giravano per il cranio.
– Ecco, in primo luogo mi è sembrato strano che Zaira le abbia dato tanta confidenza sin dal primo giorno. Non è da lei. Avevo come l’impressione che vi conosceste già da tempo. Lei è un tipo timido e riservato. Deve conoscere molto bene una persona, prima che le si avvicini.
– Anch’io mi riconosco in quella descrizione e anche per me è stato strano trovarmi subito così a mio agio con lei – rifletté il Senatore – Però è accaduto qualcosa. Da una settimana non mi parla più, non mi guarda nemmeno. Non ha escluso solo i colori dalla sua vita, ha escluso anche me. Non vorrei sembrarle melodrammatico. Ho bisogno di capire cosa stia succedendo.
– Come posso aiutarla? – gli chiesi, per sapere se aveva in mente qualcosa.
– Non c’è bisogno che glielo dica. L’avvicini, la faccia parlare. Con lei si confiderà di certo.
– Dir, guardi che Zaira è davvero un osso duro. Non si aspetti miracoli.
– No, non mi aspetto molto, naturalmente, ma sapere cosa le passa per la testa mi restituirebbe almeno un po’ di tranquillità, che mi permetterebbe di dormire di nuovo.
– Soffre d’insonnia? – mi stupii.
– Solo da qualche giorno. Più o meno da quando Zaira è in lutto – chiarì, ridendo.
Mi cadde lo sguardo sul posacenere e la mia espressione cambiò.
– Le proibisco di contarle. Vada, adesso. E se Delia le chiede qualcosa, le dica che stiamo organizzando una cena per sabato prossimo. Lo dica a tutti. Va bene al Faro?
– Lo conosce anche lei?
– Me ne ha parlato Zaira, naturalmente.
– Naturalmente – ripetei, uscendo dal suo ufficio.
Appena fuori, Delia mi abbrancò e mi fece un terzo grado molto selettivo. Per rispondere al fuoco di fila delle sue domande, dovetti inventarmi un sacco di balle. Ero certa che se lei avesse parlato col Senatore, ci saremmo sicuramente traditi. Eravamo stati troppo ottimisti e sbrigativi. Scesi in archivio, che era al piano di sotto e telefonai immediatamente al capo raccontandogli tutto per filo e per segno. Delia era fregata. Tornai di sopra appena in tempo per vederla entrare nell’ufficio del Senatore. Lui mi sorrise attraverso il vetro e Delia si voltò a guardarmi. Aveva una faccia che non prometteva nulla di buono. Temetti che quel sorriso potesse essere la mia condanna. Ma in fondo, a me non importava nulla, dovevo proteggere Zaira. Se Delia avesse creduto che il pericolo veniva da me, avrebbe lasciato in pace lei. Poteva essere un gioco vincente, in fondo. Mi stavo lambiccando il cervello per trovare il modo di far parlare Zaira, quando proprio lei si avvicinò alla mia scrivania e mi chiese se mi andava un caffè. Colsi la palla al balzo e l’accompagnai alla macchinetta che era in corridoio.
– Sai è una bella idea quella di andare al Faro. Ci stavo già pensando, ma a dire il vero, volevo andarci stasera – mi disse.
– E perché no? Posso venire anch’io? – mi proposi.
– Porti anche Roberto?
– E tu porti qualcun altro?
– No.
– Allora neanch’io.
– Non gli dispiacerà?
– Non preoccuparti. Non avevo in programma di vederlo, stasera.
Dopo il caffè, ce ne tornammo alle nostre scrivanie e notai che Delia era sparita. Vidi che anche Zaira aveva lanciato uno sguardo nell’acquario e che il Senatore aveva scelto proprio quel momento per guardare nella sua direzione. Zaira abbassò subito la testa e finse di cercare qualcosa in un cassetto. Il Dir deviò lo sguardo verso di me e la sua espressione dichiarava chiaramente:
– Che ti dicevo?
Sì, Zaira evitava il suo sguardo, però poteva trattarsi di un buon segno. Se non le fosse importato nulla, perché darsi tanta pena? Il suo era l’atteggiamento tipico dei timidi. Era la solita fuga in cui Zaira era specialista. Nutrivo buone speranze di estorcerle qualche brandello di verità, proprio quella sera, magari con l’aiuto di una buona bottiglia di vino.

Quando Zaira fece il suo ingresso al Faro, con il caschetto di lucidissimi capelli neri che lanciavano riflessi blu per tutto il locale e il suo ondeggiante incedere nel vestito nerissimo e severo, tre o quattro teste si voltarono a seguirla. Era bianca come il latte, o forse era la luce della sala a darle quel riflesso pallido. Comunque era affascinante. Una signora, seduta al tavolo accanto al nostro, diede un buffetto sul braccio del suo accompagnatore, il cui sguardo indugiava ancora sulla figura di Zaira. Lui si girò di scatto e tornò a concentrare la sua attenzione al cibo. Li sentii discutere animatamente, sottovoce, per qualche minuto. Zaira rimase ignara di tutto. Nonostante il suo fascino, continuava a sentirsi come il brutto anatroccolo che probabilmente era stata da adolescente. Non si era resa conto di essersi trasformata in un cigno. Le donne come lei sono una mina vagante, combinano guai senza saperlo. Mi ripromisi di avvertirla.
Per tutta risposta mi disse: - Grazie delle tue bugie, ma io mi sento uno schifo. È probabile che mi abbiano guardata perché sembro uno zombi.
– Ma che dici? – obiettai – Magari hai un po’ esagerato col fondotinta color farina 00, ma stai benissimo.
– Vuoi dire che sono pallida? – mi chiese ridendo.
– Beh, un po’ – dovetti ammettere. – Sei stanca?
– Sono stanca e stufa di tutto. Vorrei sparire, espatriare, traslocare, teletrasportarmi su un altro pianeta.
– Capita. Magari è un po’ di stress, o forse sei stata vittima di una delusione – insinuai, sperando di offrirle un appiglio per parlarmi del Senatore.
– Sì, hai ragione, – ammise – sono un po’ delusa dal mio lavoro.
“Figurati!” pensai. Non aveva abboccato.
– Vorrei cambiare. – continuò – Potrei trasferirmi a un altro settore.
– Per non dover più vedere il Senatore? – le lanciai, tentando un approccio più chiaro.
Lo sguardo allarmatissimo di Zaira mi disse che avevo fatto un passo falso.
– Scherzavo! – mi scusai. Avevo proprio esagerato, e me ne pentii.
Sentii lo schiocco dell’ostrica che si chiudeva di scatto. Lo stesso schiocco che fece la sedia di Zaira, quando si alzò con la scusa di andare a lavarsi le mani. Zaira va presa con le molle, e nonostante lo sapessi benissimo, io l’avevo presa di petto. Imperdonabile.
Passò abbastanza tempo perché potesse essersi lavata le mani una decina di volte e rifatto il trucco per altre tre o quattro, quando finalmente riapparve in tutto il suo splendore.
Mi affrettai a riempire i nostri bicchieri e le proposi un brindisi.
– A che cosa brindiamo? – mi chiese Zaira, impossessandosi con eleganza del suo bicchiere e alzandolo verso il mio.
– All’amicizia – dissi, con voce più seria di quanto non intendessi.
Lei mi guardò un po’ sorpresa e sospettosa, ma poi si rilassò e sorridendo rispose – All’amicizia.
– Sai, è da un po’ che ci penso. Dovremmo parlarci di più, confidarci. Fa bene avere qualcuno con cui sfogarsi nei momenti critici. Non trovi? – le chiesi.
Zaira si limitò ad annuire. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, in un punto lontano alle mie spalle e intanto si rigirava il bicchiere tra le dita lunghe e affusolate, prive di ornamenti. Poi sospirò, posò il bicchiere e mi sparò in faccia i suoi occhi grigioverdi. Sembrava essere giunta ad una decisione.
– Va bene. – disse – Cosa vuoi sapere?
La sua domanda mi spiazzò. Temevo che se avessi parlato troppo si sarebbe spaventata, e che, se non avessi detto abbastanza, si sarebbe tenuta abbottonata. In un caso e nell’altro, non avrei saputo nulla. Decisi che non avevo altre armi che la verità.
– Non so come la prenderai, ma quella che sto per dirti è la verità. Forse il capo mi ucciderà, ma non vedo altro modo che dirtelo e basta. Il Senatore è preoccupato e dispiaciuto per il fatto che da una settimana non gli rivolgi più la parola. 
Zaira sbiancò, se ciò era ancora possibile. Io continuai: – E oltre a essere tremendamente preoccupato, è anche cotto come un vitello.  Zaira sbarrò gli occhi e sembrò cadere da un’altezza infinita.
– Di chi? – mormorò.
– Ma di te, naturalmente! E di chi altri?
– Di me?
Il suo sbalordimento era una sorpresa per me. Possibile che non si fosse accorta di nulla?
– E di chi, allora? – le ripetei, caparbia.
– Di Delia – rispose, con l’espressione di chi sta dicendo una cosa tanto ovvia, che non ha alcun bisogno di essere spiegata.
– Che c’entra Delia? – le chiesi, quasi urtata.
– Ma sei tonta? Non vedi come vanno le cose? Lei è sempre lì a strofinarglisi addosso e lui ride alle sue battutacce, come fossero le più divertenti del mondo. E poi me l’ha detto Delia – finì, con un filo di voce, come se questo le facesse mancare l’aria.
– E che cosa, esattamente, ti avrebbe detto quella vipera bugiarda e schizofrenica di Delia? – incalzai, visto che Zaira stava riprendendo fiato e sembrava decisa a richiudere il guscio.
Zaira mi guardò bene in faccia e poi, anziché rispondermi, mi chiese:
– Te l’ha detto lui?
– Che cosa? – le chiesi a mia volta, perché stavo perdendo il filo.
– Che è cotto come un vitello.
– Sì, me l’ha confessato proprio stamattina, anche se ha utilizzato altri termini.
– E quali, esattamente? – mi chiese, con espressione ansiosa.
– “Ho il sospetto di essermi innamorato di Zaira.” Così ha detto. Testuali parole – le confessai, addolcendo la voce e imitando lo sguardo da pesce lesso che aveva assunto il Dir in quel frangente.
Zaira scoppiò a ridere e all’improvviso sembrò essersi liberata di un peso enorme che la schiacciava.  Le tornarono i colori sul viso e gli occhi le brillarono come un gioiello.
Svuotò il bicchiere tutto d’un fiato e disse a denti stretti:
– Quella vipera maledetta! Ah, come la schiaccerei volentieri sotto i miei tacchi!
Osservai i suoi tacchi a spillo e provai un brivido lungo la schiena. Zaira sembrava agguerrita, ma nello stesso tempo pareva aver raggiunto una posizione che le permetteva di guardare le cose dall’alto. Mi afferrò la mano e me la strinse.
– Grazie – mi sussurrò, con quello sguardo emozionato.
– Di niente. E al Senatore cosa dico?
– Ma ti sei messa a fare la ruffiana? – mi chiese, scoppiando a ridere.
– Ma insomma, Zaira, per quell’uomo sei stata come un raggio di sole che ti scalda la vita, e all’improvviso ti ha vista scomparire dal suo orizzonte senza motivo. È disperato. Ti sentiva così distante e ostile, che non ha trovato di meglio che parlarne con me, che proprio non c’entravo nulla.
Lei abbassò il capo e io continuai:
– Certo, a questo punto, sarebbe più corretto che fossi tu a parlargli. Per me sarebbe meno imbarazzante e lui ne sarebbe assolutamente felice – conclusi.
– Hai ragione, Nora. È giusto. Sapessi quante notti ho passato senza chiudere occhio. Avevo continuamente nelle orecchie la voce stridula di Delia e le risate di Vittorio. A volte mi convincevo che stessero ridendo di me, perché lui mi guardava continuamente. È stato terribile. E quel mostro mi veniva a raccontare che Vittorio l’aveva invitata a cena, che le aveva mandato delle rose rosse, che la chiamava a casa tutte le sere e che non poteva più fare a meno di lei.
– Vipera! – esclamai – Sappiamo entrambe che si è inventata tutto.
– Lo spero.
– Zaira, forse non te l’ho mai detto e ho fatto male, ma sappi che ho raccolto una serie di testimonianze che dimostrano che quella è una pazza schizofrenica, bugiarda e pericolosa come poche. Qualunque cosa dica, non crederle mai, se non hai almeno una prova che sia la verità. Scoprirai che mente sempre. Sempre, anche nelle sciocchezze. Sempre.
– Ne avevo il sospetto, ma sa fingere così bene! Trova sempre un appiglio di verità intorno a cui costruire le sue bugie, che se non sospetti di nulla, ci caschi in pieno.
– Ma il tuo rapporto con Vittorio era così speciale! Eravate così in sintonia. Come hai potuto credere alle cattiverie di quella vipera?
– La situazione non era così chiara come sembrava a te. Eravamo in sintonia, è vero, e ogni giorno che passava, accorciavamo le distanze tra noi, ma facevamo finta di non accorgerci di nulla. Ci sfioravamo continuamente, fingendo che accadesse per caso, bevevamo dallo stesso bicchiere, come per sbaglio, cose del genere, insomma, ma senza mai dirci cosa stavamo provando, quali erano i nostri sentimenti.
– È stato questo che ha permesso a Delia di intromettersi. È la sua specialità.
– Già. – sospirò Zaira – Questo succede ai timidi.
– Beh, lui ha superato questo stadio, se è arrivato al punto di confidarsi con me.
– Ma non con me – ribatté Zaira.
– Per forza! Lo hai scoraggiato in ogni modo possibile, persino mettendoti a lutto. Oltretutto, il grigio e il nero ti invecchiano. Ti consiglio, da domani, di tornare a sorridergli, a guardarlo negli occhi e a vestirti di colori pastello. Vedrai che tutto tornerà a posto.
– Non penserà che sono una scema? 
– Perché dovrebbe? È innamorato di te: qualunque cosa tu faccia, gli sembrerà sempre giusta. Fidati. E parlagli.
La cena era finita. Avevo portato a termine la mia missione e avevo vinto la scommessa. Ora toccava a loro.

Il mattino seguente si annunciò con una pioggia torrenziale che ci fece arrivare tutti in ritardo. Quando giunsi, con le chiavi già in mano, trovai Marzio e Alberto che se ne stavano grondanti davanti alla porta, che mi affrettai ad aprire.
– Ci vorrebbe un fon – sospirò Marzio, lisciandosi i capelli e sgocciolando per il corridoio.
– Alberto, non hai un fon? – gli chiesi ridendo.
– Io no, - mi rispose serio – ma confido molto in Zaira. Lei ha sempre tutto.
Questa mi era sfuggita. Come in risposta alla sua affermazione, entrò Zaira, di corsa, dicendo: – Se non mi asciugo subito i capelli, mi becco un raffreddore.
La seguimmo nello spogliatoio femminile, dove la trovammo già intenta ad inserire la spina del fon.
Alberto e io ci fissammo. “Te l’avevo detto” diceva la sua espressione. Marzio sollevò un sopraciglio e si appostò dietro la porta del nostro spogliatoio, in coda. Ci asciugammo tutti, ringraziando la previdente Zaira, che a quanto pareva, tra le sue numerose doti, annoverava anche quella di pensare a tutto.
Si era fatto davvero tardi, ma del Senatore e di Delia, ancora non si avevano notizie.
A un certo punto Zaira mi sussurrò: –  Ma che fine ha fatto?
Intendeva il capo, naturalmente, ma io, che al mattino ho un risveglio piuttosto lento, le chiesi: – Chi?
– Forse ci vuole un caffè – sospirò lei, dirigendosi verso il corridoio, facendomi cenno di seguirla.
Squillò il telefono e Alberto si precipitò a rispondere.
– Il capo non viene – ci annunciò, riattaccando la cornetta. – Dice che non si sente bene.
Vidi l’espressione delusa di Zaira, che si rianimò immediatamente, quando il telefono riprese a squillare. Zaira si tuffò a rispondere, sperando forse che fosse ancora lui.
Ma la sua espressione mi comunicò immediatamente che doveva essere la vamp. Riagganciò, mi fissò con sguardo vitreo, e riprese il suo cammino verso la macchina del caffè. Non mi restò che seguirla. La raggiunsi giusto in tempo per sentirla singhiozzare.
– Che succede? – mi allarmai.
– Delia – disse solo, come se questo potesse spiegare il suo stato.
Le porsi un fazzoletto di carta che avevo in tasca e le chiesi:
– Cosa ti ha detto per gettarti in questo stato?
– Mi ha detto che ha trascorso la notte con Vittorio e che era così stanca che non ce la faceva a venire.
– Ma puoi scommetterci la testa, che non è vero! L’ha detto perché hai risposto tu e le piace rigirarti il coltello nella piaga. Sa qual è il tuo punto debole, Zaira. Lei l’ha capito. E poi, pensaci. È sicura che tu ti saresti limitata a dire che non veniva, quindi la sua bugia non sarebbe stata scoperta. E sai come so che si tratta di una bugia?
Zaira mi ascoltava appena. Sembrava seguire un suo ragionamento oscuro, che la teneva lontana. Era fuori di sé.
– Ragiona! – continuai – Se fossero davvero insieme, Delia ti avrebbe detto che entrambi erano stanchi e non sarebbero venuti. Non si sarebbe lasciata sfuggire un’occasione simile. Lei non sa che Vittorio non è venuto. Non lo sa, perché non sono insieme. Mi segui? Hai sentito cosa ho detto? – la incalzai.
– Sì. – si decise infine a rispondermi, smettendo di piangere.
– Come hai potuto cascarci di nuovo? – la rimproverai.
– Non lo so. Trova sempre il modo di colpirmi sui nervi scoperti. Persino il caso l’aiuta. Non è giusto.
– La fortuna aiuta gli audaci, dicono. Ma c’è anche un altro detto: tutti i nodi arrivano al pettine. Ricordalo. Tutto questo castello di bugie le crollerà addosso, se tu avrai il coraggio di parlare subito con Vittorio. Digli tutto.
– Ma oggi non c’è – obiettò Zaira.
– E tu telefonagli.
– Ma sta male.
– Scommetto che sentire la tua voce lo guarirà di colpo.
– Ma tu scommetti sempre?
– Solo quando so di vincere – mentii.
Zaira mi sorrise e infilò le monetine nella macchinetta del caffè.
All’ora di pranzo, mi comunicò la sua intenzione di telefonare a Vittorio e poi si infilò nell’acquario chiudendo la porta. Partecipai all’avvenimento osservandola attraverso i vetri e vidi i colori dell’arcobaleno alternarsi sul suo volto. Quando raggiunse la tonalità “tramonto inoltrato”, riagganciò e uscì tossicchiando.
– Allora? – le chiesi, incuriosita.
– Non sta bene – mi rispose, laconica.
Io alzai lo sguardo al cielo e sollevai le braccia nella stessa direzione. Era esasperante. Mi aveva di nuovo chiuso fuori dal guscio.
– Che novità! – esclamai – Ma che ti ha detto?
– Niente – mormorò.
Mi si sollevò un sopraciglio. Non ci credevo. Lei continuò: – Mi ha chiesto di chiudere l’ufficio con te. Di non lasciati sola. Dice che è più tranquillo, se siamo in due.
Cominciava a farsi strada un’idea nella mia mente, ma non si era ancora concretizzata. All’improvviso, però, la luce fu. Vittorio sarebbe venuto all’uscita. Voleva che ci fossi anch’io, per confondere Delia. Lui non sapeva che neanche lei si era presentata al lavoro. Era così. Ci avrei scommesso. Ma non lo dissi a Zaira. Se avessi avuto torto, lei ne sarebbe rimasta delusa. Se avessi avuto ragione, sarebbe stata una bella sorpresa.

Per il resto della giornata dovetti seguire Lorenzo, che era riuscito a impallare il suo computer, e persi di vista Zaira. Seguire Lorenzo era uno dei compiti più ardui che mi fossero stati affidati. Era un pazzo scatenato, nel senso buono. Ti scaricava le batterie. Non stava mai zitto. Conosceva tutte le barzellette del mondo e impallava continuamente il computer perché, invece di lavorare, si connetteva ai siti web più improbabili e a rischio. La mia anzianità di servizio mi aveva imposto di essere il suo controllore, ma io odiavo quel compito e lui amava il fatto che lo lasciassi in pace. Andavamo d’amore e d’accordo perché ci ignoravamo a vicenda. Ero convinta che tutto questo, un giorno, mi avrebbe procurato dei guai, ma nel frattempo mi evitavo accuratamente un esaurimento nervoso. Quando infine riuscii a far ripartire il sistema, Lorenzo mi schioccò un bacio su una guancia urlandomi nell’orecchio: – Sei mitica!
Guardai l’orologio e compresi che non potevo fare altro. Era ora di andare.
Cercai Zaira e le dissi di prepararsi a chiudere. Aspettammo che tutti fossero usciti e poi chiudemmo. Della mia idea che Vittorio si sarebbe fatto vivo, non accennai minimamente.
– Vieni al Bar Blu a prendere un caffè? – proposi a Zaira.
– Perché no? Ha smesso di piovere, finalmente – commentò mentre uscivamo dal portone.
Attraversammo la strada ed entrammo nella caffetteria.
– Ciao, Angelo. Ci fai due caffè? – ordinai, mentre passavamo davanti al banco ed entravamo nella saletta. A uno dei tavoli, proprio all’angolo, c’era Vittorio.
Lo sapevo! Avevo vinto un’altra scommessa. Ma perché era nascosto lì, e non si era precipitato in ufficio per incontrare Zaira? Non capivo.
– E Delia? – ci chiese, seccamente, senza “buongiorno e buonasera”.
– Buonasera, Senatore – risposi. – Delia oggi non è venuta.
– Ah, ecco perché non l’ho vista uscire. Scusate. Buonasera anche a voi.
Zaira sembrava paralizzata. Era rimasta senza parole. Poi il Dir si chinò sotto il tavolino e riemerse con un piccolo mazzo di fiori di campo, coloratissimi, legati con un nastro rosso, e lo porse a Zaira.
Allora lei sembrò riacquistare l’uso della parola.
– Erano per Delia? – chiese, senza prenderli.
– No, sono per lei, Zaira. Ho chiesto della signora Delia perché non l’ho vista uscire.
– Non vuole che ci veda insieme? – chiese ancora Zaira, che non mollava.
– Faccio male? – chiese a sua volta il capo, decidendosi ad appoggiare i fiori sul tavolino.
– Dipende – fu la laconica risposta.
– Zaira, ti prego. Cerchiamo di chiarire le cose – disse il Dir, passando a darle del tu.
Io tornai a sentirmi un’intrusa, come ai vecchi tempi, e mi allontanai alla chetichella. Angelo mi mostrò il caffè sul bancone e mi chiese se l’altro doveva portarlo alla mia amica.
– No, Angelo, è meglio di no. Bevilo tu, offro io – gli dissi, mestamente.
– Lascia stare, Eleonora, se bevo un altro caffè, resto sveglio fino a capodanno – mi rispose, versandolo nel lavandino.
Al mio gesto di pagare, mi fece di no con la testa, strizzò un occhio e mi augurò una buona serata. Mi augurai che lo fosse anche per Zaira e Vittorio.
Mi andai a infilare in macchina, mentre grosse gocce di pioggia ricominciavano a cadere da un cielo divenuto nero come l’inchiostro. Aspettai dieci minuti, ma nessuno uscì dal bar. Almeno sapevo che questa volta stavano parlando davvero. Mi era sufficiente. Quindi misi in moto, e tornai a casa.

Per tutta la serata restai pensierosa, tanto che a un certo punto Roberto, che alla fine aveva deciso di venire a trovarmi, mi chiese se avessi qualche preoccupazione.
– No, è per Zaira. Sembrava arrabbiata col capo, stasera. Spero che si siano chiariti. Li ho lasciati al bar, che discutevano.
– Problemi di lavoro?
– No, problemi di cuore.
– Chi dei due l’avrà spuntata?
– Non lo so. Davvero non lo so. Spero tutti e due.

Mi aspettavo qualcosa di totalmente  diverso, entrando in ufficio, quella mattina. Mi aspettavo un Vittorio soddisfatto e una Zaira raggiante. Mi accolsero invece entrambi con una espressione imbronciata. Che avevano combinato, quei due? Delia, serafica, veleggiava tra le scrivanie in un abitino di seta rosa a svolazzi bianchi. Ondeggiava sui vertiginosi tacchi a spillo, rigorosamente rosa anch’essi, come se il mondo fosse suo e avesse la piena consapevolezza che nessuno avrebbe potuto sottrarglielo. Ero curiosa, ma non osavo andare da Zaira, perché la sua aura diceva chiaramente: statemi alla larga. Di andare dal capo, non se ne parlava proprio. Quindi mi rassegnai ad attendere tempi migliori, osservando nel frattempo che quei due non si degnavano di uno sguardo e che Delia non si avvicinava all’acquario, forse intuendo che non tirava una buona aria.
Verso metà mattina fui chiamata dal capo. Speravo ardentemente che si trattasse di lavoro, perché non volevo essere immischiata nella loro burrasca.
Il Senatore aveva davanti a sé alcuni conti, e li guardava accigliato.
– Che roba è questa? – mi chiese severamente, mostrandomi i totali.
Io osservai di cosa si trattava e risposi che erano competenza di Delia.
– Lo so da me, ma lei che ne pensa? Dov’è tutto questo materiale?
– È in archivio. Abbiamo due armadi pieni di articoli di cartoleria. E lo scorso anno non ne abbiamo richiesta, quindi immagino che anche questa ci basterà per un paio di anni.
– È sicura che ci sia tutto? Non vorrei scoprire che vi portate a casa qualcosa.
– Di che cosa sta parlando? – chiesi, offesa.
– Mi scusi, Eleonora, non intendevo dire che… Insomma, c’è qualcuno che controlla?
– Che io sappia, no.
– Non c’è un responsabile che distribuisce il materiale?
– No. Non se n’è mai presentata la necessità. Quando abbiamo bisogno di una risma di carta, andiamo giù e la prendiamo. Tutto qui. Nessuno ha mai pensato di portarsela a casa.
– Andiamo giù – disse in tono perentorio, alzandosi dalla poltrona e precedendomi attraverso l’ufficio.
La nostra conversazione si era svolta a porte aperte, in modo da dare a tutti la possibilità di ascoltare. Quando giungemmo al piano inferiore, entrammo in archivio e Vittorio chiuse la porta. Io aspettai che aprisse gli armadi, ma lui non dava l’impressione di volervisi avvicinare, così mi apprestai a farlo io, ma lui mi bloccò.
– Lasci stare. Era una scusa per parlare con lei – sospirò.
– Che succede?
– È andato tutto storto – mi confidò.
– Me ne vuole parlare? – gli domandai, mentre sprofondavo in una poltroncina scassata.
Vittorio si appoggiò alla porta, con le braccia incrociate e mi lanciò un mezzo sorriso.
– Lei è divenuta la mia valvola di sfogo, se ne rende conto? Non so con chi parlare. Le dispiace, essere la mia confidente? Se questo la imbarazza, Eleonora, me lo dica pure francamente.
– Non più. Anzi, ne sono lusingata. Vuol dire che si fida di me.
– Sì, mi fido di lei.
– Allora si sieda e mi racconti cosa è andato storto.
Vittorio si accomodò accanto a me e mi guardò per buoni trenta secondi, prima di parlare.
– Lei ci ha lasciati da soli al bar, sperando che chiarissimo le cose. Ma si è ingarbugliato tutto, più di prima. Per una ragione che non capisco, Zaira si rifiuta di credere che io non mi stia interessando della signora Delia. Lei ne sa qualcosa?
– Zaira non le ha detto niente?
– Mi ha detto troppo poco. È per questo che non riesco a capire. Farla parlare è un’impresa impossibile – ammise, esasperato.
– Lo so, faccio fatica anch’io. Da quel poco che mi ha rivelato, pare che Delia si diverta a stuzzicarla, raccontandole che lei le telefona ogni sera, che non può più fare a meno di lei, che le manda rose rosse, che la invita a casa sua, dove trascorre notti infuocate. Cose del genere.
– Io? Lei? Ma di che cosa va farneticando? Senti, ti dispiace se passiamo a darci del tu?
– No, anzi. Mi facilita le cose – risposi, comprendendo che con tutti i “lei” che avevo infilato nella frase, non si capiva bene a chi mi riferissi.
– Allora, ricapitolami quello che mi hai appena detto – disse Vittorio, concentrandosi attentamente su di me.
– Delia ha detto a Zaira che tu le hai mandato delle rose rosse, che non puoi più fare a meno di lei, che la chiami ogni sera e che l’hai fatta venire a casa tua, dove avete trascorso…
– Ho capito, – mi interruppe Vittorio, con lo sguardo smarrito - ma sono tutte menzogne.
– L’ho detto a Zaira, e sembrava si fosse convinta. Ma, a quanto pare, è accaduto qualcosa che le ha fatto cambiare nuovamente idea.
– Non è accaduto nulla – mormorò Vittorio, grattandosi il mento.
– Eppure…
– Eppure cosa? 
– Ieri sera, quando siamo arrivate al bar, tu ti sei comportato in modo strano.
– Cosa vuoi dire?
– Quando ci hai viste entrare, invece di salutarci, ci hai subito chiesto di Delia.
– Lo so, ero nervoso. Stavo aspettando che uscissero tutti, per raggiungervi in ufficio. Invece Delia non veniva fuori, e siete uscite voi due. Ero sorpreso, capisci? Sono stato colto in contropiede.
– Sì, lo credo. Tu non sapevi che Delia non si era presentata in ufficio. A questo proposito ti interesserà sapere che il motivo di questa assenza è che hai trascorso l’intera notte con lei ed era troppo stanca per venire al lavoro.
– Ah, questa poi! – esplose.
– Già. E siccome non sei venuto neanche tu...
– Zaira ha creduto che fosse vero. È questo che pensi?
– Esatto.
– E perché crede a lei e non a me?
– Probabilmente perché tu permetti a Delia di strofinartisi addosso e ridi alle sue battutacce. È quello che ha detto Zaira.
Vittorio si passò una mano tra i capelli, con un’espressione leggermente disperata.
– Come posso competere con quella bugiarda?
– Non lo so, ma vorrei che se ne andasse. Fa del male a tutti e ci gode.
Vidi Vittorio riflettere per qualche istante, poi mi guardò.
– Tu come la vedi?
– La situazione in generale, o Delia in particolare?
– Entrambe.
– La situazione potrebbe essere semplicissima, se si potesse eliminare la presenza di Delia. Ma questo è più complicato di quanto possa sembrare. Delia è una bugiarda patologica. È una che mente su qualsiasi cosa, ma in maniera sottile. Intorno a un nucleo di verità, trasforma la realtà a modo suo, volgendo le cose a suo favore e sempre a sfavore di qualcun altro. Tutti noi siamo stati sue vittime, una volta o l’altra. È pericolosa. Molto pericolosa. Sono convinta che sia schizofrenica. Per toglierla di torno, bisogna fare in modo che creda che la cosa vada a suo favore. Bisogna portarla a pensare che sia un bene per lei e che sia lei che l’ha voluto. Piuttosto complicato, e difficile.
– Una promozione? – propose Vittorio.
– Bella punizione! – esclamai.
– Ci sono promozioni e promozioni – commentò lui, con un sorriso leggermente diabolico.
– Se lo dici tu – mi limitai a rispondere.
– Vedrai. Adesso so esattamente cosa fare. Grazie, Eleonora, mi sei sempre molto preziosa – mi disse, stringendomi una mano.
Tornammo di sopra con un paio di scatole di penne e due risme di carta, tanto per buttare un po’ di fumo negli occhi a chi fosse interessato. Appoggiammo tutto sulla sua scrivania.
– Eleonora, ti chiedo un ultimo favore: puoi accertarti che Zaira venga alla cena di sabato? –  mi pregò sottovoce.
– Non ti preoccupare – gli risposi, uscendo dal suo ufficio.
Più tardi, chiesi a Zaira quale abito avrebbe indossato per la famosa cena.
– Non lo so. A dire il vero, non so se venirci o no.
– Certo che verrai. E mi accompagnerai dal tuo parrucchiere. I miei capelli si sono ammutinati e ho bisogno di qualcuno che sappia il fatto suo.
– E quando vorresti andarci?
– Domani.
Zaira mi guardò un po’ sorpresa. Non aveva tutti i torti. Non ero tipo da parrucchiere. Portavo i capelli lunghi e mi tagliavo la frangia da me. Inoltre non sapevo cosa fossero i bigodini, la messa in piega o i colpi di sole. Ero un disastro. Questo nuovo interesse per la mia chioma doveva averla spiazzata. Ma io contavo sul fatto che Zaira aveva un cuore grande così. Se le chiedevo aiuto, non sarebbe stata capace di tirarsi indietro, e dopo aver permesso a me di fare bella figura, avrei potuto più facilmente trascinarmela dietro. O almeno lo speravo.
Riuscii a convincerla e il venerdì pomeriggio mi accompagnò dal suo parrucchiere. Devo dire che Antoine compì un miracolo che non pensavo potesse essere compiuto. Mi tagliò i capelli, sfilandoli in avanti e colorando solo le punte in tre diverse tonalità di biondo, compatibili con il mio castano dorato.
Sembravo una ragazzina di vent'anni. Mi sentivo bellissima. Visto che c’era, anche Zaira fece qualche ritocco al suo taglio fantastico.
E siccome, uscendo da lì, ero felice come una pasqua, le proposi, prendendola a braccetto, di fare un salto alla mia boutique preferita. Una volta lì, non potemmo fare a meno di indossare tutti i capi che ci piacevano e di acquistarne qualcuno.
Zaira era rilassata e sorridente, quando la riaccompagnai a casa con la mia macchina. E mi chiese di salire da lei a prendere un tè.
Aveva un appartamento al quarto piano, piccolo ma delizioso, con un immenso terrazzo che aveva arredato con divani e tavolini in bambù e circondato di piante da fiore e piccoli arbusti.
– Questa casa è un piccolo paradiso – le dissi.
– Lo so. Ogni tanto qualcuno si offre di acquistarlo. Ma io ci sto troppo bene. Dove dovrei andarmene?
– Non farci caso. Lascia che sbavino d'invidia e restaci.
– Lo sai che Vittorio abita in quella casa rossa laggiù? – mi chiese, indicandomela col dito.
Era un palazzone a un paio di isolati da lì.
– Ma come mai fa la strada in senso opposto? Dall’ufficio è più breve quella che fai tu.
– Me lo sono chiesta anch’io. Forse va a trovare qualcuno.
– Visto che parliamo di Vittorio, com’è andata l’altra sera? Vi siete chiariti?
– Lui ha cercato di farlo, ma io ero decisamente inversa. Mi è dispiaciuto, dopo. Ma lì per lì mi ha dato troppo sui nervi.
– Come quando ha chiesto di Delia?
– Vedi che l’hai notato anche tu? – disse, convinta.
– Voleva farti una sorpresa, aspettava che tutti uscissero e poi sarebbe venuto da te. Aspettava che Delia uscisse, ma lei non c’era e Vittorio non lo sapeva. Se non fossimo andate al bar, non sarebbe riuscito neppure a incontrarti. Non gliene frega nulla di Delia. Come te lo deve dire?
– Cantando – rispose, immergendo la faccia nella tazza del tè.
– Dai, Zaira. Dagli una possibilità. Non ti piace? Non ne sei innamorata anche tu?
– Anche? Chi altri? – mi chiese, sospettosa.
– Anche tu di lui come lui lo è di te, intendevo.
– Ah. Sì, credo. Non ne sono tanto sicura – mi disse, strappando un filo d’erba che era cresciuto sotto un cespo di rose.
– Sei esasperante, Zaira. Sarà meglio che tu ti chiarisca le idee, prima di confonderle anche a Vittorio.
Mi dispiaceva per lui. Sembrava così un brav'uomo. Sembrava così gentile, delicato e sensibile, che non meritava di soffrire tanto per amore. Non lo trovavo giusto. Quante donne avrebbero fatto carte false per farsi amare da uno così? E poi era bello. Non di quel genere di bellezza stucchevole, che hanno certi modelli. Vittorio possedeva una bellezza discreta, fatta di lineamenti regolari, occhi grandi e ciglia lunghe, labbra carnose e naso dritto. Aveva belle mani, spalle larghe e un bel sedere tondo. Cosa si poteva desiderare di più? Persino la sua voce era notevole. “Cantando” aveva risposto Zaira. Beh, ero certa che sapesse anche cantare. Dovevo informarmi.
– A cosa stai pensando? – mi chiese Zaira, riportandomi alla realtà.
– Stavo pensando a Vittorio. È proprio un bell’uomo. Non ritieni che la tua fortuna vada afferrata al volo? Se ci pensi troppo, qualcuna potrebbe portartelo via da sotto il naso.
– Delia, per esempio?
– Lascia perdere Delia. Vittorio sta studiando un espediente per togliercela di torno.
– Ah, davvero? Molto interessante. E quando te l’ha detto?
– Ieri, quando siamo andati a verificare il rifornimento di cartoleria.
– Ah, ecco perché ti ha portata di sotto. Voleva parlarti lontano da orecchie indiscrete.
– Lontano da quelle di Delia, per l’esattezza.
– State diventando piuttosto intimi, a quanto vedo.
– Non metterti strane idee in testa. Mi parla di te tutto il tempo –risposi, intuendo una nota di dispetto nella sua voce. 
– Come ci sei finita in mezzo? Vittorio ti parla di me e io ti parlo di lui. Stai cercando di metterci insieme a tutti i costi. Perché?
– Veramente è Vittorio che mi ha tirato in mezzo, lo sai. Visto che con te non riusciva più a comunicare, ha pensato di trasformarmi in messaggera dei suoi sentimenti. Il problema è che non riesco a fare altrettanto per lui con i tuoi. Quando ti deciderai?
– Quando saprò cosa voglio davvero – rispose Zaira, guardando verso il palazzo rosso che svettava alla nostra sinistra.
– E fino ad allora, Vittorio mi torturerà per sapere quale destino lo attende.
– Ma non ti dispiace questo ruolo, vero?
– Perché dovrebbe dispiacermi, in fondo? È una persona con cui si parla bene, anche se l’argomento è piuttosto monotono.
– Prima o poi ti stancherai di starlo a sentire.
– Perché, hai intenzione di tirarla ancora per le lunghe?
– Può darsi – mi rispose, con espressione da sfinge.
Sospirai e mi decisi a tornare a casa. Quella storia non aveva senso.
– Vieni a pranzo da me, domani?
– Solo se mi prometti che ci terremo molto leggere.
– Promesso.
– E se mi prometti che non mi parlerai di Vittorio – aggiunse.
– Come vuoi – risposi, incrociando le dita dietro la schiena.
Zaira mi accompagnò fino al cancello e poi tornò a casa. Io salii in macchina e mi sorpresi a canticchiare “Over the rainbow”.
Quella sera, mentre mi accingevo ad accendere il televisore per vedere un film che avevo registrato, suonò il telefono. Ero certa che fosse Roberto, quindi risposi “hallò” come facevo sempre con lui.
– Hallò? – mi rispose una voce maschile.
Non era la voce di Roberto.
– Chi è? – domandai, perché, chiunque fosse, capisse che parlavo italiano.
– Eleonora, sei tu?
– Sì, Vittorio – risposi, riconoscendo la sua voce.
– Rispondi sempre così, al telefono?
– No, pensavo fosse Roberto.
– Ah, stavi aspettando una sua chiamata. Scusa se ti occupo la linea. Volevo solo sapere se sei riuscita a convincere Zaira a venire alla cena di domani.
– Missione compiuta. Verrà.
– Bene. Sei grande! – commentò con entusiasmo.
Mi schiarii la voce. Non sapevo cosa dire. Odio i silenzi al telefono. Più si prolungano, più difficile sembra riafferrare un qualunque argomento che metta fine al senso di panico. Per fortuna fu Vittorio a riprendere la conversazione, prima che sprofondassi nel divano e ne venissi inghiottita.
– Come stai?
– Sta bene, l’ho portata dal parrucchiere e poi a fare shopping. L’ho anche invitata a pranzo per domani.
– Veramente, chiedevo a te. Come stai tu?
– Ah, io. Sto bene, grazie – risposi, imbarazzata. – E tu?
– Mi sento un po’ giù. Forse è l’insonnia.
– Hai provato a leggere qualche mattone?
– Cosa?
– Ti porti a letto un bel mattone, tipo Guerra e Pace o qualcosa del genere. Leggi un paio di pagine e prima che tu possa capire cosa stia succedendo, ti ritrovi a russare con la luce accesa e il libro sulla faccia.
La risata di Vittorio mi giunse attraverso la cornetta.
– Grandioso! Guerra e Pace è proprio quello che fa al caso mio. Domani mattina vado a comprarlo.
– Se vuoi, ti presto il mio. Ho smesso di usarlo anni fa – gli proposi, senza pensare.
– Va bene, allora ci vediamo domattina. Facciamo colazione insieme alla “Goccia d’oro”?
La “Goccia d’oro” era una grande torrefazione a metà strada tra il suo appartamento e il mio. C’era una sala da tè con impianto di filodiffusione, un bel parquet di noce, vetrate liberty, tavolini con tovagliette color salmone e stoviglieria in porcellana bavarese con il logo “Goccia d’oro” impresso lungo i bordi, in blu e oro. Grandi specchi ornavano le pareti e lampadari di Murano pendevano dai soffitti a cassettoni. Insomma, era un locale piuttosto chic, vecchiotto, è vero, ma sempre di gran classe.
– Devo venire in lungo? – scherzai.
– Naturalmente. Mi riconoscerai subito: sarò quello con lo smoking.
– Ok, allora a domani.
– A domani.

Che cosa stava succedendo? Aveva nominato Zaira solo una volta.


Indossai jeans e camicia rosa salmone. Mi gettai sulle spalle un giacchino jeans, e uscii al sole del mattino. L’aria frizzante di fine settembre mi svegliò del tutto. Risi, ripensando alla seconda telefonata che Vittorio mi aveva fatto.
– Ma il sabato a che ora fai colazione, tu?
– Alle nove.
– Colazione alle nove – ripeté ridendo. – Buonanotte, Eleonora.
– Buonanotte, Vittorio.
Prima che lui richiamasse, non avevo fatto caso che non ci eravamo dati un orario. A cosa stavo pensando? Pensavo che non mi aveva fatto il solito interrogatorio su Zaira. E che mi sembrava strano.
Guardai l’orologio e allungai il passo. Avevo deciso di fare una passeggiata a piedi. Mi sentivo in forma e mi specchiavo nelle vetrine per vedere l’effetto che faceva il mio nuovo taglio. A me faceva un bellissimo effetto. Mi sentivo la testa leggera. Forse troppo.
Arrivai al bar in perfetto orario e vi trovai Vittorio, che aspettava davanti all’ingresso, con un giornale sotto il braccio. Anche lui aveva optato per un completo jeans e una polo azzurra. Stava benissimo. Ci guardammo.
– E lo smoking? – gli chiesi.
– L’ho dimenticato in lavanderia. E l’abito lungo?
– L’ho prestato a un’amica.
– Pensi che ci butteranno fuori, se entriamo così? – scherzò.
– Non so, proviamoci.
– Mi piace il tuo coraggio – commentò ridendo.
Mi prese sottobraccio, spinse la porta a vetri e mi condusse verso la sala da tè, dicendo “Buongiorno, Teresa” alla cassiera davanti a cui passammo. Lei si limitò a sorridergli.
Ci sedemmo a un tavolino in fondo alla stanza, sul lato delle vetrate liberty. Immediatamente fummo avvicinati da un cameriere in gilé nero e camicia bianca impeccabile, col cravattino rosso, che prese le nostre ordinazioni.
Vittorio era molto rilassato. Finalmente gli vedevo un’espressione distesa. Sembrava allegro.
– Qualunque cosa tu abbia fatto ai capelli, ti sta molto bene – mi disse.
– Grazie. Anche tu sei in forma. Hai dormito bene?
– Ho seguito il tuo consiglio. Ho letto il “Pensiero filosofico e scientifico” e sono crollato alla quarta pagina. Quello è per me? – chiese, indicando il libro che avevo appoggiato sul tavolino.
– Sì. Fanne buon uso – gli risposi, spingendolo verso di lui.
– Grazie. Spero di non appassionarmici.
– Se così fosse, puoi sempre tornare al tuo pensiero filosofico.
– Affare fatto – concluse, sorridendomi.
Arrivò la nostra colazione e ci buttammo sul cibo con un certo entusiasmo. Proprio allora mi giunsero all’orecchio le note di “Over the rainbow”. Era il motivo che mi perseguitava da qualche tempo. Strana coincidenza.
– Questa è una delle mie canzoni preferite – mi annunciò Vittorio.
– Strano, anch’io la canticchio continuamente, da qualche giorno. Eppure non si può dire che sia un successo del momento.
– Il classico è immortale – commentò lui, affondando il naso nel suo cappuccino.
– Anche tu sei un maniaco della musica?
– Non sai quanto. Ho centinaia di cd. A proposito, mi sapresti indicare un negozio dove poter trovare un mobiletto per metterli un po’ in ordine?
– Hai dato un’occhiata all’Ikea? – gli proposi.
– Come mai non ci avevo pensato? Ci andrò senz’altro. Come al solito, hai sempre la risposta giusta.
– Per così poco? Non esagerare, per favore – mi difesi, colta da un’improvvisa timidezza.
Finimmo la nostra colazione e uscimmo dal bar. Vittorio aveva insistito per pagare il conto, nonostante le mie insistenze. Così, mentre lui si accendeva una sigaretta, con un piede ancora sulla porta, lo ringraziai.
– Ti accompagno a casa? – mi propose.
– Veramente vado a fare la spesa.
– Ti accompagno a fare la spesa, allora – decise.
Così trascorremmo ancora un paio d’ore a girare per i banchi del mercato e dentro e fuori da alcuni negozietti, finché non giungemmo sotto casa mia. A quel punto Vittorio mi aiutò a mettere le borse nell’ascensore e si congedò, dopo essersi assicurato che ce la facessi da sola. Non c’era problema, ovviamente, ma fu molto gentile. Ci saremmo rivisti la sera al Faro, dove avrebbe tentato di far ragionare Zaira. Impresa che ritenevo piuttosto difficile. Ma non glielo dissi, per non abbatterlo. Avevamo trascorso una bella mattinata, parlando solo di noi e nominando Zaira solo di sfuggita. Forse Vittorio aveva deciso di non ammorbarmi eccessivamente e forse riteneva di dovermi dimostrare che la sua non era un’ossessione. Meglio così.
La sua ossessione si presentò in casa mia verso mezzogiorno. Era di ottimo umore. Non la vedevo così da molto tempo.
– Hai riposato bene? Sei splendente – le dissi.
– Grazie del complimento. Stavo per dirti la stessa cosa. Se hai usato una maschera rilassante, voglio farla anch’io – commentò ridendo.
– È sufficiente dormire dieci ore filate e poi farsi una bella passeggiata al sole.
– La tua ricetta è più semplice di quanto credessi.
Non avevo alcuna intenzione di informarla che avevo trascorso l’intera mattina con Vittorio. Non so perché, ma sentivo che sarebbe stato meglio tenere per noi questa notizia. Zaira era così gelosa, che avrebbe potuto fraintendere la nostra amicizia.
Pranzammo e ci andammo a sdraiare sul terrazzo. Non era grande come il suo, ma faceva la sua bella figura. Chiacchierammo del più e del meno, come due vecchie amiche e tutto sembrò facile e naturale. Quando non si chiudeva a riccio, Zaira era una persona davvero piacevole. Decidemmo infine che ci saremmo preparate per la cena e che saremmo andate con la mia macchina. Temevo che da un momento all’altro mi dicesse che non sarebbe venuta, ma non ci furono problemi. Era decisamente di buon umore.
Appena giunte al Faro, vedemmo Vittorio sulla porta, con Marzio, Alberto e Lorenzo. Dopo i saluti, entrammo. Il tavolo che avevamo prenotato era già pronto. Approfittando dell’assenza di Delia, feci in modo che Vittorio e Zaira si sedessero accanto. Costrinsi Lorenzo a sedersi vicino a Vittorio, e Marzio e Alberto di fronte a loro. Giunsero subito dopo Renato e Marco, che lasciarono liberi i due posti a capotavola. Io ero accanto a Zaira. Aspettavamo solo Delia e Agnese, l’eterna ritardataria. Riusciva ad arrivare tardi anche quando era in anticipo. Come ci riuscisse, costituiva un mistero inspiegabile. Vittorio era convinto che questa caratteristica fosse scolpita nel suo DNA. 
Delia e Agnese ci raggiunsero insieme.
– Delia mi ha fatto fare tardi – annunciò, scusandosi.
– Non è affatto tardi. – replicò Delia. – Semmai loro sono in anticipo.
– Non ha alcuna importanza, ora. Sedetevi. Qui non c’è il cartellino da timbrare – commentò Vittorio.
Delia non aveva fatto buon viso a cattivo gioco. Non ne era capace. Chiese a Marzio di scambiare il suo posto con lei, facendogli un po’ di moine. Stranamente il gioco non ebbe gli effetti sperati. E anche Alberto si rifiutò di spostarsi. Gli altri si limitarono a prenderla un po’ in giro. Molto strano. Di solito otteneva quel che voleva, ma quella sera era indisponente e nessuno era disposto a cedere ai suoi capricci. La vamp cominciava a perdere colpi. Zaira e io ci scambiammo uno sguardo d’intesa, che non sfuggì a Vittorio, il quale si avvicinò all’orecchio di Zaira per sussurrarle una qualche battuta. Zaira rise, nascondendosi dietro una mano.
Quella sera tutto filò liscio, tra Zaira e il Senatore, ma al momento di tornare a casa, Zaira rifiutò recisamente la sua offerta di darle un passaggio e pretese di tornare con me. Vittorio e io ci guardammo  desolati. Cosa non aveva funzionato a dovere? Non capivo.
Mentre Delia si avvicinava a Vittorio con la chiara intenzione di chiedergli un passaggio, Vittorio si dileguò. Sapevo esattamente cosa aveva pensato. Meglio darsi alla fuga. Non potevo dargli torto. Delia era furente. E io ridevo sotto i baffi. Baffi virtuali, ovviamente. Riaccompagnai Zaira, sperando che mi spiegasse perché aveva deciso di rifiutare l’offerta di Vittorio, ma non me lo seppe spiegare. Disse solo che le sembrava prematuro. Non aveva ancora le idee chiare.
– Ma insomma, Zaira, ti piace o non ti piace Vittorio?
– Sì e no.
– Sì e no? Che significa?
– Significa che mi piace a livello epidermico, ma non profondo.
– Vuoi dire che ti attrae solo fisicamente? – tentai di capire.
– Esatto. È un bel tipo, ma è vuoto.
– Vuoto? – urlai, sbandando leggermente in curva.
– Ehi, vacci piano! Vorrei tornare a casa sana e salva.
– E ci tornerai, ma spiegami perché Vittorio ti sembra vuoto.
– È un’impressione. È freddo e scostante. Si comporta come se l’intero universo girasse intorno a lui.
– Sei impazzita? – le chiesi a denti stretti.
– Io lo vedo così.
– E comprati un paio di occhiali – mi sentii rispondere.
Ero furente. La scaricai sotto casa e mi imposi di arrivare alla mia senza superare i limiti di velocità. L’avrei picchiata. Come poteva dire cose simili di Vittorio? Quella donna era impossibile. Addossava agli altri le sue stesse caratteristiche, senza rendersene neanche conto. Mi faceva venire i brividi.

La mattina seguente venne a prendermi Roberto. Avevamo deciso di trascorrere una giornata al lago, visto che il tempo reggeva e la casa dei suoi era libera. Roberto lavorava come un forsennato, con l’unico obiettivo di fare carriera in fretta e diventare ricco entro i quarant’anni. Io gliel'auguravo, ma temevo che conducendo una vita del genere, quello che poteva raggiungere sicuramente entro i quarant’anni era un bell’infarto.  Passammo la mattina a passeggiare lungo il lago e poi andammo a mangiare in un ristorantino che offriva nel suo menù la polenta, estate e inverno. Roberto ci andava pazzo e ne approfittava ogni volta che poteva.
– Sei di umore silenzioso – gli dissi, tra una portata e l’altra.
– Cosa dovrei dire? 
– Non so. Hai qualche preoccupazione?
– Niente di importante – si limitò a commentare.
Era da un po’ di tempo che non parlavamo più. Ci eravamo trasformati in una coppia sposata, senza esserlo. Ci conoscevamo troppo bene. Non c’erano più segreti, né curiosità. Cominciavo ad annoiarmi, in sua compagnia, ma gli volevo bene. Scarsa consolazione. I primi tempi erano stati stupendi, ma allora lui non lavorava ancora, e io ero il suo primo pensiero. Adesso quel posto era stato occupato dalla sua carriera. Pensavo di poterlo sopportare, ma forse avevo preteso troppo dalla mia pazienza.
– Settimana pesante? – ritentai.
– Come al solito.
– Sei decisamente di poche parole, oggi – commentai.
Roberto mi guardò per un istante, e i suoi occhi mi sembrarono vuoti o meglio, svuotati. Cosa gli stava succedendo?
– Non ti senti bene? – azzardai.
– E va bene, è da qualche tempo che cerco il momento giusto per dirtelo. Ma non esiste un momento giusto. Quindi, se uno è uguale  all’altro, tanto vale che te lo dica adesso.
Un brivido gelido mi percorse la spina dorsale. Non sapevo cosa aspettarmi. Sembrava una notizia orrenda. Sapevo che mi avrebbe fatto soffrire. Ne ero certa. Roberto era malato? Lo avevano licenziato? Lo mandavano all’estero?
– Mi sono innamorato di un’altra – mi comunicò.
– Ah.
Tutto qui? Dov’era il dolore? Aspettavo mi cogliesse alla gola per soffocarmi. Aspettavo che le gambe mi tremassero, che le lacrime mi si affacciassero agli occhi. Aspettavo che il cuore mi desse un tuffo, che perdesse il ritmo costante dei suoi battiti. Aspettai invano. Non giunse alcuna reazione. Possibile che non me ne importasse nulla? Che cosa era diventato quel rapporto? Solo un'assurda e inutile abitudine?
– Non dici niente? – mi chiese, guardandomi negli occhi.
– C’è qualcosa da dire? Auguri. Spero che siate felici.
– Tutto qui?
Erano le esatte parole che avevo pensato anch’io. Tutto qui?
– Sì, tutto qui. Forse tra noi le cose erano già a un punto tale che non potevamo più andare avanti, ma non avevamo il coraggio di ammetterlo. Se ti sei innamorato di un’altra è perché io non occupavo più un posto nei tuoi pensieri. Non trovi?
– Forse è così. Non lo so.
– Già – mormorai, pensando alla mia ritrovata libertà.
Quella sera, il mio unico pensiero, mentre percorrevamo l’autostrada in silenzio, nel buio ferito solo dai fari delle auto che ci venivano incontro, era che la mia libertà aveva un peso. Me la sentivo addosso come una cosa viva. Mi conquistava centimetro per centimetro, dentro, fuori, sopra, sotto. Ero libera. Sola, è vero, ma come nuova. Mi si aprivano davanti nuovi orizzonti, nuove prospettive. C’era di nuovo da costruire, da progettare, da sperare. Tutte cose che avevo ormai abbandonato, restando legata a Roberto. Chissà perché non ero stata io a dirgli “basta”? Quel nostro rapporto sembrava indirizzato verso il nulla, eppure io attendevo. Cosa? Cosa potevo attendermi da lui? E perché?
Gli volevo bene, è vero. Questo mi aveva legato mani e piedi, pensieri, sogni, desideri. Stavo morendo dentro, un po’ alla volta, e non me ne rendevo conto. Che spreco. Menomale che ci aveva pensato lui.
Roberto parcheggiò sotto casa mia. Mi guardò e mi chiese, dopo un lungo silenzio imbarazzato:
– Restiamo amici?
– Ma certo. Lo sai che ti voglio bene. Restiamo amici. Chiamami quando ne hai voglia.
– Certo – rispose lui, appoggiandomi le labbra su una guancia.
Dentro di me ero convinta che non lo avrebbe fatto. Ma forse mi sbagliavo.
– Chiamami anche tu, quando hai voglia di fare due chiacchiere.
– Naturalmente – gli risposi, sapendo che non lo avrei fatto.
Tutto qui? Continuai a dirmi, una volta a casa. Guardandomi intorno, mi limitai a far sparire ogni traccia di lui. Ci impiegai davvero poco. In fondo non aveva lasciato una grossa impronta nella mia vita. Me ne stupii solo allora.

Il lunedì è una giornata pesante per antonomasia, ma quel lunedì fu veramente stancante. Alle nove Lorenzo era già riuscito a impallare il suo computer e io ero di pessimo umore. Lo trattai malissimo, è vero, ma non pensavo di scatenare la reazione a catena che investì metà del personale. Vittorio, stufo di ascoltare le lamentele dei suoi impiegati, all’ora di pranzo sparì. Agnese invece mi costrinse a uscire con lei per mangiare un panino. Doveva parlarmi.
Quando fummo sedute a un tavolino del bar Blu, esordì:
– Che ti è preso, oggi? Lo sai che Lorenzo è venuto da me con le lacrime agli occhi? Che diavolo gli hai detto, per ridurlo in quello stato?
– Cosa? – caddi dalle nuvole. – Non l’ho trattato così male – mi difesi.
– A quanto pare sì – insistette.
– Gli ho detto che doveva finirla di giocare su internet e doveva cominciare a comportarsi da persona responsabile. Gli ho detto che lo hanno assunto per lavorare. Cosa c’è da piangere?
– Beh, lo sai che tu sei il suo mito. Devi andarci piano, con i tuoi fan, altrimenti ti ritroverai in mezzo ai guai.
– Agnese, di cosa stai parlando? – le chiesi, senza capire.
– Lo sai. I nuovi arrivati ti considerano un genio del computer e hanno una stima sviscerata per te. Qualunque cosa tu chieda, loro sono disposti a farla. Ma se cominci a metterteli contro, arriverà il momento in cui dovrai farti tutto il lavoro da sola.
– Non credo proprio. Sono tutti lì per lavorare.
– Possono sempre scovare altri lavori da fare e potresti trovarli troppo impegnati quando serve che ti diano una mano.
– Senti, io sono solo il supervisore di Lorenzo. Tutti gli altri mi stanno intorno soltanto per imparare e io insegno volentieri. Non mi cambierebbe certo la vita dover fare da me. L’ho sempre fatto. E per quanto riguarda Lorenzo, mi dispiace, non era mia intenzione farlo soffrire, te lo assicuro.
– Senti Eleonora, oggi è stata una giornata strana, sarà la pioggia, sarà che è lunedì, ma sta di fatto che sono tutti incazzati. Cerchiamo di arrivare all’uscita senza spargimento di sangue.
– Sono perfettamente d’accordo con te.
Ma non avevo fatto i conti con Vittorio, che al nostro rientro dalla pausa pranzo era già nell’acquario e mi aspettava al varco.
– Chiudi la porta, per favore – mi disse, quando entrai nel suo ufficio, dietro sua esplicita richiesta.
– Ti dispiace se fumo? – aggiunse.
– No, fai pure – risposi, restando sulle spine.
– Oggi sono tutti nervosi. Anche tu, ho visto. Volevo solo chiederti di essere un po’ meno aggressiva con Lorenzo: è un giovane molto sensibile. Lo so che non l’hai fatto apposta, ma lui si è sentito umiliato e ferito.
– Mi dispiace, Vittorio. La prossima volta mi limiterò a fare il mio lavoro senza commenti.
– Lo so, ho piena fiducia in te. Ho dovuto dirtelo, però, capisci? Questo è il mio ruolo. Se qualcosa non va, devi dirlo a me. Sarò io a prendere i provvedimenti del caso. Sono qui per questo.
– Certo, mi rendo conto. Non pensavo minimamente di sostituirmi a te.
– Ti ringrazio. Ora puoi andare.
Così quel lunedì si concluse col velato rimprovero di aver usurpato le competenze del capo. Non c’era che dire, avevo completato in bellezza l’intera giornata. All’uscita, di solito, passavo al bar Blu a prendere un caffè, ma quel giorno avevo solo voglia di scappare a casa mia e rinchiudermici. Fui così veloce, che non vidi neppure gli altri uscire.
Dopo cena, suonarono alla porta. Quella era l’ora in cui Roberto veniva a trovarmi, ma lui non lo avrebbe più fatto, quindi chi poteva essere?
– Vittorio!
– Buonasera, Eleonora, ti disturbo?
– No, figurati, entra pure. Accomodati.
Non gli chiesi come mai si trovava seduto sul mio divano alle nove di sera. Aspettavo che me lo spiegasse lui.
– Un caffè? L’ho appena fatto – gli offrii.
– Grazie – accettò.
Bevve il caffè in silenzio, poi tirò fuori da una tasca un cd.
– Vuoi metterlo?
Non capivo cosa stavamo facendo. Accesi lo stereo e tornai a sedermi, aspettando che giustificasse la sua visita a quell’ora, senza preavviso.
– Giornata pessima, eh? – commentò.
– Abbastanza, grazie, anche perché segue una domenica più che pessima.
– Che è successo? – mi chiese, guardandomi negli occhi, con sincero interesse.
– Roberto mi ha lasciata – spiegai, concisamente.
Vittorio sbarrò gli occhi, solo per un secondo.
– Mi dispiace, Eleonora. E oggi mi ci sono messo anch’io. Mi spiace davvero.
– Non importa. Dovevi farlo.
– No, che non dovevo. Alla fine Renato si è sbottonato. Mi ha detto tutto.
– Renato? Cosa ti ha detto?
– Che Lorenzo passa metà del suo tempo a fare giochetti su internet. Avresti potuto difenderti comunicandomelo, ma non l'hai fatto. Sei stata leale con lui. Sapevo già che non ti piace fare la spia, e ti ammiro per questo, però, se non lo avessi saputo da Renato, non avrei capito.
– Lorenzo è un ottimo elemento, deve solo crescere un po’.
– Lo difendi sempre? – rise.
– Lo difendo, sì, è un bravo ragazzo.
– Non è che ti sei un po’ innamorata di lui?
– Ma che dici? Ha dieci anni meno di me.
– E allora? Cosa c’entra l’età?
– C’entra, eccome se c’entra.
– Quanti anni deve avere l’uomo giusto per te? – chiese ancora.
– Dalla mia in su.
– Allora bisognerà che cominci a guardarti intorno. Sei di nuovo libera, o sbaglio?
– Prima o poi lo farò.
– Bene. È ora che vada – concluse, alzandosi e avviandosi alla porta.
– E il cd? – gli chiesi, mentre usciva.
– Te lo regalo. Buonanotte – rispose, chiudendosi la porta alle spalle.
Vittorio era venuto per chiedermi scusa? Quale capo fa una cosa del genere? Era davvero un uomo straordinario. In fondo, il suo rimprovero era stato molto debole. Avrebbe potuto lasciar perdere. Un altro lo avrebbe fatto. E quella musica, così rilassante, era un ulteriore invito a stare tranquilla. Ripensai a Zaira e al suo modo di giudicarlo. Come poteva esserle saltato in mente che Vittorio fosse vuoto? Delicato, gentile, comprensivo, ironico, indulgente. Questi erano gli aggettivi che venivano in mente a me.

Per prima cosa, il giorno seguente, presi Lorenzo da parte e chiarii che non ce l’avevo con lui, che lo avevo sempre ritenuto un ragazzo in gamba, che se ero stata troppo brusca nei suoi confronti, ciò era dovuto al fatto che ero di pessimo umore. Mi scusai con lui e ci bevemmo un caffè insieme. Lorenzo mi abbracciò. Mi aveva già perdonato.
Agnese, in ritardo patologico, si presentò alla mia scrivania, guardandomi male.
– Che intenzioni hai oggi?
– Sono di ottimo umore e ho fatto pace con Lorenzo. Posso esserti utile in qualcos’altro?
– Niente. Va bene così – ammise. Mi voltò la schiena e tornò sui suoi passi.
Cominciai a chiedermi perché Agnese si curasse del mio umore e dei diverbi che potevano essere scoppiati tra una scrivania e l’altra. Se l’era scelta come occupazione secondaria?
Delia arrivò subito dopo.
– Hai visto il capo, oggi? Sembra di ottimo umore, vero?
Io guardai nell’acquario e vidi Vittorio che parlava al telefono. Sorrideva. Magari qualcuno gli stava raccontando una barzelletta.
– Sì, Delia, vedo. E allora?
– Non hai niente da andare a spifferargli oggi? Mi pare dell’umore giusto.
– Quanto sei pesante. Se hai da dirmi qualcosa di intelligente, fallo. Sennò lasciami lavorare.
– Come sei suscettibile, Nora. Ti infastidisce che tutti sappiano che sei la sua spia?
– Io non sono la spia di nessuno. Se lo fossi, tu non saresti più qui da molto tempo, mia cara – le dissi sottovoce.
– Aveva ragione Roberto: sei un’arpia.
– Quale Roberto? – le chiesi, colta da un dubbio atroce.
– Il tuo ex-fidanzato, naturalmente. Ah, a proposito, sono io la sua nuova ragazza.
– Auguri e figli maschi! – le dissi, con la stessa intonazione con cui avrei potuto dirle: strozzati!
Lei sollevò la testa, mi volse la schiena e ticchettò altrove. Avevo deciso che non sarebbe riuscita a rovinarmi la giornata, ma mi sentivo uno schifo.
Infine arrivò Renato.
– Sai, ho detto al capo che avevi ragione. Non potevo crederci, quando ti ha detto di stare al tuo posto. Ho dovuto farlo.
– Ma avete nascosto qualche microspia, in quell’ufficio? Come hai fatto a sentire quello che dicevamo? La porta era chiusa.
– Ma i vetri sono trasparenti. Io so leggere le labbra.
– Cavoli! Non conoscevo questa tua dote nascosta. E spii sempre quello che il capo dice?
– Quasi sempre.
– Per esempio, mi sapresti dire cosa si dicono il capo e Delia?
– Parlano sempre di carriera. Lui vuole spedirla a fare un corso di specializzazione di non so cosa.
– Bene. Molto bene – commentai, sorridendo.
– Vuole togliercela di torno?
– Come hai fatto a capirlo?
– Forse perché è un desiderio comune. Non vediamo l’ora che se ne vada.
– Lo sai che è appena venuta ad accusarmi di essere la spia del capo?
– Tu? – esclamò, scandalizzato.
– Io.
– Che stronza! Se sparge la voce in giro, ti rovina la reputazione.
– Non farà niente del genere – affermai, sicura.
– Perché?
– Perché l’ho praticamente ricattata.
– Sei un genio. Sai qualcosa della vamp che vuol tenere nascosto?
– Gliel’ho fatto credere.
– Quando vuoi una mano, dimmelo pure. Sono sempre disponibile a far trionfare la giustizia – mi disse, facendomi l’occhietto e tornando alla sua scrivania.
– Adesso, se le visite di cortesia sono finite, mi metterei al lavoro – dissi a me stessa, sottovoce.
– Non ancora – mi corresse Zaira.
– Che c’è?
– In bagno – sussurrò, con espressione da cospiratrice, allontanandosi immediatamente verso il corridoio.
Non mi restò che seguirla.
– Allora, che c’è?
– Stamattina sono arrivata in anticipo e mi sono imbucata al bar Blu. Ci ho trovato Vittorio.
– E allora?
– Non mi ha detto niente.
– E cosa ti aspettavi? Non è mica scemo. Ha capito che non ti interessa. Forse ci ha rinunciato.
– Tu non ne sai niente?
– No, perché dovrei esserne informata?
– Non si confida con te?
– Ma che vi siete messi in testa, tutti quanti? – commentai, esasperata. – Questa è una storia che devi vederti da sola. Se ci tieni a lui, diglielo. E se non te ne frega niente, lascialo in pace. Perché vuoi per forza ficcarci dentro anche me?
– Io non riesco a parlarci.
– E io che ci posso fare? Sono affari tuoi, se non sbaglio. L’altra sera hai detto che Vittorio ti sembrava vuoto. Hai cambiato idea? Adesso vuoi che si interessi a te?
– Non so quello che voglio.
– Zaira, per favore, tienimi fuori da questa storia. Ti prego. Ho anch’io i miei problemi.
– Ma se lui ti chiede di me, cosa gli dirai?
– Che non so cosa ti passa per la testa.
– Digli che voglio parlare con lui.
– Non potresti, semplicemente, entrare nell’acquario, chiudere la porta, e dirglielo direttamente? Non è difficile.
– Per te non lo è. Per me è impossibile.
– Tu sei matta.
– Io sono timida.
– Beh, anche lui lo è. Pensaci.
Zaira ci pensò. Mi disse – Grazie – e se ne andò.

Nel pomeriggio scesi in archivio per riporre alcune pratiche. Mentre stavo per tornare di sopra, suonò il telefono. Di solito, nessuno risponde dall’archivio, ma io ero proprio accanto all’apparecchio e mi venne istintivo alzare la cornetta.
– Eleonora, sono io – disse la voce di Vittorio.
– Hai bisogno di una pratica?
– No, ho bisogno di parlarti.
– Vengo su.
– No, resta lì.
Il capo era impazzito.
– Poco fa Zaira è venuta a dirmi che forse dovremmo parlare di più. Francamente, Eleonora, ti sembra normale? Sabato sera al ristorante abbiamo parlato benissimo, ma poi si è rifiutata che l’accompagnassi a casa. Fino a oggi non mi ha più rivolto la parola. E adesso dice a me che dovremmo parlare di più.
– Non farci troppo caso, è timida.
– Qui non si tratta più di timidezza. Si comporta in modo strano, mi lancia segnali contrastanti. Non capisco quali siano le sue intenzioni. Comincio a temere che mi stia portando in giro.
– La verità, Vittorio, è che non ha le idee chiare.
– Su di me?
– Su di te, in parte, ma anche sui propri sentimenti.
Calò un lungo silenzio, poi la sua voce si fece più alta, mentre diceva a qualcuno di aspettare un momento.
– Ne riparliamo. Scusa, devo chiudere.
– Ok – dissi al “tu tu” della linea caduta.
Ritornai alla mia scrivania e lanciai un’occhiata verso Vittorio, che era impegnato in una fitta conversazione con Delia. Vidi che Renato li osservava attentamente. Quando Delia uscì, andai alla scrivania di Renato e, con la scusa di offrirgli un caffè, me lo portai in corridoio.
– Cosa si stavano dicendo? – gli chiesi a bassa voce.
– Pare che il corso inizi lunedì. Durerà tre mesi. Ci pensi? Tre mesi senza Delia – mi confidò, deliziato.
– Benissimo – approvai.
Avevamo entrambi l’espressione di gatti che si leccano i baffi. Ci guardammo e scoppiammo a ridere, proprio mentre venivamo raggiunti da Vittorio.
– Un caffè anche per il capo? – chiesi.
– No, grazie. Volevo solo sapere se dopo la chiusura hai un momento. Magari potremmo vederci al Blu – mi propose.
– Certo, ci passo sempre, prima di tornare a casa.
Renato mi guardò in modo strano, ma Vittorio non se ne accorse.
Quando si fu allontanato, Renato esclamò:
– C’è del tenero tra voi!
– Non volare con la fantasia, caro. Siamo solo in ottimi rapporti. Lo sto consigliando su una sua questione personale.
– Se lo dici tu – commentò, con espressione niente affatto convinta.
– Te lo posso assicurare. Il suo obiettivo è un altro.
– Zaira? Spero non sia Zaira. Quella è nata per far ammattire la gente – affermò lui, molto seriamente.
La cosa mi incuriosì.
– Che cosa sai che io non so?
– Ti ricordi di Alessio? L'ha fatto impazzire. Sembrava che Zaira ne fosse cotta, ma con lui si comportava in modo strano. Un po’ gli dava corda e un po’ lo ignorava. Quello, a un certo punto, non ci ha capito più niente e ha deciso di tagliare. Si è fatto trasferire per questo. Ci pensi? Arrivare al punto di andarsene, solo per non vederla più – concluse, scuotendo la testa.
– A me Zaira aveva detto che lui l’aveva mollata senza una ragione, così, da un giorno all’altro. Non le aveva nemmeno fatto sapere che si trasferiva. Non ha salutato nessuno.
– Lo vedi che è matta?
Povero Vittorio, pensai. Dovevo avvertirlo? A chi dei due doveva andare la mia lealtà? Mi avevano tirato in mezzo a forza e io volevo restare neutrale, ma a quel punto non sapevo come comportarmi. I miei pensieri dovevano essere trasparenti, perché Renato mi disse:
– Dubbi su quello che gli devi consigliare?
– Di che cosa stai parlando? – chiesi, tentando di assumere un’espressione stupita, proprio come se non avesse colto nel segno.
– Non è su Zaira che vertono i tuoi consigli al capo?
– Cosa te lo fa pensare?
– Ti conosco troppo bene, Nora e so leggere le labbra, ricordi? Lo so di cosa parlate a porte chiuse, tu e il capo.
– Senti, Renato, è meglio che tieni la bocca chiusa su questa storia. Lascia che ci pensi io. È già un casino così.
– Volevo solo darti una mano.
– Lo so, ma qui pare che una mano non basti. Ci devo riflettere sopra.
– Come vuoi. Sarò muto come un pesce.
– Bravo – gli lanciai, tornando in ufficio.

Da quel momento non riuscii più a concentrarmi sul lavoro. Cosa dovevo dire a Vittorio? Cosa sarebbe stato più giusto? Che gli raccontassi la storia di Alessio o che lo tenessi all’oscuro?
Potevo tentare di accennarglielo diplomaticamente, senza scendere nei dettagli, tanto da prepararlo all’eventualità che Zaira rimanesse eternamente indecisa, o potevo lasciare che se ne rendesse conto da solo. Alessio se n’era andato. Non volevo che alla fine anche Vittorio sparisse. Ci tenevo molto. Era un ottimo capo. Inoltre, quando stavamo insieme non era solo per parlarmi di Zaira. Mi ero resa conto che teneva a me, come amica. Cosa doveva fare una buona amica? Avvertirlo del pericolo. E se avesse creduto che io avessi altri scopi, oltre quello di difenderlo da una delusione? Se avesse pensato che fossi gelosa? Gelosa di Zaira? Io? E perché? Avevo già un ragazzo. Ah, già, non l’avevo più. A volte me ne dimenticavo. Sarebbe stato davvero imbarazzante se avesse creduto che volessi allontanarlo da Zaira, perché lo volevo tutto per me.
Arrivò l’ora della chiusura senza che fossi riuscita a prendere una decisione.
Entrai al Blu con una sensazione d'indecisione. Non ero preparata. Non sapevo ancora cosa avrei detto a Vittorio. Sperai che fosse lui a dire a me qualcosa che mi traesse d’impaccio.
Quando Vittorio venne a sedersi al mio tavolino, e mi guardò sorridendo, con quel sorriso in cui leggevo simpatia, complicità e amicizia, mi sentii stringere il cuore, come stessi per tradire tutto questo.
– Grazie di essere venuta – esordì.
– Mi fa piacere, non devi ringraziarmi.
– Ti ho chiesto di vederci perché volevo che tu mi dessi un           parere più approfondito su questa storia. Secondo te, perché Zaira si sta comportando in questo modo?
Era giunto il momento. Dovevo dire qualcosa.
– Credo di averti già detto tutto quello che so. Zaira è un’eterna indecisa. Non sa quello che vuole, perché non sa riconoscere i propri sentimenti. Non è la prima volta che si comporta in questo modo. Fa parte del suo carattere.
– Cosa mi consigli, Eleonora?
– È piuttosto difficile dispensare consigli, in questi casi. Sei tu che devi valutare. Se ci tieni davvero, allora insisti, vai fino in fondo, altrimenti lascia perdere. Dipende solo da te. Hai già chiaro in mente, credo, che proseguendo su questa strada, potresti ritrovarti in un vicolo cieco. Se hai la forza di affrontarlo, pur sapendo che potresti restarne deluso, allora insisti fino allo sfinimento. D’altra parte, la tua costanza potrebbe essere premiata e riuscire a convincere Zaira a ricambiare i tuoi sentimenti, un giorno o l’altro.
Vittorio mi fissò negli occhi con espressione incerta.
– Mi hai detto che non è la prima volta che si comporta così. Vorresti raccontarmi delle altre volte?
Era giunto il momento. Dovevo parlare.
– È Renato conosce tutta la storia. Io posso dirti soltanto che si chiamava Alessio, era un nostro collega. Ha vissuto su quell’altalena di ritrosie e cedimenti per alcuni mesi, senza venirne mai a capo. Alla fine ha deciso che ne aveva abbastanza e si è trasferito per non vederla più.
– Parlerò con Renato. Ma già da qualche giorno ho in mente che non mi piace questa altalena. È evidente che a Zaira non interesso come mi era sembrato che fosse. Poi lei è tornata a cercarmi. La sua indecisione è spiazzante. A me piacciono i rapporti chiari, senza complicazioni. Mi piace avere a che fare con persone limpide, che ti dicono le cose in faccia, che abbiano le idee chiare. Persone come te.
– Solo tu puoi sapere cosa è meglio per te – mi limitai a commentare, ignorando le sue ultime parole.
– Cosa è meglio per me? Lasciarmi alle spalle questa stupida infatuazione, questo è meglio per me. Se non ti è di peso, Eleonora, ti chiedo un ultimo favore. Vorrei che lo facessi capire a Zaira.
– Farò del mio meglio – lo rassicurai.
– Grazie, sei davvero un’amica – concluse Vittorio.
Sono davvero un’amica. E tu cosa sei? Il cavaliere errante che tutte vogliono e nessuna avrà mai?
– Ti auguro di trovare la persona giusta, un giorno – gli dissi, mossa da un intenso sentimento cui non riuscivo a dare un nome.
– A volte ce l’hai davanti agli occhi e non la riconosci – mi disse, con un mezzo sorriso che non gli raggiunse gli occhi.
– Hai perduto qualcuna che amavi, perché non l’hai capito in tempo?
– Te lo dirò quando avrò la risposta – ribatté, sibillino.
Vittorio e io ci salutammo, quella sera, come se tra noi fosse cambiato qualcosa. O forse ero io che avevo subito una trasformazione. Qualcosa stava crescendo dentro di me e io temevo di lasciarla emergere alla luce del sole.

Affrontai Zaira con un leggero senso di colpa. Dentro di me sapevo perfettamente di aver fatto la cosa giusta, ma una vocina noiosa mi diceva che se non l’avessi fatto, ora non sarei stata costretta a dire a Zaira che lui non voleva più farne niente.
La reazione di Zaira fu sconcertante.
– Te l'avevo detto che è un uomo vuoto. Un uomo che si ferma davanti al primo ostacolo, non merita di entrare nella mia vita. Un uomo, se ama veramente, è disposto a scalare le montagne, a gettarsi nel fuoco, a sopportare qualunque sofferenza. Questa è la prova che stavo cercando. Non è l’uomo adatto a me.
E Alessio? Lui aveva affrontato tutte le sue prove con coraggio e abnegazione. E a cosa gli era servito?
– Scusa se ti sembrerò un po’ indiscreta, ma, posso chiederti cosa aveva Alessio che non andava?
– Cosa c’entra Alessio? – ribatté stupita.
– Non ti comportavi nello stesso modo anche con lui?
– E infatti, con lui avrei ceduto – mi rispose, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
– Ma ci hai messo troppo tempo, vero?
– La costanza non faceva parte del suo carattere.
– Quanto a lungo un uomo deve essere costante, per te?
– Più di quanto non lo sia stato Alessio.
Era esasperante.
– Lo sai che rischi di restare sola per sempre?
– Pazienza. Voglio un uomo vero.
– No, tu vuoi uno zerbino, Zaira. E non credo che ce ne siano molti, in giro.
– Voglio un uomo che dimostri di amarmi veramente, come lo vuole ogni donna.
– Ma non credi che prima di tutto sia importante che lo ami tu?
– Sono disposta ad amare l’uomo che dimostrerà di amarmi.
Chiusi lì la conversazione, perché ritenevo il suo caso disperato. Non potevo aiutarla. Aveva bisogno di una cura psichiatrica.

Vittorio, invece, aveva bisogno di un porta-cd e volle che lo accompagnassi. Ci aggirammo tra i mobili dell’Ikea come una coppia in cerca dell’arredamento giusto per il proprio nido. Guardammo tutto, dai divani alle sedie, osservando i prezzi, esprimendo commenti sulla qualità, manifestando le nostre preferenze, proprio come se ce ne fregasse qualcosa. Fu divertente. Alla fine trovammo quello che ci serviva e ci avviammo alle casse, rimanendo in coda per un’eternità.
– Mi piace fare shopping con te – affermò Vittorio, mentre aspettavamo di pagare.
– Grazie, nessuno me l'aveva mai detto prima – risposi, ridendo.
Anche a me piaceva la sua compagnia. Sperai che la nostra amicizia potesse durare, anche ora che non c’era più la scusa di Zaira. 

Iniziò la campagna abbonamenti per la stagione teatrale, a cui tenevo molto, con un’occasione imperdibile: uno sconto del quindici per cento per chi avesse presentato cinque adesioni. Mi diedi da fare per acquisire iscrizioni nel mio ufficio e il primo a darmi il suo appoggio fu proprio Vittorio. Il suo entusiasmo contagiò Agnese, Lorenzo e Renato. Non avevo idea che anche a loro piacesse il teatro.
Da principio iniziammo a vederci di venerdì sera soltanto per andare agli spettacoli, poi decidemmo di andare a cena fuori. Sulla scia del teatro vennero anche il cinema e i concerti, e dopo qualche mese, tutte le scuse erano buone per uscire la sera, nei fine settimana. Eravamo un bel gruppetto compatto. Ci divertivamo. Una sera tentammo anche la discoteca, ma l’unico a uscirne indenne fu Lorenzo.
Quel periodo permise a Vittorio e me di conoscerci sempre meglio e di scoprire le mille cose che avevamo in comune. La nostra amicizia si rinsaldò ancor di più, finché non fummo tanto uniti da costringermi a chiedermi se, oltre l’amicizia, non ci fosse qualcosa di più. Non sapevo darmi una risposta. O meglio, potevo rispondere per me, ma non per lui. E questo mi stava togliendo il sonno. Mi lanciava a volte frasi che potevano essere fraintese, complimenti velati, oscuri messaggi che potevano essere intesi in vario modo, come dichiarazioni di amicizia o tentativi di corteggiamento.
La primavera giunse così in fretta che non mi ero accorta dell’inverno. Era una primavera di quelle che promettono estati calde e piene. Gli alberi si riempirono di foglie verdi, da un giorno all’altro. I prati si coprirono di fiori, gli insetti tornarono a ronzare. Mi sentivo bene. Però non dormivo.
Vittorio mi vedeva stanca e, da buon capo, mi propose qualche giorno di vacanza.
– Grazie per l’offerta, ma sto bene.
– Eppure hai un’aria stanca – obiettò, preoccupato.
– Sarà perché soffro di una lieve insonnia.
– Posso restituirti Guerra e Pace, con me ha fatto miracoli – mi propose, ridendo.
Ero certa che il miracolo fosse dovuto al fatto che aveva chiuso la storia con Zaira, ma non glielo dissi.
Era disteso sul mio divano, con un braccio piegato sotto la testa. Per qualche attimo il suo sguardo vagò per il soffitto, come in cerca di ispirazione, poi mi osservò attentamente e mi chiese:
– Perché non dormi?
– Non lo so.
– Invece devi saperlo. Hai un problema, una preoccupazione, un dubbio che ti toglie la tranquillità?
– No – risposi, sapendo di mentire.
– Confessati con il tuo amico del cuore – mi invitò.
– Perché, hai un cuore anche tu? – chiesi, ridendo.
– Vuoi vederlo? – disse, aprendosi la camicia.
– No, grazie. – mi difesi, coprendomi gli occhi con le mani.
– Ehi, non sono così brutto, sai? Faccio anch’io la mia sporca figura.
Lo sapevo benissimo, ma non potevo sopportare di avere un uomo seminudo sul divano e continuare a fingere che fosse solo un amico.
Mi alzai per andare a fare il caffè. Lui mi seguì in cucina e mi aiutò a prendere il barattolo del caffè e le tazzine. Ormai conosceva ogni angolo di quella casa, per tutte le volte che era venuto, senza preavviso.
– Anche tu fai la tua bella figura – mi disse, ignorando che avevo tentato di cambiare argomento.
– Ho trovato una nuova miscela, dimmi se ti piace. Ha un vago aroma di cioccolato.
– Non sarà il caffè che t'impedisce di dormire? – sospettò.
– O forse è il pensiero di Roberto che si rotola nel letto con Delia…
– Cosa?
– È per Delia che Roberto mi ha lasciata – spiegai.
– Non me lo avevi detto.
– Perché preferisco non pensarci.
Vittorio mi abbracciò e mi cullò per un poco, come si fa con i bambini, per consolarli.
– Mi dispiace. Mi dispiace tanto, bambina – mi disse.
– Non è colpa tua.
– Avrei dovuto capire che c’era qualcosa che ti turbava. Che amico sono? Tu mi hai aiutato tanto, e io non sono stato capace di capire che avevi bisogno di me.
– Non ho bisogno di niente, rassicurati. Devo solo dimenticare. Prendiamoci il caffè, prima che si freddi.
– Nora, non ti sembra giunta l’ora di voltare pagina e iniziare un nuovo capitolo? – mi disse, mentre posava la tazzina vuota nel lavello.
– Ci penserò – gli promisi.
– Non metterci troppo, la vita è breve – mi raccomandò, divenuto triste di colpo.

Dopo una paio di settimane, Vittorio sparì. Stranamente non avvertì nessuno. Devo confessare che ci rimasi male. Mi era parso che la nostra amicizia fosse giunta a un punto tale che avrebbe richiesto almeno un saluto. Non pretendevo che mi facesse un resoconto preciso della sua meta, però avrebbe potuto almeno avvisarmi che andava in ferie e annunciarmi quando sarebbe tornato.
Un pomeriggio di quella settimana, Renato e io decidemmo che saremmo andati al cinema. Usciti dall’ufficio, ce ne andammo a zonzo in attesa dell’ora di cena. Avremmo mangiato qualcosa e poi saremmo andati a vedere un film, la cui uscita aspettavamo da tempo.
Mentre guardavamo le vetrine del Corso, all’improvviso, vidi Vittorio sbucare da un fioraio con un enorme mazzo di fiori in mano. Andava di fretta e non ci notò neppure. Renato e io ci guardammo in faccia e ci venne istintivo seguirlo. Non so perché, ma eravamo curiosi entrambi. Vittorio svoltò in una traversa e quando riuscimmo a vederlo di nuovo, stava entrando in macchina. Lo vedemmo andar via a velocità sostenuta.
– Forse sta andando a trovare la sua amica – suppose Renato.
– Quale amica?
– Quella che va a trovare tutti i giorni.
Non sapevo nulla di nessuna amica, ma ricollegai quella notizia al fatto che Vittorio, uscendo dall’ufficio, si dirigeva sempre in direzione opposta al suo appartamento, cosa che Zaira mi aveva fatto notare.
– Da quello che ho potuto capire, sta molto male – aggiunse Renato, riferendosi all’amica di Vittorio.
– Non ne so assolutamente nulla.
Nonostante la nostra amicizia, c’erano molte cose di cui Vittorio mi aveva tenuta all’oscuro. Che fosse una persona molto riservata, già lo sapevo, ma questo modo di fare, in un certo senso, mi offendeva. Era come se non si fidasse di me. Lasciai correre, per non coinvolgere anche Renato nei miei foschi pensieri ed evitare di rovinargli la serata.
Il giorno seguente lo cercai al telefono. Non ottenni nessuna risposta. Il tarlo della curiosità, però, era stato messo in moto e non riuscivo a fermarmi. Andai fin sotto casa sua e vidi le finestre del suo appartamento illuminate. Ne dedussi che doveva essere in casa e mi decisi a salire. Avendolo fatto tante volte anche lui, con me, non ritenevo di essere invadente, benché qualche dubbio aleggiasse nella mia mente. Quando raggiunsi la sua porta, bussai, ma non ottenni risposta. Riprovai. Niente. Stavo dunque per arrendermi, quando sentii un movimento dietro la porta e Vittorio mi aprì.
– Ciao, straniero – lo salutai, sorridendo. – Ti disturbo?
– No, entra – mi rispose, con un sorriso appena accennato. Aveva profonde occhiaie e la barba lunga.
– Non stai bene? – gli chiesi.
– Non molto. Ho avuto giorni migliori – si limitò a rispondere.
– Posso esserti d’aiuto? – mi proposi, per giustificare la mia presenza in casa sua.
– Ti ringrazio, ma tu non puoi fare niente. Mi passerà.
– Non vuoi dirmi di che si tratta? – lo incalzai.
– Non ora. Non me la sento, scusami. Poi ti spiegherò.
All’improvviso mi sentii un’intrusa. La mia visita era decisamente inopportuna. Capivo che voleva restare da solo e accennai ad andarmene. Lui mi accompagnò alla porta e si voltò, vedendo entrare nella stanza qualcuno. Anch’io mi voltai verso il nuovo arrivato. Ci guardammo e restai di sasso.
– Sei proprio tu? – mi chiese lui.
– Ciao, Luca. Non sei cambiato affatto.
– Neanche tu, Nora. Anzi, che dico, sei persino migliorata.
– Vi conoscete? – chiese Vittorio, stupito.
– Sì, molto tempo fa eravamo amici – gli rispose Luca.
– Lui è mio fratello – mi comunicò Vittorio.
Ecco perché gli somigliava tanto!
– Bene, adesso devo proprio andare – affermai, sempre più imbarazzata.
– Mi farò vivo appena possibile – mi disse Vittorio.
– Ciao, Principessa – mi salutò Luca.
Principessa, mi chiamava. Me n’ero del tutto dimenticata.
Scesi le scale come un automa, con un tumulto di pensieri nella testa e un enorme subbuglio nel cuore. Non ci potevo credere. Come avevo fatto a ignorare l’evidenza? Sin dal primo istante in cui avevo visto Vittorio, avevo subito intuito la somiglianza e, quando avevo conosciuto il suo nome, avevo creduto si trattasse di semplice coincidenza. Sciocca. Mi sarebbe stato sufficiente fare due più due, semplicemente.
Luca che riemergeva dal mio passato era più di quanto potessi sopportare. Non volevo pensarci. Volevo solo metterci una pietra sopra e tornare alla mia solita vita. Nient’altro. Speravo tanto che me lo avrebbero permesso, ma non ci avrei scommesso.
Tentai di tutto, per togliermelo dalla testa, ma il pensiero correva sempre a lui. Luca era stato il mio tarlo nel cuore per un paio d’anni e avevo fatto un’incredibile fatica a dimenticarlo. Per l’esattezza, non lo avevo dimenticato affatto, ma mi ero rassegnata a tenerlo in un angolino buio della mia memoria, tra le cose del passato che non si possono cambiare. Stanno lì e basta, fanno parte di noi, anche se non lo vogliamo. Ritrovarmelo davanti era stato un duro colpo. Erano trascorsi dieci anni, ma mi sembrava che fosse solo ieri. Inoltre, non potevo accusare nessuno del mio dolore, avendo fatto tutto da sola. Avevo respinto Luca per ripicca. Ci può essere una ragione più stupida? Luca lo avrebbe raccontato a Vittorio? Quale sarebbe stata la sua reazione? Ma perché, in fondo, avrebbero dovuto parlarne? Non ero così importante, né per Luca, né per Vittorio. Avevano sicuramente altri pensieri. Non avevo mai visto Vittorio in quelle condizioni, e la presenza di Luca in casa del fratello non faceva che confermare che la situazione era delicata. Probabilmente avevano problemi di famiglia.

Mi arrovellai a vuoto per qualche giorno, senza più osare farmi viva con Vittorio, finché il sabato sera non fu lui a chiamarmi. Ero rimasta in casa perché il mio umore era pessimo e non volevo contagiare gli altri, che erano andati a mangiare fuori.
Vittorio mi chiese se avevo voglia di fare una passeggiata con lui e io accettai. Ci incontrammo vicino al parco dietro casa mia. Si era rasato e aveva un aspetto decisamente migliore dell’ultima volta che l’avevo visto. Non potei trattenermi dal manifestarglielo.
– Lo spero bene – commentò.
Non sapevo cosa dirgli, come se non ci conoscessimo. Mi sentivo tutta chiusa in me stessa, sulla difensiva, un po’ come doveva sentirsi Zaira, quando si chiudeva a riccio. Non avevo mai pensato di essere timida e la mia reazione mi stupiva. Aspettavo che Vittorio mi dicesse qualcosa, se ne aveva voglia, ma ero disposta anche a passeggiare in silenzio per tutta la sera, se questo per lui andava bene. Camminammo senza meta per qualche minuto, prima che si decidesse a rivolgermi di nuovo la parola.
– Luca mi ha parlato di voi, della vostra vecchia storia andata storta.
– È stato un secolo fa – commentai. Non avevo alcuna voglia di parlarne.
– Gli piacevi molto.
– Non lo dimostrava – ribattei, pentendomene subito dopo.
– Qual è la tua versione dei fatti? – mi chiese Vittorio, incuriosito.
– Ti interessa davvero? – gli chiesi, a mia volta.
– Sì. Vorrei capire.
– È semplice. Io ero innamorata e lui no. Si è messo con tutte le mie amiche, prima di arrivare ad accorgersi che esistevo. E quando l’ho respinto, non ha fatto una piega. Non l’ho più rivisto, semplicemente.
– Eri innamorata di lui e gli hai detto di no? – disse, stupito.
– Esatto.
– Ma perché?
– Perché per lui era solo un gioco, era evidente. Se fosse stato altrimenti, avrebbe insistito, sarebbe tornato alla carica, avrebbe almeno tentato di restarmi intorno, come amico. Ma così non è stato: è sparito e basta.
– E tu te ne sei pentita?
– No, in fondo no. Ho fatto bene – affermai, mettendoci tutta la convinzione di cui ero capace, proprio perché consapevole di mentire.
– Sono d’accordo con te. Mio fratello non è mai stato un tipo fedele.
Confermato da lui, non c’era che da credergli. La sua affermazione avrebbe cancellato completamente i miei sensi di colpa?
– Che coincidenza, che vi siate rivisti a casa mia – aggiunse.
– Già.
– Mi sono sempre chiesto se le coincidenze esistano davvero o se siano chiari segni del destino, piccoli campanelli d’allarme che tintinnano lungo il nostro cammino, per dirci “fai attenzione! questa persona o questa cosa sono importanti”.
– Anche a me è capitato di chiedermelo, ma non c'è davvero una risposta.
– Come per mille altre cose nella vita. Ci sono situazioni che, per quanto le studi e ci ragioni sopra, restano senza senso.
– Ti riferisci a qualcosa in particolare, vero?
Vittorio sembrò rifletterci sopra, poi accese una sigaretta e decise di raccontarmi la sua storia.
– Avevo una ragazza che amavo molto e che un giorno mi ha lasciato. Ma c’era qualcosa nel suo atteggiamento che non mi convinceva. Non riuscivo a rassegnarmi, capisci? Non potevo credere che da un giorno all’altro avesse smesso di amarmi. Nonostante la sua insistenza, io mi rifiutai di sparire. Poi ho scoperto ciò che tentava di tenermi nascosto: si era ammalata. Da principio sembrava che ci fosse qualche speranza, ma, dopo un paio di anni, i medici si arresero e le annunciarono che aveva i giorni contati. Se n’è andata martedì. Ormai ero preparato, e anche rassegnato, mi sembrava, ma è stato ugualmente un brutto colpo. Ero rimasto legato a lei nonostante la sua disapprovazione. Ogni giorno andavo a trovarla e lei mi trattava male, ma era diventato come un gioco. Lei mi cacciava via e io tornavo sempre. Aveva espresso il desiderio di conoscere la mia nuova ragazza, ma non ho potuto accogliere la sua richiesta. Non riuscivo a sentirmi libero dentro, per cercare un’altra. Forse adesso, cercherò di riempire questo vuoto.
– Mi dispiace molto, Vittorio, davvero.
– Lo so. Non c’è bisogno che pianga anche tu – mi disse, asciugandomi una lacrima che mi era scivolata sulla guancia, senza che me ne accorgessi. La sua storia mi aveva commosso.
Mi abbracciò per un attimo e poi si allontanò velocemente da me, come se si fosse scottato.
– Non era mia intenzione deprimerti. Parliamo di cose allegre. – decise.
Ma per quanto ci sforzassimo, quella sera, non riuscimmo a trovare alcun motivo di allegria. Ci sono giorni così.

Giunse l’estate. La nostra amicizia marciava a passi cadenzati, qualche volta diveniva un ballo, un po’ valzer e un po’ tango, ma restava sempre entro certi limiti. Perché? Perché non riuscivamo a fare un salto di qualità? Eppure ci eravamo vicini così. A volte sembrava che fossimo già una coppia, che fosse superfluo parlarne, altre volte eravamo distanti, contrastati da un ostacolo quasi fisico che ci impediva di raggiungerci: tendevamo le braccia l’uno verso l’altro, ma non riuscivamo a toccarci, come se una lastra di vetro si estendesse tra noi. Parlando, ci capitava di inoltrarci in abissi di dolore oppure di esaltarci verso le cime della gioia; passavamo interi giorni insieme e poi ci prendevamo lunghe pause di riflessione, in cui ci tenevamo a debita distanza.

Un mattino, Luca si presentò in ufficio. Per la cronaca, aveva un pacchetto da consegnare a Vittorio, che, giusto quella mattina, era assente per una riunione degli alti vertici.
Senza tante cerimonie, gli consigliai di lasciarlo nel suo ufficio, limitandomi ad accompagnarcelo.
Lui si sedette alla scrivania, aprì un cassetto e vi pose l’involto. Aspettavo che si alzasse e uscisse, ma non dava segno di volersene andare, anzi, mi pregò di sedermi un minuto. Disse che gli aveva fatto piacere ritrovarmi e che se a me stava bene, avremmo potuto uscire insieme, qualche volta. Non mi dette il tempo di trovare il modo di rifiutare la sua offerta senza offenderlo, che subito aggiunse:
– Sei felice, Principessa?
– Che domanda è, alle nove di lunedì?
– Solo una semplice domanda.
– Non ne hai una di riserva? – gli chiesi, preferendo non rispondere, ma tentando di buttarla sullo scherzo.
– Cosa c’è tra te e Vittorio?
– Era migliore la prima. – commentai, rifiutandomi ancora di rispondere.
Lorenzo, come mandato dal cielo, entrò in quel momento nell’acquario, per chiedermi se potevo controllare alcuni dati con lui e io ne approfittai per chiudere quella imbarazzante conversazione con Luca, il quale mi minacciò di proseguirla in un altro momento.
“Spero proprio di no.” pensai.
Quando Vittorio giunse in ufficio, poco prima dell’ora di pranzo, gli riferii che Luca gli aveva lasciato quel pacchetto. Lui apprese la notizia con una leggera smorfia di disapprovazione.
– Sapeva che non ci sarei stato – gli sfuggì.
Quindi perché era venuto proprio allora? Appositamente per parlarmi da solo? Cosa sperava di ottenere? Aveva forse davvero intenzione di intrufolarsi di nuovo nella mia vita?  Quel pensiero mi metteva in agitazione.
Nella pausa pranzo, Vittorio mi chiese di che cosa avevamo parlato, Luca e io.
– Di nulla, stavo lavorando – gli spiegai.
– Bene – commentò.
Intuii che forse temeva qualcosa, ma che cosa?
– Mio fratello e io abbiamo divergenze d’opinioni. Ciascuno di noi vede le cose in modo opposto. Sono convinto che non andremo mai d’accordo.
– Forse, col tempo, con la maturità – tentai di consolarlo – vi avvicinerete.
– Non credo – affermò, con l’aria di voler seppellire definitivamente l’argomento.
Io non avevo altro da dire, a quel proposito. Luca per me era morto molto tempo prima. Vittorio mantenne la sua espressione preoccupata.
– C’è qualcosa che ti turba? – mi sentii costretta a chiedergli.
– Sono così trasparente?
– No, è solo quella piccola ruga che continua a stazionare tra le sopraciglia.
– Già. Mi domandavo cosa vuole da te.
Me lo chiesi anch’io.

Luca non perse tempo. Quella sera stessa bussò alla mia porta, tenendo una rosa rossa davanti al viso a nascondere il suo sorriso inquietante. Me la porse e mi posò un bacio sulla guancia.
– Posso entrare, Principessa?
– Accomodati – dissi, spostandomi per lasciarlo passare.
Una volta seduto sul divano, si guardò intorno con interesse, poi mi sorrise.
– Di tutte le cose strane della vita, la più incredibile è stata quella di incontrarti a casa di mio fratello.
– Immagino.
– Siete molto amici, vero? – mi chiese, sempre con quel sorrisetto.
– Sì, siamo amici – risposi, chiedendomi dove volesse arrivare.
– Anche io e te eravamo amici.
– Già.
– Vorrei che tornassimo come eravamo.
Avevamo vent’anni. Io ero molto ingenua, per quell’età. Adesso le cose sarebbero differenti, pensai. Come leggendomi nel pensiero, lui continuò:
– Siamo entrambi più maturi, più impegnati. Sarebbe molto differente da allora, ma partiamo avvantaggiati dal fatto di conoscerci già.
– Non c’è dubbio. Posso offrirti un caffè?
– Con piacere.
Non sapevo cosa fare. Non avrei voluto mai più avere a che fare con lui, ma nello stesso tempo mi sembrava assurdo rifiutare la sua amicizia. Che male poteva farmi ancora? Questa volta ero sveglia, corazzata, e soprattutto non mi nutrivo più di sciocche illusioni. Potevo accettare senza problemi. Almeno, così credevo in quel momento. Nonostante tutti i miei dubbi, trascorremmo una serata piacevole.

Mi accorsi ben presto che Luca era cambiato. Me lo ricordavo superficiale  e insensibile, invece era più attento e disponibile e si interessava davvero alle persone che aveva intorno. Quando gli dicevo qualcosa mi stava a sentire e questo, più di tutto, mi stupiva, poiché riusciva a comprendermi anche quando tentavo di nascondergli qualcosa. Leggeva attraverso le righe, intuiva i miei stati d’animo e si comportava di conseguenza. Non lo avrei mai creduto possibile. Tornammo amici senza che me ne accorgessi e mise in ombra l’amicizia che mi legava a Vittorio. Da parte sua, Vittorio aveva malvisto, sin dal primo istante, questo “ritorno di fiamma”, come lo chiamava. Mi stuzzicava con battutine feroci, spesso mi parlava male del fratello, costringendomi, ben presto, a evitare l’argomento. Erano inconciliabili. Ciascuno dei due preferiva non sapere nulla dell’altro. Praticamente mi trovai in mezzo a due fuochi. Vittorio sembrava fare un passo indietro per ogni passo avanti che compiva Luca. Questa situazione mi innervosiva da matti, ma non sapevo come uscirne.
Intanto arrivò agosto e fui io a togliermi di mezzo, afferrando al volo l’occasione di un viaggio scontatissimo in Marocco.
La vacanza mi aiutò a rilassarmi e a guardare la situazione dall’alto e da ogni altra possibile angolazione. Il risultato di questa analisi fu che mi ero messa davvero in una situazione imbarazzante. Da quando frequentavo Luca, Vittorio si era tirato indietro, man mano, a piccoli passi di gambero. Al contrario, Luca, aveva iniziato a farmi una corte discreta, della quale mi ero resa conto a malapena. Se volevo mantenere l’amicizia di entrambi, avrei dovuto chiarire la situazione.
Cosa voleva veramente Vittorio da me? E cosa voleva  Luca? Al mio ritorno avrei dovuto tentare di scoprirlo. E poi dovevo soprattutto capire cosa volevo io da loro.
Dei miei vecchi sentimenti per Luca non era rimasto in piedi nulla. Se nutrivo per lui dei sentimenti, questi erano del tutto recenti e scaturivano dalla sua nuova personalità. Con lui mi sentivo protetta, compresa, sostenuta. Per Vittorio avevo immediatamente provato affetto, empatia, senso di protezione e di sostegno. Ma non mi sentivo ricambiata. A ben guardare le cose, Luca mi offriva il suo affetto, quasi senza nulla in cambio; Vittorio accettava il mio, senza ricambiare in egual misura.
Questa indagine mi impegnò per il resto della vacanza, e mi portò a dedurne che non sapevo assolutamente nulla.
Tornai a casa più confusa di prima.
Entrambi erano partiti e, come di comune accordo, non si fecero vivi fino al loro ritorno. In compenso, mi giunse una cartolina da Vittorio, che “si sentiva solo” nell’affollatissima Riccione, e una breve lettera di Luca, che mi stupì molto, perché nessuno più mi scriveva lettere dall’avvento della posta elettronica. In poche righe si augurava che avessi trascorso una bella vacanza e che mi fossi chiarita le idee. Mi domandai come facesse a sapere che avevo le idee confuse, visto che mi ero ben guardata dal confessarglielo. Anzi, avevo decisamente finto di non avere alcun problema al mondo. Mi ero sempre dimostrata spensierata e più superficiale possibile. Cosa ne poteva sapere dei miei dubbi, delle mie incertezze e dei miei sentimenti?
Al suo ritorno, Vittorio venne a trovarmi, in gran forma, abbronzato e più allegro di quanto non lo avessi mai visto. Sembrava rilassato e sereno, come rinato.
– Ho dormito dodici ore al giorno – mi confessò.
– È una cura miracolosa! Non ti ho mai visto così in forma.
– Mi conosci da poco tempo. Comunque, mi sento davvero bene, adesso.
– Ne sono felice.
– E tu? Tutto bene? Ti sei già rituffata nel lavoro senza risparmio di energie?
– Tutto fila liscio – confermai.
– Bene. Da domani si ricomincia.
Mi guardò negli occhi e mi sorrise, con quel certo sorriso che gli avevo visto solo all’inizio della nostra amicizia, quello che mi faceva leggermente tremare lo stomaco.
– Ti ha fatto bene il Marocco. Sei bellissima. Quelle perline nelle treccine sono un look di importazione?
– Sono un pedaggio obbligatorio, in Africa, non lo sapevi?
– E quanto durano?
– Non lo so. Al primo crollo, le scioglierò tutte.
– Peccato. Stai proprio bene.
Dopo esserci scambiati tutti i complimenti possibili, decidemmo di cenare insieme al Faro.
Fu una serata molto piacevole, durante la quale Vittorio mi annunciò che aveva intenzione di dare finalmente una svolta alla sua vita.
Desideravo e temevo argomenti del genere. Non volevo sapere. Non volevo far progetti, non volevo guardare verso il futuro, speravo solo di poter vivere l’attimo presente senza problemi. Mi sembrava di accontentarmi di poco.
Alla fine della cena mi chiese se volevo andare a prendere un caffè a casa sua. Non rifiutai. L’unica volta che ero andata a trovarlo, ci avevo incontrato Luca.
La porta d’ingresso immetteva direttamente nel soggiorno. Di là si passava a un corridoio d’accesso a due camere e servizi. 
Vittorio fece davvero il caffè, poi accese lo stereo e si venne a sedere accanto a me, sul divano.
– Allora – mi chiese – come va la tua vita sentimentale?
Che cosa voleva sapere, in realtà?
– Come al solito – risposi, senza offrirgli alcun appiglio.
– Il tuo cuoricino è sempre libero?
– Non ho trovato l’amore in Marocco, se è quello che vuoi sapere.
Vittorio rise.
– E tu? A Riccione hai fatto conquiste?
– Niente di che – mi informò.
– Bene, allora non è cambiato niente per nessuno di noi.
Cambiammo argomento molto rapidamente. Si era trattato solo di confermare le coordinate, per essere certi della nostra attuale posizione? Eravamo come animali che si studiano?
Eravamo così vicini che avrei potuto muovere la mano di pochi centimetri per sfiorare la sua, ma non lo feci. E neanche lui. Quella sera compresi che per Vittorio ero davvero soltanto un’amica.
Con Luca mi rividi di lì a due giorni. Era una giornata splendida, calda, ma priva di umidità. Anche lui era tornato decisamente abbronzato e in forma. Era allegro e pieno di cose da raccontarmi. Lo ascoltai senza mai interromperlo, finchè non notai che un nome veniva ripetuto più spesso degli altri, quello di una certa Angela. Avevo l’impressione che i suoi occhi assumessero un’espressione più calda, quando la nominava e alla fine non riuscii a resistere.
– Angela è la tua ragazza? – lo interruppi.
– Perché me lo chiedi? – mi interrogò, con un sorrisetto ironico e malizioso.
Mi morsi la lingua. Perché lo avevo detto? Adesso avrebbe pensato che fossi gelosa di lui.
– Curiosità femminile. La nomini piuttosto spesso.
– Non più degli altri. Siamo un gruppetto molto affiatato – mi spiegò, senza elargirmi altri particolari.
Poi terminò di raccontarmi le sue scorribande in Spagna.
Mi venne da pensare che non potevo competere con i suoi amici, che non sarei mai stata abbastanza interessante per lui e che tutto sommato neanche per lui ero qualcosa di diverso da una semplice amica.
Tutti i miei dubbi erano scomparsi. Non interessavo a nessuno dei due fratelli. All’improvviso mi resi conto che dovevo esplorare finalmente nuove possibilità. Dovevo conoscere qualcuno, dovevo vivere, innamorarmi, dare una svolta alla mia vita. Ero sola da troppo tempo e il tempo era l’unica cosa che mi mancava. Stavo diventando una vecchia zitella. Orrore!

Quando arrivò la svolta, la riconobbi subito. Si chiamava Filippo e giunse nel nostro ufficio il primo giorno di settembre. Era un uomo affascinante, trentatreenne e single. Esattamente quello che avevo desiderato. Forse anche lui era in cerca dell’anima gemella, non lo so. So solo che dal momento che i nostri sguardi si incrociarono e le nostre mani si strinsero, una specie di scossa elettrica mi percorse dalla punta dei piedi alla cima del cranio. Quello era il colpo di fulmine? Mi persi nei suoi occhi dorati e mi confusi la vista nel suo sorriso abbagliante. Le nostre finte durarono tre giorni, poi l’attrazione fisica fece il resto. Il quattro di settembre ci saltammo addosso senza ritegno, dietro la porta dell’archivio.
– Dove sei stata in tutto questo tempo? – mi chiese, quando ebbe ripreso fiato.
– Ero qui. E tu dov’eri?
– Al quinto piano – rispose.
– Così lontano?
Per altri dieci minuti lasciammo da parte la conversazione, finchè il telefono squillò. Era Vittorio.
– Cosa stai combinando là sotto, con Filippo? – mi chiese.
– Stiamo mettendo in ordine alcune pratiche – gli risposi, con un leggero senso di colpa.
– Beh, torna su, ho bisogno di te.
Quando rientrai in ufficio, con Filippo alle calcagna, carico di pacchetti di cartoleria, Vittorio mi fece un cenno imperioso di precipitarmi da lui.
– Che c’è? È scoppiata la guerra? – gli chiesi, entrando nell’acquario.
– C’è Luca al telefono. Vuole parlarti – mi disse freddamente, mostrandomi la cornetta appoggiata alla scrivania.
– Pronto, Luca?
– Ti fai desiderare… Dove ti eri cacciata?
– Ero in archivio. Cosa c’è?
– Sei libera stasera? Vorrei mostrarti una cosa.
– Veramente, non lo so. Ho in ballo un mezzo impegno, ma devo avere una conferma.
– Annulla tutto. Vieni con me – mi disse, perentoriamente.
– Ti farò sapere – mi limitai a promettergli, chiudendo la comunicazione.
– Grazie – dissi a Vittorio, allontanandomi.
Vittorio mi bloccò a un passo dalla porta.
– C’è qualcosa di cui vorresti parlarmi? – mi chiese, senza riferirsi a nulla in particolare.
– No, tutto fila liscio – risposi, riferendomi al lavoro.
– Bene – commentò, lasciandomi andare.
Filippo lavorò per tutto il tempo con un occhio alla mia scrivania. Ogni tanto i nostri sguardi si incrociavano e le nostre labbra si sorridevano. Vittorio, dal vetro del suo acquario, ci lanciava sguardi che mi sembrarono sempre più allarmati.
Luca non aspettò che richiamassi, quel pomeriggio. Aveva fretta di sapere cosa avevo deciso. E io avevo deciso di strofinarmi ancora un po’ contro Filippo.
– Si può sapere che impegno improrogabile hai preso? – mi chiese Luca.
– Esco con il mio ragazzo – mi decisi a confessare.
Dall’altra parte della linea calò il silenzio.
– Luca, ci sei?
– Sì… sì, stavo metabolizzando la notizia. E da quando hai un ragazzo?
– Da oggi – ammisi.
– E chi sarebbe?
– Filippo. È un nuovo collega d’ufficio. Vuoi sapere altro?
– No. Pensavo ti riferissi a Vittorio.
– Vittorio? Cosa c’entra Vittorio? Siamo solo amici, lo sai.
– Sì, solo amici, lo so.
La serata con Filippo fu uno scoppiettante susseguirsi di fuochi artificiali. Non parlammo quasi di nulla: eravamo troppo impegnati in altre attività.

La settimana seguente Vittorio mi trovò un’infinità di lavoro da svolgere con lui. Richiedeva la mia presenza con ogni scusa possibile. Sembrava che all’improvviso fossi diventata la sua insostituibile collaboratrice. Non poteva fare a meno di me. Filippo iniziò a innervosirsi e dovetti spiegargli che Vittorio e io eravamo molto amici. Questo non lo calmò affatto: era geloso. Mi venne il sospetto che anche Vittorio fosse geloso di Filippo e perciò evitava che potessimo entrare in contatto. Da parte sua, Luca iniziò a chiamarmi tutti i giorni, per sapere come proseguiva la mia relazione. Cosa stava succedendo?
Il venerdì sera Vittorio mi disse:
– Mi manchi.
– Ma se stiamo sempre insieme! – obiettai.
– Non dicevo sul lavoro, intendevo nella vita privata. Ti sento lontana.
– Cosa vuoi da me, Vittorio? – gli chiesi, occultando accuratamente la mia esasperazione.
Mi guardò intensamente per un paio di secondi, inoltrandosi attraverso di me e facendomi sentire nuda e scoperta e poi mollò la presa, si rimise gli occhiali e tornò a controllare i conti, lasciandomi senza risposta. Deglutii a vuoto per un paio di volte, poi mi rituffai nel lavoro anch’io, sentendomi fortemente a disagio.

Luca mi venne a trovare senza annunciarsi. Mi trovò in fase di preparazione, in accappatoio e con un asciugamano in testa.
– Che ci fai qui? – gli chiesi, con la forte tentazione di sbattergli la porta in faccia.
– Volevo vedere come stavi.
– Sto benissimo, e sono in ritardo.
– Esci con Filippo?
– Esatto.
– E non hai più tempo per i tuoi amici? Devi imparare a gestire le giornate, sai, altrimenti sarai abbandonata da tutti. Io lo so, ci sono passato.
– Davvero? E quando? – gli chiesi, con espressione ironica.
– Un po’ di tempo fa – rispose, tranquillamente. – Dai, tieniti qualche serata libera per me. Mi manchi.
Anche Luca? Erano davvero impazziti tutti? Perché non mi lasciavano un po’ in pace? Non avevo il diritto di vivere la mia storia come desideravo?
Lo lasciai da solo in soggiorno e mi andai a vestire. Quando lo raggiunsi di nuovo, stava sfogliando una rivista.
– Allora, quando ci vediamo? – mi chiese, senza mollare.
– Ti va bene domenica? – gli proposi, rassegnata.
– Vada per domenica, ma staremo insieme tutto il giorno – affermò, come se fosse una punizione che mi ero meritata.
– Benissimo. Adesso devo andare – lo incalzai, spingendolo verso la porta.
Filippo e io ci lasciammo alle spalle ogni ricordo del mondo esterno e ci concentrammo unicamente sui nostri corpi. Non riuscivamo a stare vicini senza toccarci. Mi accorsi che, nonostante ci vedessimo ormai da quasi un mese, non ci conoscevamo. Non parlavamo quasi mai e, se lo facevamo, i nostri discorsi erano puerili e superficiali. Era come se non volessimo azzardare. Se qualcosa di noi non ci fosse piaciuto, avremmo rischiato di spegnere l’entusiasmo che i nostri corpi provavano l’uno per l’altro. Era una passione come non avevo mai incontrato. Inciampare in Filippo in quel momento della mia vita era stato un gran colpo di fortuna, ma ben presto mi resi conto che la nostra relazione era vuota. Il sesso era una cosa magnifica, ma quello non era amore, era solo attrazione, e avevo l’impressione che non mi avrebbe portato da nessuna parte.
Luca se ne accorse prima di me, ma quando mi avvisò del pericolo, io non solo non gli credetti, ma pensai che ne fosse geloso.
A Vittorio non avevo confidato nulla della mia relazione. Non so perché. Temevo qualcosa, ma vagamente. Un giorno mi chiese:
– Allora, come va la tua vita sentimentale?
– Bene, ho trovato qualcuno.
Vittorio non fece una piega. Compresi che doveva esserne già stato informato.
– Sono felice per te. È qualcuno che conosco?
– Filippo.
Lo sguardo di Vittorio si posò su Filippo, al di là dal vetro e ci restò per qualche secondo. Poi tornò a concentrarsi su di me.
– Allora è vero –  commentò, con un tono leggermente afflitto.
– Te l’ha detto Luca? – gli chiesi, sentendomi in colpa.
– Sì. A quanto pare ti confidi più con lui che con me. Perché? Ti ho fatto qualcosa che ti è dispiaciuto?
– Non mi hai fatto proprio niente.
– Beh, sono felice per te. Ti auguro di aver trovato davvero la persona giusta.
Poi cambiò argomento in tutta fretta.

Il primo di ottobre Filippo fu di nuovo trasferito al quinto piano. Nelle alte sfere avevano deciso che la sua prova era fallita e l'avevano rimandato da dove era venuto. Dissero che in quel settore era più produttivo. Mi convinsi che lo spostamento di Filippo era opera di Vittorio, ma non ne ebbi conferma.
Comunque Vittorio si rilassò e non ebbe più tanto bisogno della mia stretta collaborazione. In compenso iniziò a chiamarmi sempre più spesso la sera. Mi trovava in casa dal lunedì al giovedì, perché con Filippo mi vedevo nel fine settimana.
Quando iniziò la stagione teatrale, mi coinvolsero di nuovo nelle uscite di gruppo, cui si unirono Luca e Filippo.
Vittorio e Luca, come di comune accordo, lasciarono da parte le loro divergenze e parvero uniti e determinati nel trattare Filippo con la maggior freddezza possibile.
– Ai tuoi amici risulto antipatico – ne dedusse Filippo, un giorno.
– Non credo che ne abbiano motivo. In un certo senso sei soltanto colpevole di avermi un po’ allontanato da loro – spiegai.
– Questa è gelosia bella e buona. Ti vogliono in esclusiva? Che razza di amici hai?
– Non esagerare.
– Non sto esagerando. Sto parlando dei due fratelli. Quelli mi possono vedere come il fumo negli occhi. Ammettilo. Sono sicuro che sotto sotto siano entrambi innamorati di te.
Scoppiai a ridere.
– Sei pazzo?
– No. Vittorio mi ha fatto persino spostare di nuovo al quinto. Perché credi che l’abbia fatto?
– Per tenerti lontano da me?
– Esatto. E Luca si mette tra noi ogni volta che gli è possibile. Non lo vedi anche tu?
– No.
– Eppure è così, ed è il momento che tu ti decida. O stai con me, o stai con loro.
– Ma che razza di scelta è questa? Tu sei il mio ragazzo, loro sono i miei amici. Dovrei abbandonare i miei amici?
Iniziò una lite furibonda, come non ricordavo di averne mai avute. Finchè, alla fine, stremati, ci sbattemmo la porta in faccia.
La prima cosa che mi venne in mente, non so perché, fu di chiamare Vittorio, benchè fosse mezzanotte passata, e sfogarmi con lui. Gli raccontai tutto e mi sentii più leggera.
– Non ti sembra troppo possessivo? Cosa vuole, rinchiuderti in un monastero e tenerti tutta per sé? – commentò.
– Tu come la vedi?
– Non è l’uomo per te. Non ti ama. Ti vuole soltanto.
In seguito ne parlai anche con Luca, che mi chiarì definitivamente le idee.
– Filippo è un violento. Una sua ex, che è mia amica, mi ha raccontato cose raccapriccianti di lui. Non volevo dirtelo perché temevo che lo avresti interpretato male. Ma adesso non posso più tacere, perché ti voglio bene. Non posso permettere che ti faccia quello che ha fatto ad Angela.
– Angela, quella con cui sei stato in vacanza?
– Sì, è proprio lei.
– E cosa le ha fatto? – chiesi, trepidante.
– L’ha picchiata. Le ha fatto un occhio nero.
– E Angela l’ha lasciato?
– Ci ha provato, ma ha dovuto perfino cambiare lavoro, casa e numero di telefono, prima di riuscire a sfuggirgli. La perseguitava.
– E me lo dici solo adesso? – gli urlai, arrabbiatissima. – Che amico sei? Non potevi avvisarmi prima?
– Ci ho provato, ti ricordi? Ma tu non mi hai dato retta.
Come al solito la colpa era tutta mia. Dovevo prenderne atto.

A novembre ero di nuovo single. I miei timori che Filippo potesse perseguitarmi come aveva fatto con Angela, si rivelarono ben presto infondati. Non ci furono conseguenze e la mia vita tornò quella di prima. Luca e Vittorio tornarono a contendersi il mio tempo libero e a dedicarsi al loro passatempo preferito: litigare su tutto. 
Una sera, dopo il teatro, entrambi, separatamente, mi chiesero di andare a mangiare un boccone da qualche parte. Io accettai il primo invito, quello di Luca e poi anche il secondo, quello di Vittorio, avvisandolo che sarebbe venuto anche il fratello. Vittorio non mosse un muscolo, ma gli sorpresi uno sguardo vitreo.
Quando fu il momento di andare, li presi entrambi sottobraccio e li trascinai verso l’osteria dell’Operetta, a due passi da lì.
Luca non commentò, si adattò immediatamente alla situazione e iniziò a raccontare strani aneddoti sui suoi amici. Io ridevo, Vittorio sorrideva e Luca si sganasciava dalle risate. Ci scolammo una bottiglia di vino e il calore del locale si intensificò, finchè Vittorio riuscì a rilassarsi un po’ e anche lui raccontò qualche storiella divertente. A un tratto mi resi conto che si era aperta una specie di sfida, in cui ciascuno era impegnato a raccontare la cosa più divertente o più assurda. Mentre parlavano, guardavano me, come se io fossi l’unico giudice e dovessi dare loro un voto, o come se si aspettassero che decretassi un vincitore. Si assomigliavano in un modo incredibile. Pensai che non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione di rimetterli sulla stessa frequenza d’onda. Non potevano odiarsi: erano fratelli, ed erano così simili.
Poi iniziarono a chiedermi notizie sulla mia vita, sull’infanzia, sull’adolescenza. Luca ci raccontò come si fosse innamorato di me, quando avevo vent’anni e di come aveva vissuto l’intera storia. La sua inesperienza in fatto di ragazze l'aveva fatto muovere come un elefante in una cristalleria. Aveva tentato di capire se gli interessavo, mettendomi alla prova. Disse che si era messo d’accordo con le mie amiche, le quali avevano finto, una alla volta, di essere le sue ragazze. Se mi fossi ingelosita, ci avrebbe provato con me. Ma era andato tutto storto, perché io ero rimasta fedele alle mie amiche e non avevo mai mostrato loro di avere interesse per lui. Alla fine, poiché in fondo non era un coniglio, ci aveva provato lo stesso, prendendo una bella cantonata. Mentre lo raccontava, Vittorio lo fissava, come affascinato, poi guardava me. Si ricordava sicuramente quanto gli avevo raccontato a quel proposito. E infatti, a un certo punto, lo interruppe, dicendo:
– Pensa che invece Eleonora era davvero innamorata di te, ma ti ha respinto perché riteneva che te la facessi con tutte e che volessi solo giocare. Non ti riteneva capace di sentimenti autentici e profondi, e questo ti ha fregato – e lo disse con una sorta di compiacimento.
– Vuoi dire che me lo sono meritato, vero? – gli rispose, con un mezzo sorriso e uno sguardo freddo che preludeva a una rissa tra fratelli.
– Che cosa importa, ormai? – mi intromisi – Io ero sciocca e immatura e non ho capito niente. È stata colpa mia.
Entrambi mi fissarono come se fossi impazzita.
– È acqua passata – aggiunsi, come a giustificarmi.
– Questo è certo – confermò Vittorio.
– Ma non è detto che non si possa riprovare – intervenne Luca.
– Hai già avuto la tua occasione – obiettò Vittorio, come se intendesse “adesso tocca a me.”
– È Nora che deve decidere – affermò Luca.
Avevano intrapreso una nuova sfida e io rappresentavo il premio in palio?
Ritenni che fosse giunto il momento di chiudere la serata, perciò mi alzai e, dopo aver posato sul tavolo qualche banconota, li salutai, un po’ freddamente, e filai veloce verso l’uscita, senza voltarmi. Se mi chiamarono, non li sentii. Tornai a casa a passo di carica, come se fosse scoppiato un incendio che dovevo assolutamente andare a spegnere. In effetti l’incendio me lo portavo appresso. I miei pensieri erano di nuovo confusi e i dubbi mi stavano sopraffacendo. Mi scolai mezza bottiglia di vino e mi sdraiai sul divano a pensare. Perché ero fuggita? Avrei finalmente potuto capire cosa realmente provavano per me. Temevo che si prendessero a sberle, ecco perché avevo preferito tagliare corto. E se si fossero picchiati ugualmente? Non essendo presente, potevo sentirmene innocente. Ma io ero innocente! Ma dico, se avevano davvero un interesse per me, perché non me lo dicevano, semplicemente? Era un circolo vizioso. Com’è che diceva Agnese? “Gli uomini oggi non sanno più farsi avanti. Aspettano che siano le donne a proporsi. Si sono invertiti i ruoli. Oggi, se vuoi un uomo, non è più sufficiente che tu lo circondi di moine. Devi proprio andare lì e prendertelo.” Forse aveva ragione. Luca non si faceva avanti perché lo avevo già respinto una volta, e voleva evitare un bis. Vittorio non si faceva avanti perché voleva andare sul sicuro, come era stato con Zaira. Mi aveva mandato in avanscoperta per sapere se lei era interessata. Ma allora, l’unico modo per sbrogliare la matassa, ancora una volta, era che fossi io a chiarirmi le idee e muovermi di conseguenza. Perché? Perché dovevo essere io a scegliere? Non potevo decidermi. Mi piacevano entrambi. Orribile! Li amavo tutti e due. Come ero giunta a una conclusione così inconcludente? Come potevo essere innamorata di due uomini? E per giunta fratelli…
Che senso aveva tutto questo? Passai l’intera notte a pensarci e mi addormentai solo all’alba del sabato.
Nel pomeriggio chiamai Zaira e la invitai da me.
– Soccorso infanzia infelice – disse lei al citofono.
– Sali, crocerossina.
– Allora, cos’è questa storia? – mi chiese, senza preamboli, buttandosi sul divano.
– Se ti dicessi che mi sono innamorata di Vittorio, che ne diresti?
– Che sei alla ricerca di una figura paterna. Il capo impersona il potere maschile, quindi il padre. Hai un buon rapporto con tuo padre?
– Sì, certo. Anche se...
– Anche se?
– Mio padre è sempre stato succube di mia madre.
– Appunto. Ti manca la figura maschile – affermò con decisione.
– Lo so che mi manca. Ho trentadue anni e non ho ancora conosciuto l’uomo della mia vita.
– No, non sei riuscita a incastrarne uno, per la vita. È diverso. Ma perché è così importante, per te?
– Non è questo il punto, Zaira. Non mi confondere più di quanto già non lo sia. Il mio problema è che sono innamorata anche di Luca.
– Luca? Il fratello di Vittorio?
– Esatto.
– Ho sentito storie del genere. Lo sai come vanno a finire? Che si conosce qualcun altro e quei due si attaccano al tram. E lo sai perché? Perché non si può essere innamorati di due persone contemporaneamente. Tu pensi di esserlo, ma è clamorosamente falso. E quando t'innamorerai davvero riconoscerai la differenza.
– Zaira... – le dissi, abbracciandola.
– Ma non posso risolverti il problema. È una questione che devi risolvere da sola.
– Grazie tante. Da te non pretendo consigli, ma solo che mi aiuti a capire quello che voglio davvero.
– Se hai bisogno di aiuto per questo, si dimostra valida la mia tesi.
– Quindi, cosa devo fare?
– Trovati un altro, risparmia tempo e sofferenze. Trova subito uno che li sostituisca entrambi.
– E dove lo trovo? Ma ti rendi conto che ho trentadue anni? Quelli della mia età sono già tutti impegnati, quelli più giovani mi trovano vecchia e quelli più vecchi non si impegnano per nulla al mondo.
– Ripeto la mia domanda: ma perché è tanto importante per te? Trovati un ragazzo con cui stare, quanto dura non ha importanza. Il tuo sogno è davvero quello di sposarti? A che serve? Tanto tutti poi si fanno un’amante, lo sai. Con qualunque tipo d’uomo tu possa metterti, prima o poi troverà un’altra con cui soppiantarti. Tanto vale che tu rimanga libera e padrona di te stessa.
– Tanto varrebbe che mi rimettessi con Filippo.
– Già, cos’aveva Filippo che non andava? – mi chiese.
– Era geloso e possessivo.
- È un difetto?
– Non lo ritieni un difetto?
– Io no – affermò Zaira.
Zaira era mia amica, ma a volte mi domandavo se fosse normale.
– Che ne diresti di andarci a fare una piccola vacanza in Spagna?
– Io e te in mezzo ai toreros?
– Perché no? Gli uomini spagnoli sono ancora di quelli che sanno fare la corte alle ragazze.
– Perché ti brillano gli occhi? – le chiesi.
– Ho conosciuto uno. Si chiama Pedro. Lo andrei a trovare molto volentieri – mi comunicò.
– Benissimo, se ha qualche amico, ci sto.
Così suggellammo il patto spagnolo.
Il lunedì chiedemmo le ferie in ufficio e il venerdì pomeriggio partimmo in macchina verso Burgos.
Vittorio accolse la mia richiesta di ferie con una vaga espressione preoccupata. Arrivò a chiedermi dove dovevo andare e con chi. Quando lo informai del viaggio che avevo programmato con Zaira, la sua espressione preoccupata non cambiò di una virgola. Forse la riteneva una compagnia poco adatta a me e temeva che potesse corrompermi.
Quando lo raccontai a Zaira, lei mi confermò che per Vittorio era una femminista della peggior razza. Era sicura che non vedeva più di buon occhio la nostra amicizia, che pure era nata grazie a lui.
Zaira e io arrivammo in Spagna a notte fonda. Ci dirigemmo verso il mare e parcheggiammo vicino alla prima spiaggia che trovammo. Faceva freddo. Restammo in macchina a guardare il mare e ci addormentammo. I primi raggi del sole ci svegliarono e decidemmo di ripartire. Tra il traffico e le nostre numerose fermate, raggiungemmo Burgos solo nella prima serata. Trovammo un albergo e ci buttammo sul letto senza pensare né al cibo, né all’acqua. Eravamo davvero stanche. Al mattino avevamo la gola secca e una fame da lupi. Iniziammo la giornata con una colazione luculliana e ci gettammo a capofitto per le vie del centro. Zaira non andava a caso, aveva una sua meta ben precisa, che ci condusse in un negozietto d’antiquariato vicino alla passeggiata sul fiume. Fu lì che conobbi Pedro. Era un uomo sui quaranta, alto, ben messo, con i capelli bruni, corti, e le tempie brizzolate. Aveva la pelle abbronzata e due occhi fantastici, caldi, color nocciola chiaro, circondati di piccole rughe che risaltavano ogni volta che rideva. Era un tipo alla mano, simpatico, espansivo, sempre pronto alla battuta. Mi spiegai ben presto come Zaira potesse aver deciso di intraprendere quel viaggio, per rivederlo.
Tra una chiacchiera e l’altra, mi chiese se ero impegnata.
– In che senso? – chiesi a Zaira, con espressione smarrita.
– Nel senso che sei single – mi spiegò lei, ridendo.
– Muy buen – affermò Pedro, strofinandosi le mani, come se avesse trovato, finalmente, l’articolo che cercava da tempo.
– Perché? – mi limitai a chiedere.
– Voglio farti conoscere qualcuno – dichiarò, senza approfondire la questione.
Trascorremmo là l’intera mattina. Poi Pedro si recò sul retro, separato da una semplice tenda di velluto, e telefonò a qualcuno, dandogli appuntamento in un certo locale. Verso le due del pomeriggio ci condusse a mangiare in un bar e poi ci salutammo, non prima di averci consigliato una passeggiata sul Pasèo del Espolòn. Ci saremmo rivisti la sera, proprio all’ingresso del parco. Ci strizzò un occhio e sparì.
– Che ne pensi? – mi chiese Zaira.
– Bel colpo! Dove l’hai pescato?
– A una fiera dell’antiquariato. Non è carino?
– No, Zaira, non è carino, è una bomba.
– Lo so. Ed è libero, pensa, appena divorziato. E mi piace, mi piace un sacco.
– Fantastico!
– Forse resterò qui con lui.
– Sei impazzita? Zaira, sei proprio tu, o ti hanno clonato mentre non guardavo?
– Sono innamorata – affermò lei, sospirando.
– Capisco. 
Ma in realtà non capivo. O piuttosto, non la riconoscevo. Quella era la stessa Zaira che teneva tutti a distanza? La stessa che mi aveva detto, solo pochi giorni prima, “perché ci tieni tanto a impegnarti? Tanto lo sai che prima o poi tutti si trovano un’altra.” Beh, non capivo.
Passeggiammo tutto il pomeriggio, finchè i nostri piedi non resistettero più e ci rintanammo in un bar. Fuori faceva un freddo cane. Per fortuna eravamo attrezzate di tutto punto: sciarpe, guanti e cappellini.
Nonostante questo, ci presentammo all’appuntamento per la cena  più intirizzite che mai. Pedro ci caricò in macchina e ci portò fuori città. Nel buio pesto, che regnava intorno, non riuscii a capire nemmeno in che direzione andavamo, ma quando arrivammo ci trovammo in un cortile illuminato da lampioni che emettevano una luce giallognola e calda. Le mura erano in pietra grezza e l’ingresso del locale era circondato da siepi sempreverdi. Il portoncino in ferro battuto e vetro colorato si apriva verso un locale spazioso,  dai soffitti bassi e  un grande camino acceso, proprio in fondo al salone.
C’erano pochi avventori, tra i quali uno strano tipo, seduto a un tavolo da solo, con i capelli lunghi, legati in un codino dietro la nuca. Quando ci vide avanzare attraverso il locale, si alzò e ci venne incontro sorridendo. Pedro lo abbracciò come se non lo vedesse da secoli, poi si voltò verso di noi e ci presentò. Il suo nome era Jaìme Rodrigo Jimenez e qualcos’altro che si perse immediatamente nella mia memoria. La stretta della sua mano era stata fin troppo vigorosa. Io mi ritrovai a massaggiare la mia sorridendo come un’idiota, persa nei suoi occhi di un blu deciso. Per tutta la serata fui calamitata dal suo sguardo brillante e accattivante. Mi chiedevo che effetto facesse alla luce del sole. Se quelle sfumature cangianti erano dovute alla luce del fuoco e se erano frutto di un incrocio tra un padre con gli occhi azzurri e una madre con gli occhi verdi. Insomma, mi lasciai distrarre da quesiti imbecilli, come di solito non mi accadeva. Anche lui era propenso alla battuta, allegro, rumoroso, espansivo. Emanava energia come chi non ne consuma mai abbastanza. Era senz’altro quello che si definisce un uomo pieno di vita. Scoprimmo che Pedro e Jaìme erano amici sin dall’infanzia, che in un certo senso la vita li aveva portati a percorrere le stesse strade e a vivere le stesse esperienze. Venne fuori che anche Jaìme aveva divorziato da poco e che non aveva figli, mentre Pedro ne aveva tre, da due compagne diverse.
Quando Zaira gli chiese di che cosa si occupasse, Jaìme rispose:
– Di mucche.
Era un vaccaro? Un allevatore? Un macellaio? Non fu più esplicito e noi lasciammo cadere l’argomento, forse perché le mucche non ci affascinavano granchè.
Quando l’ambiente si fu riscaldato abbastanza, anche grazie al volume di alcol che scorreva ormai nelle nostre vene, la conversazione si spostò sul mio problema Luca-Vittorio. Non so come saltò fuori, forse Zaira l’aveva estratto dal cappello, tanto per fare una battuta, ma loro la presero molto sul serio, soprattutto Jaìme, che iniziò una lunga disquisizione sull’amore. Capperi, quante ne aveva da dire! Alla fine concluse, piantandomi negli occhi il suo sguardo conturbante:
– Tu non sai cos’è l’amore. Non l'hai mai incontrato.
– Mi hai convinto – gli risposi, leggermente a disagio, e più che altro perché la smettesse di guardarmi in quel modo.
Poi ci invitò per il fine settimana in casa sua.

Pedro e Zaira trascorsero la settimana praticamente sempre insieme, nel suo negozio, mentre io me ne andavo in giro da sola per le strade della città, a volte come una sonnambula, senza vedere e sentire nulla, persa nei miei pensieri, altre volte con un’acuta attenzione per ogni minimo particolare. Non mi sentivo troppo in me. C’era qualcosa che continuava a turbarmi. Erano tutti quei discorsi sull’amore che Jaìme ci aveva propinato. Continuavo a chiedermi se non avevo sprecato la mia intera esistenza, se non ci fosse qualcosa di malato, in me, che m'impediva di avere dei rapporti veramente profondi, come se fossi un automa a cui avevano dato la carica e di cui poi si erano del tutto disinteressati, senza fornirgli le istruzioni di base per affrontare l’esistenza. Di certo non avevo mai amato come diceva lui. E nessuno mi aveva mai amato in quello stesso modo. Sopra di me si stendeva un cielo blu cobalto, passavo sotto gli alberi spogli allungando la mano per toccarne il tronco, come se questo contatto potesse spiegarmi qualcosa che mi era sfuggito. Guardavo l’acqua del fiume scorrere sotto di me e mi perdevo alla vista dei tramonti che dipingevano le mura di un giallo caldo e vivo. Mi scoprii ad amare quella città come non ne avevo mai amate altre. La cattedrale mi procurava un senso di pace profonda. Mi sedevo nel Claustro a pensare alla mia vita trascorsa, passandola al setaccio e scovandovi milioni di errori, centinaia di occasioni sprecate, decine di rimpianti e soprattutto fughe. Quante volte ero fuggita? Davanti a un problema, davanti a una verità, davanti a una decisione. Davanti all’amore di Luca. Non lo avevo semplicemente respinto, avevo avuto paura di essere amata, e forse anche di amare. Ma era stato tanto tempo fa. Potevo ancora rimediare? Potevo imparare ad amare davvero, senza timori, senza freni che inibissero i miei slanci? Potevo dare spazio ai sentimenti, aprire il cuore, liberare la mente?
Il sabato mattina Pedro ci venne a prendere in albergo e ci condusse in casa di Jaìme, anche se “casa” non era la parola esatta a descriverla. Quando giungemmo, scoprimmo trattarsi di una immensa fattoria, chiamata “Granja de encina”, appollaiata in cima a una collina circondata di quercie. Un’ala era stata appena ristrutturata e fu lì che entrammo, tra borsoni e giacconi e abbracci e pacche sulle spalle. La voce profonda di Jaìme ci spinse verso le nostre camere. Ne aveva assegnata una a ciascuno di noi. La mia aveva le pareti bianche, tendine di pizzo alla finestra, una poltrona a dondolo, una libreria, una radio, una scrivania piena di ninnoli, foto di tori appese alle pareti e sul letto in noce un piumone a grandi fiori bordeaux.
Mi guardai intorno, senza sapere cosa fare.
– Lascia la borsa e vieni giù – mi disse Jaìme dalla porta.
– Certo – risposi, grata.
– Andiamo a fare una passeggiata – ordinò a tutti, una volta che ci fummo riuniti nella grande sala a piano terra.
Prendemmo un vialetto tra gli alberi, che scendeva dalla collina. Mentre camminavamo, Jaìme si affiancò a me e cominciò a parlarmi della sua granja. Dalle quercie ricavava sughero per una fabbrica di tappi per bottiglie. Possedeva un allevamento di tori per corride e altri per macello. Si occupava di tutto con i due fratelli. Giungemmo a una stalla dove teneva i cavalli. Di quelli non mi aveva parlato.
– Sapete cavalcare? – ci chiese.
La nostra risposta negativa lo stupì.
– Sono cittadine – gli spiegò Pedro, ridendo.
– È facile. Potete imparare – affermò Jaìme, senza arrendersi.
– Io preferirei starvi a guardare – dissi, titubante.
– No. Tu imparerai. Combatti la paura – mi sussurrò Jaìme in un orecchio, con la sua voce calda e profonda.
Quando i cavalli furono sellati e fu il momento di salirci sopra, pensai che fosse pazzo. Come potevo salire su quella montagna che si muoveva di vita propria?
– Ti aiuto io. Vai! – disse Jaìme, issandomi, quasi di peso, in cima a quel colosso.
Mi tremavano le gambe. Non sapevo cosa fare, come muovermi, come reggere le briglie. Ero terrorizzata. Lui, intanto, accarezzava il cavallo e lo teneva come ipnotizzato. Mi spiegò per filo e per segno tutto quello che dovevo fare e poi mi rassicurò spiegandomi che comunque il mio cavallo avrebbe seguito il suo e non c’era bisogno che facessi altro.
Nonostante il fatto che non seguissi esattamente le sue istruzioni e che il mio sedere continuasse a sobbalzare sulla sella, facendomi un male cane, la passeggiata andò benone. Mi abituai ad accompagnare il movimento del cavallo e tornai alla stalla sana e salva, dopo mezz’ora di passeggiata. Quasi non ci potevo credere. Era stata bellissima la sensazione di guardare le cose da quella prospettiva elevata. Mi era piaciuto.
Quando tornai con i piedi per terra, ringraziai Jaìme con entusiasmo. Lui mi sorrise, affascinante, e mi diede un buffetto sulla guancia.
– Te l'avevo detto. Devi fidarti di me.
– Lo farò...
Nel primo pomeriggio organizzò una grigliata. Zaira e io ci aggirammo intorno ai due cuochi, scaldandoci e seguendo affascinate la cottura di enormi bistecche, mentre Pedro e Jaìme chiacchieravano in sala da pranzo. Poi Zaira li raggiunse e poco dopo uscì Jaìme. Mi posò un braccio sulle spalle e mi condusse in giro per l’ampio cortile, mostrandomi tutto quello che avevano rinnovato, mantenendo scrupolosamente lo stile della costruzione, che aveva duecento anni ed era appartenuta da sempre alla sua famiglia. Gli dissi che doveva essere molto bello sentire delle radici profonde, conoscere il proprio passato, sapere di appartenere a un luogo da sempre.
– Sì, è bello, ma non è questo il punto. È bello soprattutto volere che tutto ciò continui ancora nel futuro.
– Già. Tu sei un uomo teso verso il futuro.
– Mentre tu? Ti perdi nel ricordo del tuo passato?
– No, non direi. Tendo piuttosto a vivere l’attimo presente, senza chiedermi cosa avverrà domani. Il passato, ormai è passato.
– Eppure, quelle sono le radici di cui parli.
– Mi riferivo agli antenati.
– Com’è la tua famiglia?
– È latitante – risposi con un sorrisetto.
– Peccato – commentò lui. – Allora devi sbrigartela da sola.
– È quello che ho sempre fatto.
I cuochi suonarono una campanella per richiamare la nostra attenzione. Le bistecche erano pronte.
Con l’energia e l’entusiasmo che li contraddistinguevano, Pedro e Jaìme mangiarono e chiacchierarono allegramente, mentre noi ragazze tentavamo di seguirli. I nostri bicchieri erano sempre pieni. Terminammo il pasto con biscotti secchi che si dovevano impregnare in un vino dolce che assomigliava al Vinsanto.
Poi Jaìme ci lasciò, reclamato da alcune faccende che riguardavano il buon andamento della fattoria e noi ci ritirammo nelle nostre camere. Io accesi la radio e sfogliai una rivista, lanciando spesso lo sguardo attraverso la finestra, verso il bosco di quercie, il cielo blu e il cortile antistante, nella speranza di vedere Jaìme. Quell’uomo cominciava a piacermi. Era diretto, non si faceva scupoli. Se pensava una cosa, te la diceva, punto e basta, senza preoccuparsi di mostrarsi per quello che era. Ciò denotava una grande sicurezza di sé. Lo invidiavo. Avrei voluto essere come lui. Dire al mondo: ecco, questa sono io, prendere o lasciare. Che cosa dovrei temere? Sono come sono e il vostro giudizio non mi cambierà. Da quando l'avevo conosciuto aveva messo in crisi la mia vita. Perché? Perché, perché, perché?
Bussarono lievemente alla porta e io andai ad aprire. Era Jaìme.
– Non dormi, vero? – mi chiese, a bassa voce.
– Non dormo mai il pomeriggio – risposi con lo stesso tono.
– Allora vieni con me.
Mi condusse in un’ala della casa dove non eravamo ancora stati e mi introdusse in una biblioteca. La grande stanza era tutta rivestita di legno scuro e lucido. C’era un divano di cuoio, davanti a un caminetto acceso, dove mi fece accomodare, offrendomi un bicchierino di vino dolce.
– Vuoi proprio farmi ubriacare? – lo rimproverai, assaggiandolo.
– Voglio solo allentare la tua tensione – commentò, sorridendo.
– Io non sono tesa – obiettai.
– Sei un pezzo di legno – affermò, massaggiandomi le spalle.
Effettivamente mi resi conto che ero molto tesa.
– Non devi temere nulla. Nessuno qui ti farà del male.
– Non ci stavo pensando.
– Infatti, tu non ci pensi, ma il tuo corpo è sempre sulla difensiva. Sei rigida, sempre pronta a scattare. A fuggire, forse?
– Forse – ammisi, mio malgrado. – Si nota molto?
– Si vede da come cammini. Dovresti fare un’attività fisica, correre, possibilmente in mezzo alla natura.
– Prenderò in considerazione il tuo consiglio – lo rassicurai.
Poi si allontanò per un attimo e tornò con una chitarra. Si sedette di nuovo accanto a me e iniziò a suonarla, accompagnando una canzone dalle note languide e malinconiche, che mi strinse il cuore. Mentre cantava, mi guardava in un modo strano, come se le parole della canzone fossero state scritte unicamente per me e fosse fondamentale che io la sentissi, non solo con le orecchie, ma con il cuore. Quando l’ultima nota si spense, assorbita dal legno che ci circondava, mi sorrise, posò in terra la chitarra e mi chiese:
– Cos’hai provato?
Cercai le parole per descriverlo.
– Malinconia, nostalgia, rimpianto.
– Hai provato qualcosa qui? – disse, toccandomi la fronte con la punta dell’indice – o qui? – chiese toccandomi all’altezza del cuore.
– Qui – risposi, indicando il cuore.
– La musica è come l’amore. Quello è il suo posto. È inutile che ci ragioni sopra. La tua mente non saprà mai spiegarlo.
– L’ho sempre saputo.
– Ma non l’hai mai capito – commentò Jaìme, ammorbidendo la sua affermazione con un sorriso mite.
– Cosa devo fare? – gli chiesi.
– Solo lasciarti andare.
– È così facile?
– Lo è, se abbandoni le tue difese, se apri un varco nella tua corazza.
– Nessuno mi ha mai insegnato a farlo.
– Dovrai imparare da sola. Basterà che tu smetta di avere paura.
– Temo che la paura sia stata sempre la mia unica difesa.
– Perché pensavi di essere sola, ma non lo sei. Tu fai parte di questo mondo, che è pieno di altre persone come te, con i tuoi desideri, le tue speranze, i tuoi sogni. Guardati intorno, guarda verso il futuro.
– Ti prometto che tenterò di farlo, uomo del futuro.
Jaìme sorrise.
– Qualcun altro mi chiamava “uomo del futuro”.
– Chi?
– Mia madre. In un certo senso, tu le assomigli.
– In che cosa? – gli chiesi, lievemente stupita.
– Nel portamento, in quel modo di tenere alta la testa, quasi in maniera sfrontata, come un guerriero che sa di dover affrontare continuamente sfide impossibili, ma che non si tira indietro, perché sa di poter fare affidamento solo sulle proprie forze. Nel sorriso che inizia ma che non si apre mai completamente, come se non fosse decoroso. Nel modo in cui ti tiri indietro quella ciocca di capelli che tende sempre a entrarti negli occhi, e nel modo in cui guardi, un po’ di sbieco, come se ti tenessi sempre pronta a guardare da un’altra parte, per essere pronta a scoprire un pericolo improvviso. Mi ricordi un cerbiatto, come mia madre.

Quei due giorni sfumarono come se il tempo avesse ingaggiato una corsa forsennata. Al mattino del lunedì, mentre preparavo la borsa per tornare a Burgos, Jaìme si affacciò sulla porta della mia stanza e mi chiese:
– Cosa vai a fare in città?
– Niente – risposi, trattenendo il fiato.
– Allora resta con me.  
Accettai immediatamente, senza pensarci neppure un secondo. Forse stavo già imparando a lasciarmi guidare dal cuore.
Avevo davanti a me un’intera settimana da vivere e volevo farlo il più intensamente possibile.
Jaìme aveva molto tempo libero, o se lo cucì apposta per me. Parlammo molto, passeggiammo, andammo a cavallo. Scoprii che aveva vissuto a Salamanca, dove aveva preso due lauree, una in psicologia e una in filosofia. Per un ragazzo che sapeva già di doversi occupare di “mucche”, come diceva lui, era stata una scelta piuttosto bizzarra. Ritenevo che sarebbe risultata più adeguata una laurea in zootecnia, ma lui era fatto così: si dedicava a quello che gli piaceva, anche se non lo riteneva utile. E poi, mi spiegò, lui i tori li aveva nel sangue, non aveva bisogno di studiarli a scuola. La sera, abbracciava la sua chitarra e cantava per me. In quei momenti il cuore mi batteva più forte, provavo la sensazione di vibrare in risonanza con le corde della sua chitarra.
Un’altra cosa che amava era studiare la gente, tentare di capirla, immedesimarsi. E infatti mi studiò, mi soppesò, si mise nei miei panni e capì. Per un attimo pensai che il destino mi avesse posto sulla strada del mio guru. Aveva un modo di parlarmi che non scaturiva solo dall’intelletto, ma dal cuore, dall’anima, da una profondità che tutti hanno, ma nessuno sfrutta. Per la prima volta in vita mia mi trovai accanto un uomo equilibrato, nel senso che aveva trovato davvero un equilibrio tra tutte le sue componenti. Era una sensazione bellissima.
Non so cosa mi rese più felice, in quei giorni. So soltanto che quando finirono, velocemente com'erano iniziati, mi resi conto che non ero più la stessa persona che era arrivata là, nove giorni prima.
– Devi proprio partire? – mi chiese Jaìme, all’alba, mentre facevamo colazione, in attesa che Zaira venisse a prendermi.
– Ho un lavoro che mi aspetta – mi rammaricai, mentre con tutta me stessa avrei voluto dirgli “No, resto qui”.
– È stato un piacere conoscerti. Credo che non ci rivedremo: hai la tua vita, la tua casa, Vittorio e Luca. Ma sono certo che questa vacanza ti ha fatto bene. Hai rinnovato le tue energie e ora sei pronta per continuare la tua strada.
Mi stava dicendo che non ci saremmo rivisti, che riteneva giusto che ciascuno di noi andasse per la propria strada. Era un addio.
Se in quel momento mi avesse dato uno schiaffo, penso che mi avrebbe fatto meno male. Era come se volesse allontanarmi il più presto possibile da sè. Era diventato un po’ freddo e formale, ma avvertii una contraddizione tra le sue parole e lo sguardo con cui me le rivolse. Era la prima volta che accadeva. Forse il mio guru, l’uomo del futuro, non aveva ancora del tutto imparato a lasciar fare al cuore il mestiere del cuore e alla testa quello della testa. Mi restò il dubbio di aver preso una cantonata, ma il calore di quello sguardo mi procurò una sensazione che mi accompagnò per lungo tempo.
Nei giorni freddi dell’inverno, mentre tornavo a rivedere tante piccole cose della mia vita, quel calore mi infuse forza, coraggio e un nuovo slancio verso il futuro.
Zaira si era chiusa in un mondo tutto suo, nel quale esistevano soltanto Pedro e le sue telefonate. Poiché ero l’unica che l'aveva conosciuto, mi parlava volentieri di lui e dei progetti che avevano in mente. Io ne approfittavo per chiedere notizie di Jaìme e assicurarmi che stesse bene. Mi mandò i suoi saluti, io i miei, ma non ci sentimmo mai direttamente, fino a Natale, quando, colta da una nostalgia impossibile da far tacere, decisi di telefonargli.
Lui mi sembrò sorpreso, come se non si fosse aspettato il mio gesto, o come se per lui fossi ormai un capitolo chiuso.
Mi chiese di Luca, di Vittorio e del mio lavoro, e non accennò mai alle cose che ci eravamo detti o avevamo fatto insieme, alla granja.
D’improvviso mi resi conto che stavamo vivendo su due pianeti differenti e lontani anni luce l’uno dall’altra, che non avevamo nulla in comune e che non avevamo nulla da dirci. Mi rifiutai di cedere a quell’orribile sensazione e decisi che gli avrei detto esattamente quello che provavo:
– Mi manchi.
– Anche tu mi manchi – rispose. – Ero convinto che non l'avresti mai ammesso.
– Sto imparando a lasciarmi guidare dal cuore – commentai, sorridendo.
Poi una voce di donna lo chiamò. Lui mi comunicò che doveva andare, mi fece gli auguri e mi salutò. Chi c’era con lui?
Riascoltare la sua voce profonda mi aveva leggermente alleviato quel senso di nostalgia che provavo ormai da settimane, ma non mi aveva guarito. Mi aggiravo per la mia vita come se fosse quella di qualcun altro, con la netta sensazione di trovarmi dove non avrei dovuto.
Luca e Vittorio si erano accorti che qualcosa era cambiato, ma non opposero resistenza, assecondandomi senza commentare. Del resto ero fondamentalmente più allegra, più disponibile, solo di tanto in tanto, per brevi momenti, venivo colta da una malinconia devastante. Facevo un breve tuffo nella depressione, mi davo una forte spinta di reni e tornavo a galla, piena di entusiasmo. Zaira era convinta che dovessi seguire il filo di quella malinconia, scoprirne le origini e andare a estirparle. Luca invece, come sempre, mise il dito nella piaga.
– Da quando sei tornata dalla Spagna, sei diversa. Ti è successo qualcosa, lì. Non è vero?
– Ho conosciuto qualcuno. Una persona davvero particolare.
– Se è riuscito a cambiarti in due settimane, dev’essere particolare per forza – commentò. – Che tipo è?
Dopo avergli esposto un resoconto più completo possibile, Luca mi guardò e commentò:
– Te ne sei innamorata, Principessa. Cosa ci fai ancora qui? Raggiungilo. Non era l’uomo che stavi cercando?
– Ma io non sono la donna che stava cercando lui.
– Sei sicura?
– Temo di sì. Mi ha trovata piena di difetti. Mi ha diagnosticato tutte le malattie e proposto tutte le cure adeguate. Non gli piaccio, Luca. Sono stata in casa sua per nove giorni, abbiamo vissuto sotto lo stesso tetto, e in tutto quel tempo non ci ha mai provato con me.
– E tu gli hai fatto capire che lui ti piaceva? – obiettò Luca.
– No – ammisi.
Dopo averci riflettuto per qualche secondo, rividi nella mente le serate trascorse davanti al caminetto, con Jaìme che cantava per me, rividi il suo sguardo, così caldo e appassionato, mi tornò alle orecchie l’inflessione della sua voce e mi si aprì spontaneo un sorriso.
– Eleonora – mormorò Luca, con voce arrochita, mentre mi fissava.  – Sono cieca. E anche sorda. È questa la ragione per cui sono sola.
– Adesso che te ne sei convinta, fai qualcosa per rimediare. Sarà meglio che vada, ora. Non sopporto il sorriso che fai quando pensi a lui.

In gennaio, Zaira prese una decisione drastica. Si sarebbe trasferita a Burgos. Pedro premeva perché andasse a vivere con lui, e Zaira non riuscì a trovare un solo motivo per cui non avrebbe dovuto farlo. Fu in quel momento che compresi quanto l’amore può renderti coraggioso. Se ami, nessun ostacolo ti sembra insormontabile, nessun problema risulta irrisolvibile, nulla e nessuno può sbarrarti la strada, perché ti crescono le ali e voli al di sopra di tutto questo. E io mi sentivo un prurito all’altezza delle scapole, dove stavano spuntando degli atrofizzati moncherini di ali. Il loro pieno sviluppo era bloccato da un unico pensiero, che Jaìme non mi volesse con sé. Ma se non avessi tentato, sarei morta dentro. Però mi chiesi tempo.
In febbraio Jaìme mi telefonò. La nostra conversazione fu più stralunata che mai. Lui parlava di cose senza senso, come se il suo unico scopo fosse quello di farmi riascoltare la sua voce. Io rispondevo a vanvera, pensando alle cose del tutto diverse che avrei voluto dirgli. Alla fine mi chiese se pensavo di fare una vacanza in primavera, se potevo prendere in considerazione l’idea di tornare per qualche giorno alla granja. Io accettai con un entusiasmo che stentavo a riconoscere e iniziai a grattarmi la schiena.
In marzo, Zaira si licenziò, lasciò la casa e si tuffò nella sua nuova avventura, accompagnata da me, che non stavo nella pelle all’idea di rivedere Jaìme e confessargli i miei sentimenti. Che accadesse quel che doveva accadere. Se mi avesse respinta, ci avrei pensato dopo.
Quando arrivai alla granja e scesi dalla macchina, vidi Jaìme uscire di corsa dal portone, con un sorriso abbagliante. Gli corsi incontro e gli saltai al collo, abbracciandolo stretto, con tutte le mie forze. Non volevo che mi scappasse. Lui rideva. Poi mi allontanò da sé e mi scrutò negli occhi. Non mi chiese niente, perché quello che voleva sapere, i miei occhi glielo rivelarono più chiaramente di quanto qualunque discorso potesse esprimere a parole. Allora si chinò a baciarmi. Io distesi le ali e mi sentii finalmente libera.
Zaira si sistemò col suo Pedro, mentre io trascorrevo le giornate col mio uomo del futuro. Lo amavo davvero. Mi piaceva tutto di lui. La sua tenerezza mi sconvolgeva. Era un amante meraviglioso. Solo, a volte, un’ombra attraversava i suoi occhi, come un lampo di tristezza. Un giorno mi accorsi che non parlava più del futuro, ma si limitava ad affermare il presente e ad afferrare l’attimo fuggente. Glielo feci notare.
– Forse ti ho contagiato?
La sua espressione mutò. Di colpo fu come se gli avessero sbattuto una porta in faccia. Anche la sua voce assunse un'intonazione diversa.
– È cambiato qualcosa, in effetti – mormorò – Sono un prodotto a breve scadenza. Non ho più molto futuro.
– Cosa vuoi dire? – mi allarmai.
– Quando ti dicono che ti rimane poco da vivere, cambiano tutti i tuoi parametri. Scopri che è il presente, l’unico tempo che esiste.
Rimasi senza parole, mentre una disperazione spaventosa mi si spandeva dentro.
– Ho una malattia che non guarisce – aggiunse, con voce piatta.
Sentii il mondo cadermi addosso. Tutto il peso del mondo. Che senso aveva quella storia? Che senso aveva la vita, se nel momento stesso in cui ti offriva l’amore che avevi sempre sognato, te lo sottraeva con mostruosa ferocia? Gli scoppiai a piangere su una spalla, senza potermi frenare. Non piangevo, credo, dalla notte dei tempi.
– Perdona il mio egoismo – mi disse – Se non ti avessi invitata qui, ti avrei risparmiato tutto questo, ma non volevo finire i miei giorni senza rivederti.
Il colpo era stato duro, ma riuscii a mettermi nei suoi panni. E poi tornai nei miei.
– Non ti devi scusare di nulla. Stare con te è la cosa più bella che mi sia mai capitata. Non avrei voluto farne a meno, per nulla al mondo. Non importa se dovrà finire. Tutto finisce, prima o poi. L’unica differenza è che noi sapremo quando e perché finirà.
Da quel momento tutto cambiò. La nostra storia si fece più intensa. Vivevamo ogni giorno come se fosse l’ultimo. Io non tornai a casa. Mi misi in aspettativa e restai con Jaìme per un intero anno. Fu bello, a volte doloroso, a volte splendido. I nostri alti e bassi dipendevano da come lui si sentiva. Continuavo a pensare che quando c'eravamo conosciuti, ironia della sorte, la prima cosa che mi era venuta in mente fosse che mi sembrava un uomo pieno di vita. Quando smise di cantare per me, fui io a cantare per lui. L’unico desiderio che avevo era che se ne andasse con la consapevolezza che l'amavo più di me stessa. E credo di esserci riuscita. Se ne andò in punta di piedi, una notte di fine marzo. Da una settimana, la sera, prima di addormentarsi, mi diceva addio, ma quella sera mi disse anche:
–  Promettimi che non resterai sola.
E io glielo promisi, anche se sentivo in me un deserto che iniziava a erodere la lussureggiante foresta che lui ci aveva piantato.
Salutai la sua tomba, salutai Zaira e Pedro e tornai a casa.

All’inizio fu terribile. Non mi riusciva di riprendere una vita normale. Non riuscivo a riafferrare il bandolo della matassa. Mi sentivo estraniata e lontana da tutto, finchè Vittorio, che aveva vissuto un’esperienza molto simile alla mia, non mi offrì la sua spalla su cui piangere. Una volta piangemmo insieme e ci sentimmo quasi liberati.
– La vita continua – mi disse poi.
– Lo so. È solo che ho bisogno di un momento di pausa.
– Ti capisco. Ne ho avuto bisogno anch’io.
– Ti ci è voluto molto? – gli chiesi, asciugandomi le lacrime.
– Veramente, non l’ho ancora superata del tutto.
– Allora non mi dai speranze – lo rimproverai.
– Non ho detto questo. Jaìme resterà per sempre nel tuo cuore, ma vedrai che troverai anche qualcun altro da amare. Forse non lo amerai mai con quella stessa intensità, sarà un amore diverso, ma ti riscalderà ugualmente.
– Sì, certo. Prima o poi accadrà – mi convinsi. Ma in quel momento non ne sentivo il bisogno. Amavo crogiolarmi in quel senso di perdita, in quel dolore sottile e stilettante che mi attraversava ogni volta che pensavo a Jaìme.
Ma Vittorio aveva ragione, la vita continua. Rientrai nel suo corso lentamente, come in un fiume tranquillo e un po’ pigro, con un leggero senso di panico ogni volta che m’accorgevo di non aver pensato a Jaìme per un’intera giornata. I miei amici mi aiutavano ad andare avanti e mi spingevano, come potevano, a essere serena e a farmi tornare il buonumore.
Luca si trovò una ragazza. Era bionda, carina e molto più giovane di lui e la sposò nel giro di sei mesi. Fui felice per lui.
Vittorio e io riprendemmo le vecchie abitudini: teatro o cinema e cena. Ci vedevamo quasi ogni sera. Mi accorsi che eravamo entrati in sintonia, molto più di quanto non lo fossimo in passato, come se avere alle spalle un dolore simile ci avesse avvicinato in maniera definitiva. Festeggiando il mio trentaquattresimo compleanno, decidemmo di andare in vacanza insieme, quell’estate.
La scelta della nostra meta non fu semplice. Ne discutemmo a lungo e sempre più accanitamente, come se da ciò dipendesse la nostra vita. A un certo punto, una sera, gli scoppiai a ridere in faccia, tanto mi sembrò ridicolo tutto il suo accanimento.
– Va bene, andiamo dove vuoi tu – mi arresi.
– Mi chiedevo proprio quanto ci avresti messo. Sei dura a cedere!
– Dovresti saperlo. Ormai mi conosci molto bene.
– Conosco tutto di te, in effetti, tranne quello che hai nel cuore – affermò, spiazzandomi.
– Che c’entra questo, adesso? Cosa vuoi sapere?
– Voglio solo dire che hai eretto di nuovo le tue palizzate.
– Lo so, hai ragione. Ma ce la sto mettendo tutta, davvero.
A metà luglio partimmo per la Francia. Vittorio aveva affittato una barca sul canale della Loira. Era un camper galleggiante, con letti, cucina, bagno e due biciclette appese a poppa. Avevamo viveri per due settimane e la ferma intenzione di inoltrarci lentamente in quella vacanza rilassante.
Durante la navigazione, io cucinavo. Ci fermavano spesso chiuse da superare. Era divertente. Sostavamo lungo il canale, in vista di paesi affascinanti. Inforcavamo le biciclette e andavamo a visitarli e a comprare il pane. La sera gettavamo gli avanzi fuoribordo e vedevamo grossi pesci azzuffarsi per cibarsene. I tramonti erano rossi e dorati, gli alberi di un verde intenso, il silenzio meraviglioso.
Una sera, mentre eravamo affacciati dalla barca a osservare un pesce più grosso degli altri, all’improvviso Vittorio mi baciò.
Mi sembrò la cosa più naturale del mondo, anzi, mi stupii che non fosse accaduto prima.
Ci guardammo, senza commentare. Poi mi prese la mano e mi trascinò sul letto.
Da quella sera non percorremmo più molta strada. Avevamo altri impegni. Mi sentii rinata e serena. Fu come se un ingranaggio si fosse finalmente incastrato nella locazione a cui era destinato. Canticchiavo spesso. Sorridevo e la vita mi sorrideva.
– Abbiamo sprecato un sacco di tempo – mi disse Vittorio, mentre tornavamo indietro, a vacanze quasi esaurite.
– È la vita – risposi, sorridendogli.
– Sai quando è stato che ho capito?
– Quando?
– La prima volta che siamo andati insieme a fare colazione alla “Goccia d’Oro”.
– Un bel po’ di tempo fa – mi stupii.

Quello era il passato. Ma il passato non è un paese in cui vivere, è solo una specie di sogno in cui le cose si deformano via via che si allontanano. Eppure sapevo che avremmo fatti i conti con il passato. Sapevo che Jaìme sarebbe rimasto per sempre come un sogno che vagava nei miei pensieri, e sapevo che la realtà di tutti i giorni non avrebbe potuto modificarlo. E sapevo che anche Vittorio aveva il suo sogno, con cui fare i conti. Ma Vittorio e io vivevamo nel presente e avremmo costruito il nostro futuro, insieme. La vita non è finita, finchè non è finita.