Dire, fare, baciare

 

– Noooo, è girato a scirocco!

Daniela sollevò lo sguardo sulla bandierina metallica piantata in cima alla cupola della chiesa madre, per vedere la tragedia con i propri occhi.

– Accidenti, Chiara, è vero! È scirocco, porco cane!

– E lascia in pace i cani.

– Che facciamo?

– E che vuoi fare? Sei capace di fermare il vento tu? Conosci qualcuno che è capace?

– Spostiamo la festa.

– E dove?

Daniela si guardò in giro come se intorno a loro ci fosse la risposta.

– Magari smette.

– Chiara, per cortesia! Lo sai che lo scirocco dura tre giorni. È una regola, è risaputo, è una legge universale.

– Dovevamo organizzarla sull'altro versante.

– Con la nostra fortuna si buttava a maestrale.

Quella festa era un progetto nato durante l'inverno, probabilmente per superare la noia di una settimana ininterrotta di pioggia. Erano sedute davanti a una tazza di orzo in tazza grande, le sigarette che si fumavano da sole nel posacenere di coccio, il tendone che gocciolava a un metro di distanza, mentre Roberto reggeva lo stipite della porta con una spalla, come se ne avesse bisogno.

– Per il nostro compleanno facciamo una festa speciale, che ne dici?

– Perché? Le feste che organizzate di solito non sono speciali?

Roberto s'intrometteva sempre nelle loro conversazioni, ma le gemelle non gli badavano più di tanto.

– Che genere di festa ti è venuta in mente?

– Una festa in riva al mare, sulla terrazza dello zio Alceste.

– E dici che lo zio ci presta la casa al mare?

– Ma come, non lo sai? Questa estate gli zii vanno a trovare Bea in Australia.

– Ma dai! Non lo sapevo. E ci va anche Cesare?

– No, lui resta.

Roberto s'intromise un'altra volta.

– Bisogna vedere se vostro zio ve la presta.

– Potremmo chiederlo a Cesare, invece. Lui non ci dirà mai di no.

– Sarebbe meglio chiederlo a vostro zio. Se poi lo viene a sapere e s'incazza, sono affari vostri. Così nascono le faide.

– Roberto, non hai proprio niente da fare dentro? Mi sembra che in bagno sia finita la carta.

– Non c'è mai stata la carta, in bagno.

– E non ti vergogni?

Daniela ne aveva approfittato per dirglielo, finalmente, anche se non era arrivata a dirgli che chiamare bagno quel cesso era fargli troppo onore.

– Tanto gli uomini la usano poco e le donne hanno sempre i fazzolettini in borsa.

– Quanto sei... quanto sei...

Daniela non trovò la parola, però la sua espressione fu più eloquente di qualunque discorso ben articolato.

Roberto batté in ritirata. In effetti avrebbe potuto trovare qualcosa da fare, anche se in tutto il giorno erano entrati quindici clienti e le ultime due neppure ci avevano pensato, sedendosi al tavolino che lasciava fuori come specchietto per le allodole, solo per ricordare ai passanti che il bar era aperto.

 

Fu proprio lui a raggiungerle in mezzo alla piazza, dove si erano fermate a discutere.

– Il vento si è messo a scirocco.

– Grazie, Roberto, non ce n'eravamo proprio accorte.

Roberto ignorò l'ironia.

– La vostra festa è tra due giorni. Come fate adesso?

– Diccelo tu, che hai sempre una soluzione per tutto.

Roberto si grattò la testa, proprio in mezzo, dove sbucava il suo ciuffo da moicano.

– Chiedo in giro e poi vi faccio sapere.

– Dici sul serio?

– E certo. Sono o non sono il primo invitato? Ci tengo come voi.

– Ci tieni perché sei il nostro fornitore di beveraggi.

– Un po' di poesia mai, eh?

– Se vuoi la poesia ti mando Cesare.

– Ah, ah, ah.

Roberto e la sua risata sardonica se ne ritornarono verso il bar "44 Gatti".

Cesare sopraggiunse pochi minuti dopo, mentre Daniela e Chiara stavano arrivando davanti al portone della chiesa, che faceva da sponda alle loro vasche.

– Ragazze, è girato a scirocco.

– Ciao, Cesare. Bella serata, vero?

– Ve n'eravate già accorte, eh?

– Tu che ne dici?

– E adesso?

– È chiaro che non possiamo più fare la festa da te. La terrazza è proprio in bocca allo scirocco.

– L'alternativa?

– Roberto chiede in giro.

– Roberto dei quarantaquattro gatti?

– Sì, perché?

– Ma, così. Non sapevo che fosse coinvolto.

Daniela se lo studiò un po' meglio. Le era sembrato per un attimo di notare uno scintillio nei suoi occhi, ma doveva essere stato il riflesso del neon della pizzeria.

– È coinvolto perché si occuperà del settore ubriacature.

– E chi avete preso per il settore mangereccio?

Chiara indicò il negozio di gastronomia puntando un dito nella direzione della strada.

– Di Non Solo Pane.

– Quindi ci dobbiamo sbrigare a trovare un'alternativa.

Daniela si bloccò, fermando gli altri due. Aveva appena avvistato Roberto che correva di nuovo verso di loro.

– Sentite, e se la facessimo in spiaggia?

– In spiaggia?

Il coro di Cesare, Daniela e Chiara fu sottolineato da altri vascaioli che si voltarono a guardarli.

– E il buio? E la musica? E dove mettiamo le vettovaglie?

– A tutto si può rimediare. Ma pensate che bello farsi il bagno a mezzanotte e accendere un falò e ballarci intorno e smettere all'alba senza nessun vicino che venga a romperci le scatole. Ciao, Cesare.

– Ciao, Roberto.

Chiara e Daniela si guardarono.

– Non è mica una brutta idea.

– No, ma dobbiamo avvertire tutti in tempo.

– Whatsappali come hai fatto per invitarli. Non hai creato un gruppo apposta?

– Hai ragione, Daniela. Ma prima pensiamoci bene. Dobbiamo riorganizzare tutto.

– Scusate, io devo andare. Fatemi sapere.

Cesare si attardò a guardare Roberto che correva verso il bar che aveva abbandonato per la seconda volta nel volgere di pochi minuti. Riuscì anche a trattenere un sospiro.

– Vi va di fare un giro più largo?

– Ma sì, va. Andiamo ai giardini?

– Pensavo al lungomare.

– È oscurato, Cesare. Te lo sei dimenticato?

– No, è che là almeno si vedono le stelle.

Chiara e Daniela si scambiarono uno sguardo di comprensione. Cesare era un vero romantico. Peccato che fosse uno sprecato.

Appena usciti dalla confusione della piazza, il paese tornava a sembrare un piccolo presepe, con strade silenziose e poco frequentate, i lampioni fiochi, le luci azzurre che pulsavano dai televisori dietro le tende delle finestre, le biciclette e i motorini appoggiati ai muri delle strade strette, i profumi del gelsomino che scavalcavano i muri dei cortili e i gatti randagi che si aggiravano come tigri a caccia.

Passeggiarono in silenzio nel silenzio. Non c'era modo migliore per far conoscere a tutti i fatti propri che chiacchierare per le strade. Dalle finestre aperte si raccoglievano infinite notizie e partivano i pettegolezzi. Loro lo sapevano benissimo e quindi tacevano. Raggiunto il lungomare, ricominciarono a sentirsi liberi di esprimersi.

– Non è tanto buio.

– Perché c'è la luna piena – disse Cesare.

– Se casco, reggetemi.

Daniela si preoccupava dei tacchi a spillo. Quando mai le era venuta la malsana idea di metterli proprio quella sera!

– Ci sediamo?

– Là c'è la mia panchina preferita.

– Che peccato che sia saltato l'impianto elettrico.

– Io non ci credo. Mi sembra più una scusa per risparmiare.

– Se avessero dato retta a quelli che volevano i lampioni fotovoltaici...

– Non mi pare che ci siano tante stelle stasera.

– Perché c'è la luna piena –­ disse Cesare.

– L'abbiamo capito che c'è la luna piena, Cesare. Non sai dire altro?

Cesare sospirò chiedendosi perché si ostinasse a frequentare quelle sue cugine che lo facevano sentire sempre un cretino.

 

Cesare finalmente era rimasto solo. La sua famiglia era dall'altra parte del pianeta e lui per la prima volta si sentiva libero. Quando pensava alla libertà gli veniva sempre in mente quella citazione: libertà è innanzitutto il diritto alla disuguaglianza. Quando l'aveva letta, gli era così piaciuta che l'aveva copiata ovunque gli capitasse. L'aveva anche scritta con un grosso pennarello fucsia su un manifesto che aveva appeso in camera sua. Era l'abbraccio di Ennis e Jack di Brokeback Mountain. Sua sorella Bea aveva capito subito e non aveva mostrato troppo entusiasmo, ma non ne aveva fatto una tragedia. Non come i suoi, che piuttosto avevano fatto finta di non capire, sperando che ci ripensasse. Un giorno, durante una discussione che si svolgeva in cucina mentre lui era in camera sua, aveva sentito Bea rispondere: – Non è che non gli piacciono un paio di scarpe, che può ripensarci. – E sua madre: – Beh, non si sa mai.

Aveva aperto la casa al mare per la festa delle cugine, ma non era andato molto avanti con le pulizie, per fortuna. Uno spreco di tempo e fatica. Lo scirocco spazzava la terrazza sollevando mulinelli di sabbia e annebbiando l'aria, mentre gli spruzzi del mare scavalcavano la balaustra. Schifato, chiuse tutte le persiane e uscì dal portone. In paese si stava decisamente meglio. Inforcò la moto e abbandonò il campo.

 

Roberto intanto si era attivato per riorganizzare la festa. E il buio? E la musica? E dove mettiamo le vettovaglie? Queste domande gli riecheggiavano nella testa ogni pochi minuti, ma era continuamente distratto dai suoi clienti e quindi non riusciva a trovare la giusta concentrazione per fornire le risposte. Però aveva lampi di visioni. Il cielo notturno rischiarato da una bella luna, le torce piantate nella sabbia, il falò, le bottiglie in grandi vasche piene di ghiaccio, ragazzi che suonavano chitarre, bonghi, sassofoni e trombe, lettini e sdraio trasformati in tavoli pieni di tartine e leccornie varie, il bagno a mezzanotte, Cesare ubriaco. No questo no.

– Il caffè lo vuole nero o macchiato?

E poi aspettare l'alba sdraiati sulla sabbia, ormai brilli, ormai paghi, ormai in silenzio. Le chitarre abbandonate, il fuoco ridotto a poche braci, il cielo che a poco a poco perde il nero e le stelle che sbiadiscono, mentre Cesare... e basta co' 'sto Cesare.

– Il tè freddo al limone o alla pesca?

Doveva procurarsi dei contenitori di polistirolo, o meglio, delle borse frigo da campeggio. E poi tanti bicchieri di plastica, ma non quelli soliti, bianchi. Dovevano essere trasparenti, eleganti, dovevano fare scena.

– Le brioches alla nutella sono finite. Va bene alla marmellata di albicocche?

 

Chiara e Daniela avevano tirato fuori dall'armadio tutto quello che sembrava adatto alla festa, ma non erano convinte di niente.

– Alla fine sarà una festa in costume da bagno. Forse sarebbe meglio comprarsi un bichini nuovo e un pareo.

– Un pareo? Come quelli che usano le signore per non pubblicizzare la loro cellulite?

– Preferisci i soliti calzoncini di jeans?

– No, questo no. È la nostra festa, in fondo.

– Lo so che eravamo partite con l'abitino trapuntato di strass, ma in spiaggia che senso avrebbe?

– Ce lo possiamo togliere in un secondo momento.

– Se proprio non riesci a rinunciarci.

– E i tuoi tacchi a spillo?

– Metterò i sandali con le pietre dure. Quelli vanno bene lo stesso, tanto poi staremo a piedi nudi.

La signora Clara, autrice suo malgrado di quel doppio capolavoro, si affacciò sulla porta della camera off-limits e non poté fare a meno di chiedere:

– Ragazze, che cos'è tutto 'sto casino?

– Niente, mamma. Preparativi per la festa.

– Ho capito. Ma poi rimettete tutto nell'armadio, eh?

– Certo, mamma.

Ma tutte sapevano che ci sarebbe voluto del tempo. La signora Clara decise che questa volta avrebbe fatto sparire le sedie con la scusa di farle rimpagliare. Sarebbero state capaci, quelle due, di ammucchiare i vestiti per terra per un mese?

 

Cesare entrò al "44 Gatti" e aspettò che il bancone si liberasse per parlare con Roberto.

– Visto che non devo più lavorare alla villa, sarei libero di darti una mano per la festa.

– Ah, Cesare! Sei una manna dal cielo. Ho una piccola lista di cose da procurarci. Se ci vai tu ti faccio un monumento.

La piccola lista consisteva in una striscia per scontrini di circa un metro su cui Roberto aveva annotato un numero sconsiderato di oggetti. Cesare cominciò a leggerli con una ruga sulla fronte che man mano diventava più arcuata e profonda.

Roberto interruppe la sua lettura con un chiarimento.

– Non sono tutti da comprare. Ce li facciamo prestare in giro.

– Dieci borse termiche?

– Tutti ne hanno almeno una in solaio.

– Dieci tavolini da campeggio?

– Come sopra.

– Duecento flûte di plastica trasparente, componibili gambo oro?

– A quelli ci penso io.

– Ma qua ci vuole un mese! Come hai fatto a ridurti all'ultimo giorno?

– C'è una bella differenza tra una festa in casa e una all'aperto, ti pare? Come facevo a sapere che ci sarebbero saltati tutti i programmi?

– Vabbè, è inutile stare a discutere, io comincio a mettermi in moto, sennò non ce la faremo mai.

– La lista vale anche per Chiara e Daniela. Dividetevi i compiti.

– Certo. Adesso le chiamo.

– Ah, Cesare, tienimi aggiornato.

– Non dubiti, capitano.

Roberto gongolò e seguì l'uscita di Cesare dal bar covandolo con lo sguardo.

 

Capitano? Perché l'aveva chiamato capitano? Cesare si stava già pentendo per quell'appellativo militaresco, che lo metteva in una posizione d'inferiorità rispetto a Roberto. E aveva fatto tutto da solo. Prima si era offerto come schiavo e poi aveva riconosciuto l'altro come suo padrone. Era assurdo. Fino a quel momento si erano sempre confrontati da pari. Che diavolo gli stava succedendo? Eh, lo sapeva bene che cosa gli stava succedendo. Il sole e il caldo gli facevano impazzire gli ormoni e tutte le notti non si addormentava se prima non sfogava i suoi tormenti. E ultimamente, nella sua fantasia, era la mano di Roberto a sostituire la sua. Poi la sua mente volava su immagini piene di tramonti, di abbracci nascosti tra gli scogli con l'acqua cristallina unica testimone dei loro trasporti, volava su cieli stellati mentre ancora ansimanti studiavano le costellazioni, si perdevano in sogni e promesse e progetti per il loro splendido futuro. Insieme. Insieme per sempre. Per fortuna, quando la sveglia suonava, Cesare riprendeva contatto con la scarna realtà. I suoi voli pindarici erano confinati nel segreto pozzo della notte.

L'organizzazione non era acqua fresca e con le gemelle non si scherzava. Cesare si presentò con la lista e Chiara in pochi minuti la inserì nella chat della festa e la inviò al gruppo di whatsapp. Nel giro di poco, una specie di pellegrinaggio si mosse da ogni parte del paese verso un'unica destinazione, il cortile della famiglia Vacirca. Chiara e Daniela accoglievano le offerte, fotografando i reperti e intitolandoli con il nome del legittimo proprietario. Cesare, che dei cellulari si fidava poco, applicava un'etichetta con il nome, perché non si sa mai.

Nel tardo pomeriggio giunse anche Roberto, che intanto aveva sguinzagliato i loro amici in cerca di legna per il falò, già dalla sera precedente. Si presentò con una foresta di torce di bambù alte un metro e una confezione da cento di grosse candele alla citronella.

Daniela le osservò, poi scosse la testa.

– Ma non ci sono zanzare in spiaggia.

– Fanno luce, atmosfera e profumano. Fidati.

– Sì, vabbè. Ma intanto, vista la montagna di roba che ci dobbiamo portare appresso, hai organizzato il trasporto?

– Tutti quelli che hanno la macchina devono passare da qui.

– Mi sembra giusto. E lo sanno già?

– No.

– Roberto, se qualcosa andrà storto, ti riterremo responsabile del fallimento della nostra festa di compleanno. Sappilo.

– Eh, mica mi potete dare tutta la responsabilità dell'organizzazione! Voi che ci state a fare? Siete voi che ci dovete coordinare. Vero, Cesare?

– Certo.

Daniela e Chiara lo diedero per perduto.

– Allora, se dobbiamo coordinare, coordiniamo.

Chiara era molto decisa. Daniela si guardò intorno con qualche dubbio in più.

– Chiedi al gruppo quanti sono che hanno a disposizione la macchina e facciamo i conti con questo trasporto eccezionale. Ci vorrà il permesso dei vigili urbani.

Roberto non era molto ferrato nell'afferrare l'ironia. 

 – Niente forze dell'ordine. È una festa privata.

Cesare lo adorò. Roberto fu investito dal suo sguardo adorante e stramazzò dentro di sé.

– Beh, per oggi abbiamo finito. I beveraggi sono a posto?

– Saranno ghiacciati quando dovranno esserlo. E le cibarie?

– Anna ha giurato che saranno pronte per essere trasportate domani alle sei.

– Chi va a ritirarle?

– Ci vai tu, Cesare?

– Con la moto?

– Non hai nessuno che ti presti una macchina?

– No.

– Che uomo inutile!

Roberto si offese per Cesare. Lo afferrò per un braccio e se lo trascinò via senza neanche salutare.

– Donne senza cuore. Pretendono senza dare. Ingrate.

– Sono le mie cugine.

– Non difenderle, sai!

Cesare non aveva alcuna intenzione di difenderle.

– Volevo dire che non me le sono scelte. Mi sono capitate.

La risata di Roberto si udì dal cortile.

 

– Sei stata troppo dura con Cesare. Lo sai come sono fatti quelli. Fanno subito comunella e a noi ci lasciano al nostro destino. Senza Roberto siamo finite.

– Gli chiederò scusa con un messaggino.

Chiara e Daniela si guardarono per un attimo.

– Meglio chiedere scusa anche a Cesare.

I cellulari di Roberto e di Cesare trillarono all'unisono. Ma loro erano persi in una conversazione surreale che comprendeva la differenza tra i giocattoli con cui si erano trastullati da ragazzini e quelli dei bambini che vedevano in giro. Poi erano passati ai cartoni animati e ai tempi in cui i cellulari se li sognavano.

 

L'appuntamento alle sette per ritirare le vettovaglie prima di andare in spiaggia non fu esattamente una buona idea. La strada si affollò, il traffico si bloccò e qualcuno chiamò davvero i vigili urbani. Per fortuna erano a fine servizio e arrivarono a rilento, quando già la situazione era stata risolta con l'intervento di Loris, che li bloccava sulla piazzetta, prima di entrare nella stradina. Chiara gli lanciava uno squillo sul cellulare quando una macchina era stata caricata, per farne avanzare un'altra. E i due vigili che sopraggiunsero non ci trovarono niente da ridire, anche perché così sarebbero tornati a casa prima.

Finito di caricare, si diressero tutti alla spiaggia del delfino. La costa era ormai quasi deserta. Poco prima di arrivare a destinazione, Cesare notò con sorpresa un gruppetto di surfisti con i surf piantati nella sabbia. Il mare era una tavola blu. Lo era da due giorni. Che ci erano venuti a fare? Ma il pensiero sfuggì, mentre il panorama arrossiva all'orizzonte. Sarebbe stato un tramonto da favola.

Tutti i festaioli contribuirono allo svuotamento dei bagagliai. Mentre Roberto montava i tavolini, cercando di farli stare in piano, Cesare piantava torce nella sabbia. Il falò era stato montato in anticipo. Sembrava la torre di Pisa, ma ormai non ci si poteva più fare niente. L'importante era che una volta appiccato il fuoco, se ne stessero tutti a una certa distanza. Roberto aveva preso in mano la situazione e dava ordini a destra e a manca, tra le urla e il vocio degli invitati. Loris si stava già facendo il bagno. Era l'ora in cui l'acqua era più calda e la luce morbida del tramonto metteva uno strano languore. Altri lo imitarono. Daniela e Chiara si arresero alla confusione.

– Che la festa abbia inizio! – urlarono, anche se non ce n'era proprio bisogno.

Il gruppetto musicale scalcagnato che si erano portati appresso, tirò fuori i suoi strumenti, due chitarre, un bongo, un tamburello e un sax. Suonavano insieme da poco e le gemelle compresero subito che non erano molto coordinati. Ma l'importante era fare casino. Cominciarono a girare gli alcolici, ma nessuno ancora ballava. Loris uscì dall'acqua e cominciò a rimpinzarsi di pizzette con una mano sola. L'altra era occupata da una birra. Ma all'improvviso mollò tutto e puntò lo sguardo di falco verso il largo, riparandosi gli occhi con una mano.

– Merda! Una petroliera!

Roberto si allarmò.

– Caaaazzo! Quanto tempo abbiamo?

– Direi un quarto d'ora, vero Cesare?

– Sì, sì, un quarto d'ora, forse meno. L'onda arriverà fino a laggiù. Sgomberiamo subito!

"Laggiù" era dove finiva la sabbia e iniziavano gli scogli. Il passaggio di una petroliera o di una nave cargo significava un'onda anomala più o meno alta, più o meno devastante, proporzionale alla distanza del passaggio dalla costa. L'allarme mise tutti in moto per salvare il salvabile. Per ultime furono raccolte le torce, sradicate come alberelli infestanti, ma per il falò non ci fu nulla da fare. La legna accatastata era troppa per riuscire a spostarla, anche se alcune anime ottimiste ci avevano provato. L'onda giunse a terra dell'altezza temuta, con qualche minuto di anticipo, abbattendosi senza pietà sulla sabbia e trascinandosi via al primo colpo la maggior parte della legna del falò. Le onde seguenti si portarono via il resto e quando il mare tornò quasi tranquillo, rialloggiandosi al suo posto, le gemelle si voltarono all'unisono per guardare Roberto con lo stesso sguardo accusatorio.

– Non è mica colpa mia!

– Potevi informarti alla Capitaneria di Porto.

– State scherzando?

– Certo che a vedere quei tizi con le tavole da surf qualche dubbio poteva anche venirci – disse Cesare.

– Grazie – disse Roberto lanciandogli un'occhiataccia.

Davanti alla desolazione della spiaggia completamente inzuppata d'acqua salata, Chiara sospirò.

– E adesso che facciamo?

– Ragazzi, lo scirocco è finito – annunciò Cesare.

– Ma che dici? È impossibile.

– Eppure è così.

Loris mise un dito in bocca, poi lo alzò al vento.

– Confermo. Lo scirocco è morto.

– Allora andiamo alla spiaggia sotto la tua villa, Cesare.

– Ma ci sarà la risacca per almeno un altro giorno!

– E chi se ne frega – conclusero in coro le festeggiate.

Caricare di nuovo tutte le attrezzature sulle auto non richiese molto tempo. Quando tutti furono pronti, si creò un corteo che sembrava quello di un matrimonio, comprensivo di strombazzamenti gratuiti.

Giunti alla villa, si aprì il cortile che dava sulla spiaggia, dove si trasferirono tavoli e tavolini dalla casa e dove finalmente si poterono organizzare il bar e l'agognato buffet. I suonatori si appoggiarono al muro e ricominciarono a torturare i loro strumenti, mentre Cesare tornò a piantare le torce e ad accenderle, visto che il sole era ormai calato e l'imbrunire volgeva al buio fitto.

Fu una notte di balli e risate, di grande casino, come Daniela e Chiara avevano sperato. A mezzanotte una torta gigante fu fatta a pezzi e spazzolata con abbondante innaffiatura di prosecco. Si formarono coppie, altre si mollarono, a metà bottiglie svuotate iniziarono i cori stonati. C'era ancora la risacca dello scirocco, per cui nessuno azzardò il bagno al buio. Ma l'essenziale, in fondo, era che il vento fosse cessato. L'aria era immobile, come in attesa di capire dove dovesse andare e si riposasse prima di riprendere il viaggio.

Sul finire della notte, Cesare si avvicinò a Roberto.

– È una festa riuscitissima, vero?

– Vero. Ce l'abbiamo fatta. Ma il tuo bicchiere è vuoto. Prendi, prova questo, è un cocktail di mia invenzione.

– Non sarà troppo forte, eh? Sono già bello pieno.

– No, fidati, vai tranquillo.

Due sorsi dopo, Cesare, con lo sguardo languido ma ancora in possesso di un residuo di facoltà mentali, gli disse:

– No, non è forte, ti stronca e basta.

Poi si andò a sdraiare sulla sabbia, dove comodamente perse i sensi.

Poco dopo, Roberto si sdraiò accanto a lui, mentre i musicisti riponevano gli strumenti stanchi. Ormai l'alba era vicina e tutti quelli che erano ancora svegli, l'aspettavano in silenzio, guardando verso est.

Roberto prese Cesare per mano. Quando gli capitava più un'occasione del genere? Nessuno se ne sarebbe accorto, neppure Cesare, ma quest'ultimo aprì gli occhi per un momento, guardò chi c'era al suo fianco e rassicurato si riappisolò.

 

Una volta uscito dalle nebbie alcoliche, Cesare dovette riportare il cortile a un aspetto normale e ripulire la spiaggia. L'aria era ancora immobile e il sole era un lanciafiamme capace di arrostire un pollo allo spiedo. Si mise in testa un sombrero che ornava orgogliosamente una parete, ricordo del viaggio di nozze dei suoi. In realtà non c'era poi tutta questa fretta, ma prima chiudeva la villa e prima sarebbe tornato in paese, dove avrebbe cercato altre scuse per rivedere Roberto. Non che gliene servissero di così fantasiose. Gli bastava andarsi a prendere un caffè o un gelato o una birra, a seconda che fosse mattina, pomeriggio o sera. Non vedeva l'ora. E invece, poche ore dopo, Roberto si presentò da lui dicendo che non trovava più i cavatappi.

– Sono sicuro che li abbiamo messi in una borsa termica.

– Allora chiederò in giro.

– Fai fare a Chiara.

– Sì, è una buona idea.

Intanto si guardavano coscienti entrambi che quella era solo una scusa, e che sotto la loro conversazione insulsa ne covava un'altra che non avevano ancora preso per le corna. Roberto si ricordò che Cesare l'aveva chiamato capitano. Quindi, come più alto in grado, spettava a lui parlare.

– Volevo fare un discorso, ma... non so proprio come.

Roberto fu inghiottito immediatamente da un profondo imbarazzo.

– Un discorso chiaro e perfetto è determinato da quattro cose: da ciò che bisogna dire, da quanto bisogna dire, dalle persone a cui bisogna rivolgersi e dal tempo in cui bisogna dirlo.

Dopo di che fu atterrato dall'assurdità di quello che aveva appena detto, ma Roberto non si scompose.

– Questa l'ho già sentita. È una citazione di Faletti?

– No, Platone. Ma che volevi dirmi?

– Niente. Me lo sono scordato.

– Peccato.

Cesare avrebbe voluto sprofondare. Roberto si diede del vigliacco.

– No, non me lo sono scordato. È che io i discorsi non li so fare. Sono più uno che fa i fatti, capisci? Le parole volano, le azioni restano. Nel bene e nel male poi uno se le ricorda.

– E che cosa mi devo ricordare?

– Questo, credo.

Roberto lo afferrò per la nuca e lo baciò con tutta la passione repressa in quegli ultimi giorni. Non ce la faceva più a tenersi tutto quel fuoco dentro. E che Cesare se lo scrollasse di dosso e lo cacciasse via, se aveva capito male. Ma Cesare non lo cacciò, anzi, lo strinse tra le braccia chiudendolo in un cerchio di muscoli nervi e poesia.

Poi, soddisfatto, Roberto guardò Cesare negli occhi.

– Sia lodato il fare, che il dire è una vera perdita di tempo.

– E sia lodato il baciare. Però non ho capito bene. Me lo ripeti?