1. LA GROTTA

Ero molto stanco, quella sera, eppure non riuscivo a dormire. La mia unica speranza era un libro che stavo leggendo a fatica da una settimana. Lo trovavo tanto noioso che iniziavo a sbadigliare dopo la prima pagina. Quella sera, invece, sospetto di essermi assopito dopo appena poche righe. O forse, più che assopito, ero andato in coma, con il libro sul petto e la luce accesa. Poco dopo avevo avuto l'impressione di cadere, come succede a volte, quando ci si trova in quel territorio incerto tra la veglia e il sonno.

Avevo riaperto gli occhi, convincendomi di trovarmi nel bel mezzo di un sogno. Camminavo, infatti, sotto un bellissimo cielo stellato, nitido al punto da sembrare una lastra di vetro nero. Davanti a me c'era una fila di persone in divisa blu, mi sembrava, ciascuna delle quali portava sulla schiena il simbolo fosforescente di un triangolo con un numero nel mezzo. Quello che avevo davanti era il 314. Per vedere gli altri era troppo buio. Il silenzio era irreale. Sentivo solo il passo attutito dall'erba di quelli che mi precedevano e mi seguivano. Io, unico tra tanti, indossavo ancora la mia tuta nera, quella che usavo al posto del pigiama, ed ero scalzo. Notai allora anche la differenza di temperatura. Benché fosse pieno inverno, nel mio sogno era senz'altro estate e la mia tuta era troppo pesante. Camminavamo spediti verso una collina che si stagliava nera davanti a noi, fino a che, attraverso le teste che avevo davanti, non riconobbi l'accesso di un'immensa grotta. All'ingresso erano accese alcune cellule fotoelettriche, che probabilmente servivano a guidare la nostra marcia.
Mi dissi che non ricordavo di aver mai fatto un sogno tanto lucido e in cui mi sembrasse di essere così sveglio, con tutti i sensi coinvolti. Sentivo l'erba sotto i piedi nudi, il suo odore, mescolato a quello di fiori che tuttavia non sapevo riconoscere, udivo il fruscio del vento; se mi tastavo, sentivo chiaramente il mio stesso tocco. Infine arrivammo tutti all'ingresso dell'antro, dove si trovava un uomo alto, imponente, che indossava una divisa simile a quella del piccolo esercito che ormai lo circondava.
Intanto qualcuno si era fermato accanto a me mormorando piano:
– Joaquin. Anche tu sei qui!
Voltandomi, riconobbi Mirko. Ero stato suo collega per qualche mese, prima che trasferissero gli uffici in un altro locale.
– Ciao – lo salutai.
– Che diavolo ci facciamo qui?
– Qui dove? Questo è un sogno.
– Lo pensavo anch’io, prima di darmi un pizzicotto sulla mano. Guarda. Mi è venuto un livido.
– È il sogno di un livido. Rilassati. Non ti sembra un sogno interessante?
– Non credo.
– Sentiamo cos'ha da dire quel tizio.
L'uomo si presentò con la sua voce stentorea.
– Signore e Signori, benvenuti al Centro di Addestramento della Flotta di Emergenza Soccorso Extrauniverso. Io sono il caposervizio Andrej Lorin Kaspen. Seguitemi all’interno e v’illustrerò dettagliatamente di che cosa si tratta.
Volsi uno sguardo ironico verso Mirko, che mi rispose con un'espressione smarrita. L'assurdità di quel sogno era incredibile. Mi veniva da ridere. Ero proprio curioso di sapere fin dove si sarebbe spinto.
Appena varcato l’ingresso, ci trovammo all’imboccatura di un tunnel illuminato di luce gialla che s’inoltrava per un centinaio di metri, fino a una parete metallica di tonalità petrolio. Come una squadra di militari ben addestrati, camminavamo con passo cadenzato, in fila per due, dietro il caposervizio Kaspen. Questi raggiunse la parete metallica e pigiò a mano piena su un grosso pulsante giallo. Immediatamente si aprì un varco nella parete, una porta di forma triangolare, con il vertice a circa tre metri di altezza dal pavimento di cemento, attraverso cui ci invitò a passare, precedendoci. Con passo sciolto e sicuro ci condusse attraverso lunghi corridoi illuminati, fino a una porta che aprì, fermandosi per farci entrare.
– Sedete pure dove preferite – suggerì.
La stanza fu ben presto affollata. C’era una cinquantina di poltroncine scomode, poste davanti a un leggio e a una lavagna bianca, di quelle su cui si scrive con i pennarelli. Mi sedetti in seconda fila, con Mirko accanto a me, aspettandomi che il caposervizio si ponesse dietro il leggio per fornire quelle spiegazioni di cui ero blandamente curioso. Fu l’ultimo a entrare, ma non parlò. Spense le luci e si sedette anche lui. Nessuno fiatò, anzi, sembrava che tutti trattenessero il respiro. Dopo alcuni secondi, uno schermo gigante calò sulla parete di fondo, rischiarandoci di una luminosità azzurrognola e fredda. Poi apparvero le prime immagini. Scorsero velocemente città, boschi, animali, coste, montagne, laghi, il tutto sottolineato da una colonna musicale che sembrava essere stata scelta a caso. Infine lo schermo si spense e le luci si riaccesero. Il caposervizio Kaspen era in piedi dietro il leggio e ci guardò per qualche secondo, prima di porre una domanda.
– Avete riconosciuto queste immagini?
Pensai di trattasse di una domanda retorica, quindi rimasi immobile mentre alcune teste si muovevano affermativamente e altre si agitavano per l'impazienza o il disagio.
– Rispondete, per favore – invitò il caposervizio.
– Sì – risposero tutti, a voce più o meno alta.
– Eppure voi non avete mai visto nessuna delle cose che vi ho mostrato.
Un mormorio salì dalla sala.
– Voi avete visto Terra-1, il luogo dove siete stati portati questa sera. Nessuno vi ha chiesto il permesso, lo so. Ma vorrei cominciare dall’inizio, se non vi dispiace. Non m’interrompete. Alla fine potrete fare tutte le domande che volete.
Il mormorio cessò.
– I nostri fisici avevano formulato già da alcuni anni una teoria secondo la quale il nostro non era l’unico universo esistente, ma non erano mai stati in grado di fornire prove efficaci o formule evidenti a dimostrarne la veridicità. Di recente, un giovane studioso è inciampato, se così si può dire, in una scoperta che ha reso tutto più chiaro. Io non sono un tecnico, quindi ve la spiegherò come l’hanno venduta a me, in parole povere. Esistono molti universi e in ciascuno di essi esiste una copia di noi stessi. Ogni elemento esistente ha una vibrazione di base. Tutto vibra, dal pianeta fino al più piccolo granello di sabbia. I mondi che vibrano con le frequenze più simili sono collegati da cunicoli aperti nel tessuto della materia scura, cioè quella che non vediamo. Ho detto aperti, ma avrei dovuto dire esistenti. In realtà non sono aperti, finché non li apriamo. Il come, riguarda quel campo di cui potrete eventualmente discutere con i nostri fisici, se siete interessati. Io mi limito ad annunciarvi che si è trovato il modo di aprirli. Però il problema è trovarli, perché non li vediamo. Sappiamo solo che esistono. Inoltre, poiché certamente ve lo state chiedendo, voi non siete stati teletrasportati qui. In realtà, siete ancora sul vostro pianeta. È qui soltanto una copia di voi, che si ricongiungerà a voi stessi, quando riattraverserete il cunicolo in senso contrario. Sappiamo che al vostro ritorno ricorderete ciò che avete fatto o pensato qui. E questo certo vi potrà sembrare strano, ma a quanto pare dipende dalla consistenza immateriale dei pensieri. Essi lasciano un’impronta elettromagnetica che funge da memoria. Quindi, anche se il vostro cervello materiale è rimasto sul vostro mondo, voi potrete ricordare.
Molte mani si alzarono, ma il caposervizio continuò imperterrito.
– Le domande a dopo. Come vi dicevo, abbiamo iniziato a trovare i cunicoli che ci collegano ad altri mondi e quando gli sperimentatori hanno deciso di farvi passare alcune cavie, ci siamo trovati di fronte a una sorpresa: la cavia spariva per un attimo, ma rimaneva qui. All’inizio si credeva che rimanesse qui e non accadesse nulla, finché non ci si accorse che appariva a poca distanza un suo duplicato. Il luogo in cui appariva il duplicato era sempre diverso da cunicolo a cunicolo, finché ciò permise di tracciare una mappa. Gli scienziati compresero che le cavie duplicate provenivano da mondi paralleli ed erano tutte in buona salute. Così decisero di tentare l’esperimento con un volontario umano. Si è compreso solo in seguito che l’uomo arrivato qui non era esattamente stato trasportato, ma soltanto duplicato attraverso il passaggio nel cunicolo. Comunque, al suo rientro ricordava le sue esperienze su questo piano della realtà. Quello che ancora non comprendiamo è cosa potrebbe accadere alla nostra copia sugli altri universi nel caso accadesse qualcosa di grave qui. Voglio dire, se durante il soggiorno su un altro piano dovesse morire, cosa accadrebbe nel suo piano di appartenenza? Non lo sappiamo. Una volta definita la vostra posizione qui, vorrei dirvi perché ci siete. Uno dei compiti che ci siamo prefissi è quello di studiare la Terra in tutti gli universi raggiungibili. A questo scopo facciamo percorrere il cunicolo in senso contrario a nostri agenti addestrati allo scopo. Come vi dicevo, in ogni Terra esistono minime differenze che possono aiutarci a trasformare questo in un mondo migliore, se comprenderemo come gli altri ci sono arrivati. Non tentiamo mai in nessun modo di deviare il destino di altre Terre, ma le studiamo soltanto. Fino a poco tempo fa, tutti i nostri agenti sono sempre tornati indietro indenni, ma ultimamente è accaduto qualcosa che ci ha fatto ritenere fondamentale costituire un contingente di emergenza soccorso. Alcuni agenti si sono persi nel viaggio di ritorno. A quanto pare, in alcuni cunicoli, si è aperto un ulteriore canale che i tecnici hanno definito biviospaziale. Mi hanno spiegato che è un po’ come se all’interno di una bolla di sapone si formasse un’altra bolla molto più vasta della prima. Non so spiegarvi come questo possa avvenire, perché il mio cervello si rifiuta di ammettere una possibilità del genere, ma loro sono pieni di formule a supporto di questa tesi e a me non resta che crederci, senza capire. I nostri agenti si sono persi in queste bolle più grandi e noi stiamo addestrando personale che sia in grado di attraversare i bivispaziali dei cunicoli per trovare gli agenti dispersi e riportarli qui. Il motivo per cui siete stati scelti è che qui su Terra-1 le vostre identità-copia sono addestrate a questo compito e quindi abbiamo la certezza che anche voi potrete essere in grado di espletare gli stessi compiti, benché sui vostri mondi facciate sicuramente tutt’altro. Il luogo da cui provenite è stato battezzato con un numero, cronologicamente assegnato nel momento della scoperta del cunicolo a cui si riferisce. Finora abbiamo scoperto 343 universi paralleli. Ciascuno di voi può viaggiare nel cunicolo di appartenenza del suo mondo senza alcun pericolo, poiché, se qualcosa andasse storto, vi ritrovereste comunque sul vostro piano, senza problemi. Quanto a ritrovare gli agenti dispersi, fino a oggi, sono stati tutti ritrovati. E adesso, se avete domande, prima che vi mostri come avverrà il vostro viaggio, sono pronto a rispondere.
Si alzarono immediatamente decine di mani.
– Bene. Allora iniziamo dal fondo a destra.
– Cosa succede se ci rifiutiamo? – chiese una voce.
– Succede che tornerete indietro. Non abbiamo intenzione di obbligare nessuno.
– Quante volte avete fatto fare questo viaggio nei bivispaziali, per essere così sicuri che non può accaderci nulla? – chiese un’altra voce.
– All’incirca una ventina. In tutti questi casi il nostro agente è stato ritrovato e il ricercatore è tornato a casa.
– In che modo avviene il viaggio?
– Vorrei rimandare questa risposta alla seconda parte delle nostre spiegazioni, quando sarete portati a visitare l’hangar.
– Vuol dire che dovremmo guidare delle astronavi?
– Ecco, non esattamente. Direi che siete voi l’astronave.
Un coro di proteste e di altre domande si alzò contemporaneamente fino a rendere impossibile udire la voce del caposervizio che tentava di domare la sommossa. Infine, visti  inutili i suoi sforzi per ricondurre alla calma l’assemblea, si diresse a una serie di interruttori e ne attivò uno. L’intera parete di fondo iniziò a scorrere, aprendo la vista su una grotta vastissima, affollata di apparecchiature e di camici bianchi che si agitavano di qua e di là.
– Questo è l’hangar. È giunto il momento di mostrarvi come funziona – affermò il caposervizio, agendo su un nuovo pulsante che spalancò un ulteriore varco nella vetrata che separava i due ambienti.
Io mi alzai con gli altri e varcai la porta, lanciando uno sguardo al caposervizio, che lo ricambiò, osservando stupito il mio abbigliamento.
Quel sogno mi sembrava sempre più assurdo, ma in esso vi era anche uno strano fascino, che mi teneva avvinto.
Ci ritrovammo tutti su una specie di balconata affacciata direttamente sul vasto antro rivestito interamente di metallo azzurrino. Davanti a noi si stendeva una moltitudine di uova di vetro all’interno delle quali s’intravedeva una poltroncina. Alcune erano occupate da persone vestite come i miei compagni di viaggio. Non si riusciva a vedere cosa facessero, ma i tecnici in camice bianco si affaccendavano intorno a loro su misteriose apparecchiature. Il silenzio era irreale.
– Scendiamo – ordinò il caposervizio, precedendoci alla scaletta metallica che conduceva in basso, verso il lontano pavimento di metallo.
Quando lo raggiungemmo,  Kaspen ci introdusse in una grande stanza dalle pareti trasparenti. Al centro era situata una delle uova di vetro.
– Questa è la navetta in cui viaggerete. Avvicinatevi pure. Come potete vedere, non ci sono apparecchiature, solo una consolle, con le impronte delle mani. Sono state costruite su misura di ciascuno di voi grazie ai vostri alter-ego di Terra-1. Per rispondere alla prima domanda che mi è stata rivolta, se vi rifiuterete di partecipare a questo esperimento, dovremo trovare un altro agente adatto su questo mondo che corrisponda a un agente adatto nel vostro. Tutto qui. Si tratterà soltanto di costruire una nuova consolle. La guida è tutta mentale, non strumentale.
– Vuol dire che viaggeremmo col pensiero? – chiese Mirko.
– Per così dire. Noi apriamo il cunicolo e voi vi entrate semplicemente perché siete in risonanza con il mondo cui conduce. Quando l’agente rientra qui, voi rientrate nel vostro mondo.
– Ma come avviene? Voglio dire, è come uno scambio di persona?
– Diciamo che lo spazio che voi occupate è sostituito dallo spazio che occupa l’agente smarrito.
– Lei si rende conto che quello che ci sta dicendo può sembrare pazzesco?
– Me ne rendo conto. Lei si è reso conto di come sia arrivato qui?
– No.
– Eppure ci è arrivato. È stato attirato dalle onde elettromagnetiche di un pensiero. La vibrazione del suo alter-ego di Terra-1 l'ha attirata qui, con un viaggio indolore e immateriale. Se tutto questo le sembra inconcepibile, e la comprenderei benissimo, può tornare indietro nello stesso modo.
– Dove sono i nostri alter-ego? – gli chiesi, stando al gioco di quel sogno folle.
– Laggiù - rispose indicando un’altra stanza a vetri in fondo al locale, dove una fila di una cinquantina di persone in divisa blu erano sedute immobili, come se dormissero.
– Il mio amico e io proveniamo dallo stesso mondo. Come mai siamo in due? – chiese Mirko.
– Per risparmiare tempo, scegliamo due agenti per ogni livello, nell'eventualità che uno dei due non accettasse di partecipare all’operazione. Molti si sono rifiutati in passato.
– E se accettassimo entrambi?
– Vi dividereste il lavoro che potrebbe presentarsi.
Mirko mi guardò.
– Io ci sto – scherzai, in risposta alla sua domanda muta.
– Anch’io – annunciò Mirko, molto seriamente.
– Bene. Allora mi pare giunto il momento di fornire la vostra disponibilità – affermò Kaspen, guardando gli altri.
– Non così presto. Ci deve molte più spiegazioni – obbiettò una voce dietro di noi.
– Chi ha bisogno di ulteriori delucidazioni mi segua. Ci sono tecnici che possono fornirvi chiarimenti più approfonditi di quanto possa fare io. – disse il caposervizio – Gli altri mi aspettino qui.
Quando tutti gli indecisi furono usciti, Mirko e io ci ritrovammo in compagnia di altre sette persone.
– Sei sempre convinto che si tratti di un sogno? – mi chiese Mirko.
– No. Adesso penso che sia frutto della follia, all'interno di un sogno.
Mirko rise e mi assestò una pacca sulla spalla. All’improvviso mi resi conto che Mirko indossava una divisa come gli altri, mentre io indossavo la mia tuta. Gli feci notare che quella era la prova che io stavo sognando.
Kaspen tornò giusto in tempo per ascoltare la mia battuta.
– Come si chiama? – mi chiese il caposervizio.
– Joaquin Ernandez.
– È la prima volta che un agente reclutato arriva qui con un abbigliamento diverso da quello dell’agente reclutante. Molto strano. Torno subito – disse, allontanandosi in fretta e afferrando un ricevitore appeso alla parete. Dopo poche frasi secche riagganciò e tornò indietro.
– Su questo livello tutti i nostri agenti indossano divise blu. Anche lei, Joaquin, avrebbe dovuto indossarne una esattamente identica.
Senza insistere sul fatto che ritenevo di trovarmi in un sogno molto lucido, m’interessai piuttosto a capirlo meglio. 
– Cosa intende esattamente per livello?
– Ecco, mi aiuterò con un disegno – disse, avvicinandosi a un cavalletto da cui pendeva un blocco di grossi fogli bianchi. 
– Immaginate che tutti gli universi siano dei grossi dischi uno appoggiato sull’altro. Sono tutti identici e la Terra è presente in tutti, più o meno nella stessa posizione. – disse, disegnando una specie di anguria tagliata a fette – Se vi rappresentate gli universi in questo modo, a ogni universo corrisponde un livello. È come un grattacielo con i suoi piani. Noi, infatti, chiamiamo ogni universo piano o livello. E li abbiamo numerati, via via che siamo riusciti a instaurare un contatto attraverso un cunicolo, che è come un ascensore che unisce i vari piani. Solo che l’ascensore, in questo caso, è in posizione diversa da piano a piano. Insomma, viaggiando in questo palazzo, il problema è trovare l’ascensore.
–  Quindi questi ascensori non sono l’uno sopra l’altro.
– No. Sono l’uno dentro l’altro. Ma non mi chieda come. Io non l’ho ancora capito. Ogni universo è come una bolla dentro un’altra bolla, se questo può avere un senso, per lei.
– E se noi andassimo da un livello all’altro, potremmo cambiare qualcosa in quel livello?
– No. Non credo. Dovrei chiedere a che punto sono i nostri ricercatori. Non sono molto aggiornato. Sa, appena iniziano a spiegarti qualcosa, ricorrono subito all’aiuto di formule e temo proprio di non riuscire a seguirli. Io non sono un fisico. Ma se le interessa, può parlare con loro.
– No, grazie, anch’io fatico a seguire le formule – risposi ridendo.
Kaspen si unì alla mia risata.
– Inoltre, non sarebbe corretto nemmeno parlare di universi, ma di macro-universi, o multiversi, contenenti molteplici, forse infiniti universi. Naturalmente è un modo per semplificare. Il multiverso che conosciamo, questo palazzo, è uno solo. È attraverso i suoi piani che viaggiamo. Se incontrassimo un altro macro-universo, questo sarebbe certamente molto diverso dal nostro, un altro palazzo, diciamo. Non ci siamo ancora mai imbattuti in un altro multiverso, ma sappiamo che esistono, o meglio, sono le formule dei fisici a sostenerlo. Probabilmente non hanno ancora studiato un modo per aprire canali d’iperspazio che permettano la comunicazione tra un macro-universo e l’altro. Per ora ci basta viaggiare da un livello all’altro del nostro, e questo ci tiene già abbastanza occupati.
In quel momento entrò uno dei tecnici in camice bianco e Kaspen lo presentò, lasciando a lui la responsabilità del gruppo.
– Venga con me, Joaquin - m’invitò, avviandosi fuori.
Io lo seguii fin nel primo corridoio che avevamo percorso per giungere all’aula. Kaspen si fermò davanti a una porta e bussò. Quando la porta si aprì, Kaspen mi condusse all’interno, dove una donna dall’aspetto rassicurante ci fece accomodare, di là dalla scrivania su cui stava lavorando. Si staccò dal computer e ci guardò in faccia, prima l’uno e poi l’altro.
– Cosa mi hai portato, Kaspen?
– Questa è la recluta Joaquin Ernandez di Terra-49, dottoressa Frank, è arrivato qui con un abbigliamento diverso da quello del suo alter-ego, come può vedere.
La dottoressa Frank mi osservò per qualche secondo.
– È la prima volta che viene qui?
– Sì – rispondemmo in coro.
– Questo è davvero insolito. Davvero insolito – commentò la dottoressa Frank, afferrando un cellulare appoggiato sulla scrivania e digitando velocemente un paio di tasti.
– Vieni subito – si limitò a dire, prima di chiudere la comunicazione.
Dopo poco ci raggiunse un uomo, dall’aspetto preoccupato.
– Che succede? – chiese, guardandoci.
– Le presento il dottor Robert Wooddy. Questa è la recluta Joaquin Ernandez. È arrivato qui vestito come vedi, Robert.
– E il suo alter-ego è in divisa?
– Diversamente non l'avrebbero fatto nemmeno accedere all'hangar, ti pare?
– Ma non può essere.
– Lo so, ma è accaduto. Che conseguenze ne possiamo trarre?
– Può darsi che la recluta qui presente non si sia duplicata nel viaggio, ma che abbia viaggiato fisicamente? Sarebbe incredibile. No, io propendo per la spiegazione più semplice. Il suo alter-ego si è presentato in tuta per qualche motivo.
– Allora che ne diresti di andare a controllare?
– Vado ad accertarmene subito. Ci dev'essere una spiegazione molto banale per tutto questo – dichiarò Robert, uscendo dall’ufficio.
– Infatti, la spiegazione è che sto sognando e tra poco mi sveglierò nel mio letto, dove sono andato esattamente con questa tuta.
– Mi dispiace doverla contraddire, ma tutto questo è reale. Lei è qui davvero, compresa la sua tuta.
– Spiacente, ma non ci credo.
– Prima o poi se ne farà una ragione.
La lasciai parlare. Sapevo che era un sogno, molto articolato, molto realistico, sebbene assurdo, ma pur sempre un sogno, dal quale mi sarei svegliato quanto prima. Dovevo solo aspettare che la sveglia suonasse. Decisi quindi di assecondarla. Non mi costava niente. E se fossi riuscito a rilassarmi, avrebbe potuto essere persino divertente.
– Significa che se qualcuno entrasse adesso nella mia camera da letto la troverebbe vuota? – le chiesi.
– Credo proprio di sì.
– Ma è terribile! – esagerai – Il tempo che passo qui ha la stessa lunghezza del tempo che sta scorrendo sulla mia Terra?
– Dai dati in nostro possesso, sembrerebbe di sì. Esistono poche eccezioni di violazione dell'invarianza temporale.
– Quindi tra poco dovrei presentarmi al lavoro - commentai, pur ignorando cosa fosse la violazione di cui stava parlando. Non mi sembrava il momento di approfondire nozioni di fisica di cui non m'importava un beato fico secco.
– Se tornasse al suo piano.
– Mi vorreste sequestrare? – non riuscii a fare a meno di indignarmi.
– No, si calmi. Farà il viaggio in senso contrario esattamente fra trenta minuti. Però abbiamo bisogno che ritorni qui, quando la richiameremo.
– Tornerò. Ma devo proprio andarmene, ora, se non le dispiace.
Fingevo, ma nello stesso tempo mi rendevo conto che ero agitato sul serio.
– Certamente. La comprendiamo perfettamente.
– Mi scusi, ma se ho viaggiato fisicamente, e non è mai accaduto prima, siete certi di potermi rimandare indietro?
– Bella domanda – si limitò a commentare la dottoressa Frank, con uno sguardo smarrito che non le si addiceva affatto.
– Kaspen, è pronta la navetta per il viaggio di ritorno?
– Naturalmente, dottoressa.
– Perché la navetta? – chiesi, incuriosito mio malgrado.
– Per farvi compiere il viaggio di andata ci affidiamo al richiamo dei vostri alter-ego, mentre per quello di ritorno ci avvaliamo delle navette, per impedire che possiate perdervi. Le navette amplificano la vostra capacità di risonanza. Diciamo che voi vibrate come il vostro pianeta, ma se il pianeta è sordo o voi avete la voce troppo fioca, noi vi aiutiamo a riconoscervi mediante un amplificatore.
– Agli altri è capitato di perdersi?
– Raramente.
Ecco. Nel sogno cercavo di giustificarmi già il risveglio. Menomale.
– Ma non so come si guida – obiettai, tanto per restare nel gioco onirico.
– Non ce n’è bisogno – rispose la dottoressa Frank, con un sorriso rassicurante.
Così, poco dopo, mi ritrovai seduto all'interno di una navetta costruita appositamente per me. Non c’erano strumenti, né leve o pulsanti di alcun genere. Tutto era perfettamente spoglio e levigato. L’unica consolle consisteva in una lastra liscia e morbida con l’incavo delle impronte delle mie mani. Le istruzioni erano state molto semplici. Kaspen aveva detto di appoggiare le mani sulle impronte e desiderare di tornare a casa. Tutto qui. Solo all'interno di un sogno un viaggio del genere poteva essere tanto semplice, quasi stupido e banale. Rispecchiava esattamente la mia scarsa fantasia. Con questa ironica consapevolezza, mi limitai a eseguire gli ordini. Ma non accadde nulla. Guardai fuori dall’uovo di vetro con finto imbarazzo. Kaspen, a gesti, mi consigliò di riprovare, ma, per la seconda volta, non ottenni alcun risultato. Quel sogno cominciava a sembrarmi insopportabilmente stupido. Kaspen si grattò la testa, volgendo lo sguardo interrogativo ora verso il tecnico, ora verso Robert, che arrivava in quel momento, con un’espressione decisamente stupita. La dottoressa Frank mi guardò come se fossi trasparente. In realtà credo che non osservasse me, ma il problema che costituivo. Mi fecero uscire dalla navetta, mentre parlavano tutti insieme.
– Qualcuno di lor signori ha una possibile spiegazione?
Ma nessuno fiatò. Robert si avvicinò alla Frank e le disse che il mio alter-ego era scomparso e che questo probabilmente significava che ci eravamo imbattuti in un tunnel di iperspazio, scambiandoci di posto. Per chiarire la cosa, doveva revisionare alcune formule.
– Sì, vai pure, Robert. Questo cambia tutto. Dobbiamo valutare come inserire questa eccezione nel nostro protocollo.
– E io? – domandai, mentre sentivo dentro una strana voglia di ridere, tanto quel sogno si era fatto ridicolo.
– Purtroppo, dovrà restare qui, finché non avremo capito cosa è accaduto. Il suo alter-ego si trova su Terra-49 fisicamente, in questo momento, quindi lo scambio è avvenuto in un modo che non ci aspettavamo. Il problema è che, al momento, non siamo in grado di ripetere lo scambio. Mi rincresce, ma non c’è modo di risolvere la questione, finché non capiremo noi stessi come sia accaduto. Venga. Kaspen le assegnerà un alloggio momentaneo.
Nonostante tutto, rimasi turbato. Una parte di me cercava di convincermi che stavo vivendo una situazione reale, l'altra continuava a negare questa possibilità senza concederle nemmeno l'ombra di un possibile dubbio.
Poco dopo, mentre percorrevamo i corridoi, chiesi a Kaspen:
– Secondo lei il mio alter-ego sarà in grado di sostituirsi a me?
– È possibile. È certo che sia arrivato a Terra-49 come lei è arrivato qui, con tutte le sue facoltà. Quindi sì, potrebbe, perché ci sono pochissime differenze tra Terra e Terra, per quel che abbiamo potuto valutare finora.
– Non potrebbe darsi che proprio perché il mio trasferimento è avvenuto completamente, con tutte le mie facoltà, mi sia impossibile tornare indietro?
– Può darsi. Si deve essere verificata un’anomalia nel tunnel ed è proprio quello che adesso cercheranno di scoprire, non si preoccupi. Sarà senz’altro un’anomalia riproducibile.
In realtà le spiegazioni di Kaspen non mi interessavano affatto, mentre mi introduceva in una stanza contrassegnata dal numero 107. Presto mi sarei svegliato.
2. UNA NUOVA CASA

Mi guardai intorno. La stanza era piccola, ma v’era annesso un minuscolo bagno, completo di tutto, che sfruttava lo spazio al millimetro, un vero miracolo di architettura. Nella camera c’erano un letto, un piccolo armadio a muro, una sedia e una scrivania. Un poster attaccato alla parete simulava una finestra con vista sul mare. Un orologio appoggiato sul piano della scrivania segnava le tre. Pensai che fosse giunta l’ora di mettermi a dormire. Guardai nell’armadio, scoprendo che al suo interno erano contenuti un accappatoio, ciabatte di spugna e asciugamani, tutti avvolti nel cellofan. In fondo, era come trovarsi nella cabina di terza classe di una nave da crociera. Kaspen mi chiese quale taglia indossassi e poi sparì, per tornare poco dopo con una divisa blu, come ne avevo viste indosso agli altri, un paio di calzettoni spessi e un paio di anfibi. Puntai la sveglia alle otto e mi addormentai quasi subito.
E poi, finalmente, fui a casa e guardai la mia stanza come se mi fosse completamente sconosciuta, chiedendomi inoltre cosa ci facessi là. Tutto mi era estraneo, dagli abiti appesi nel guardaroba, ai flaconi sparsi sul ripiano dello specchio in bagno. Persino la mano che allungai, per prenderne uno, portava un grosso anello, ma io in realtà non avevo mai portato anelli. Sollevai lo sguardo allo specchio. C'ero. Ero io, con la solita zazzera sconvolta, con la solita faccia anonima, segni particolari: nessuno. Tutto regolare. Ma c'era quell'anello. Da dove diavolo era sbucato?
Mi era capitato in passato di sognare di svegliarmi, per poi svegliarmi al suono della sveglia e scoprire con un certo disagio che quello che mi era apparso vero era ancora un sogno.
Mi svegliò il trillo acuto dell’orologio, con un sobbalzo e l’impressione di subire un netto strappo. Alleluia, pensai, finalmente mi sono svegliato. Aprii gli occhi, trovandomi sulla testa un rassicurante soffitto bianco, ma poi cercai con lo sguardo il mio lampadario a pale. Era scomparso. Mi precipitai giù dal letto, ritrovandomi ancora nella stanza 107.
Non può essere, pensai. Sono sveglio o no? Mi ci volle un bel po' per arrendermi all'evidenza. Ero sveglio, sì, ma ancora prigioniero di quel Centro dell'accidente. Tornai con la mente a tutto quello che mi era accaduto, dal momento in cui mi ero messo a letto per leggere uno stupido libro, fino al momento in cui mi ero addormentato in quella stanza. Come cazzo era stato possibile? Come avevo fatto a cacciarmi nei guai senza neppure muovermi di casa? Come avrei fatto a uscirne? Non sapevo nulla di fisica, né di universi paralleli, di multiversi o di esperimenti militari segreti. Non sapevo niente di niente. Vi ero capitato in mezzo contro la mia volontà e senza neppure che mi chiedessero il consenso. Ero prigioniero di quel mondo che dicevano uguale al mio, ma non mi sembrava una gran consolazione. Poi riflettei su un pensiero allarmante. Nel mio mondo i militari sapevano perfettamente come mantenere il segreto sui loro esperimenti. Avevo letto in proposito diversi romanzi, avevo visto un sacco di film, se ne discuteva ogni tanto persino tra amici. Era un classico. Il paradigma recitava che il testimone che sa tenere la bocca chiusa è il testimone morto. E in quel mondo poteva forse essere diverso? No. La mia unica speranza di salvezza era che li assecondassi e poi tentassi una fuga alla prima occasione.
Dopo la doccia, indossai la divisa e varcai la porta. Il corridoio era deserto. Sperando di riuscire a orientarmi senza aiuto, mi avviai a passo deciso nella direzione da cui ero arrivato poche ore prima. Speravo di ritrovare l'uscita e tentare di andarmene senza salutare.  All’incrocio dei corridoi però m’imbattei in Kaspen.
– Stavo venendo a chiamarla. Ha dormito bene?
– Abbastanza.
– È arrabbiato?
Sapeva leggere sulla mia faccia.
– Sarebbe nel suo diritto – continuò – e non potrei certo biasimarla. Purtroppo non abbiamo pronta una soluzione per lei, ma sono certo che ci arriveremo. Per il momento, l'unico consiglio che posso darle, è quello di rassegnarsi. Sì, insomma, di avere pazienza.
– Si rende conto delle implicazioni? Come faccio a rassegnarmi?
– Pensi che c'è un disegno in tutto questo e lo assecondi. Forse le sarà d'aiuto.
– Bella idea. Grazie infinite – gli dissi con un'amarezza che non riuscivo a nascondere.
– Badi a concentrarsi sulle cose che le paiono strane, magari possono aiutarci in qualche modo a rimandarla a casa.
Feci un respiro profondo.
– In effetti ho fatto un sogno strano. Ero a casa mia, ma mi sembrava di non riconoscere niente. Avevo un anello al dito, ma io non porto anelli.
– È possibile che sia entrato in contatto con il suo alter-ego. Lei ha qualcosa di decisamente diverso dalle altre reclute, – commentò il caposervizio, soprappensiero – adesso le mostro la mensa. Dopo colazione, andremo a raccontarlo alla Frank.
La sala mensa era piuttosto vasta, dipinta della stessa tonalità di turchese pallido che caratterizzava l’intera zona del complesso. I tavolini potevano ospitare quattro persone. Kaspen e io ci sedemmo l’uno di fronte all’altro con i nostri vassoi.
– È sposato? – mi chiese il caposervizio.
– No – risposi, senza aggiungere ulteriori spiegazioni. Non mi sembrava il caso di confidargli ancora un bel niente della mia vita.
– Vive con qualcuno? – insistette Kaspen.
– No. Vivo da solo.
– Menomale – esalò lui.
– Perché?
– Se non dovessimo riuscire a rimandarla indietro in fretta, nessuno ci baderà. Nello stesso tempo, il suo alter-ego riuscirà ad ambientarsi e organizzarsi con calma. Lo conosco, è un uomo in gamba. Saprà sistemare le cose.
– E se non riuscissi più a tornare?
– Temo che anche lei dovrà riorganizzarsi. Non ci sono molte differenze tra una Terra e l’altra. Sono certo che si ambienterebbe a meraviglia su Terra-1.
– Kaspen, lei ha mai viaggiato da un mondo all’altro?
– No. Sono sempre rimasto qui.
– E come fa a dire che ci si può facilmente adattare a vivere in un mondo diverso dal proprio?
– Perché so che le differenze, nella maggior parte dei casi, sono quasi trascurabili.
– Se sul mio mondo ho appena rotto una relazione, lo stesso è capitato qui all'altro Joaquin?
– All’incirca. Può capitare che però la situazione tra voi sia leggermente sfalsata nel tempo.
– Quindi, qualche differenza, dopotutto, esiste. Può darsi che qui il mio ex non sia ancora ex?
– Tra Terra-1 e Terra-49 c’è uno sfasamento di poche ore. Non è sufficiente perché le cose siano differenti – affermò, con una strana espressione.
Kaspen era un pezzo d'uomo, ma trovavo in lui una netta contraddizione tra il suo aspetto e i suoi atteggiamenti.
– Lei è un militare di carriera? - gli chiesi, incuriosito.
– No, no. Io sono un civile. Fungo da collegamento tra i civili che arruoliamo, i militari della base e gli scienziati che lavorano al progetto. Prima mi occupavo solo della logistica, per questo mi sono trovato a fare da tramite tra le necessità degli scienziati e quelle dei militari. Il mio lavoro è stato apprezzato abbastanza da affidarmi il compito della prima accoglienza delle reclute, al loro arrivo.
– La sua divisa mi aveva fuorviato.
– Anche lei indossa una divisa – commentò il caposervizio, sorridendo ironicamente.
– Ha ragione.
– Joaquin, la sua situazione qui è decisamente anomala. Avrà tutto il mio appoggio. Non si sentirà abbandonato al suo destino, non tema – mi confortò Kaspen, appoggiando una mano sulla mia, come per suggellare un patto.
– Grazie, Kaspen – gli risposi, facendo appello alla mia educazione. Non volevo essere scortese, ma non volevo essere accolto, non volevo essere confortato e nemmeno aiutato. Io volevo solo andarmene al più presto da lì.
– Adesso andiamo dalla Frank. Deve raccontarle il suo sogno.
– Ritiene davvero che sia importante?
Mi ero già pentito di averglielo raccontato.
– Non lo so. Non sono uno scienziato – mi rispose sorridendo.
Kaspen aveva lo sguardo di una persona buona. Questo pensiero mi stupì. Sembrava che volesse aiutarmi davvero.
La Frank ci ricevette nel suo studio, immediatamente.
– Vi aspettavo, – esordì, facendoci accomodare sulle poltroncine di fronte alla sua scrivania – l’équipe di Robert ha una teoria. Lei e il suo alter-ego potreste essere passati da un varco dell’iperspazio, che si è aperto nella stessa direzione del tunnel, probabilmente inglobandolo. Per questo vi è stato possibile trasportarvi con i vostri corpi. Anch’io credo che sia l’unica spiegazione plausibile dell’accaduto.
– Quindi ritenete che i tunnel nell’iperspazio trasportino la materia.
– Sì, e sembra proprio che questa sia la prova più evidente, e oltretutto ci apre nuove frontiere. Fino a questo momento, i modelli matematici si erano fermati allo studio dei cunicoli tra un livello e l'altro del multiverso, e alla necessità di trovarne nell'iperspazio per raggiungere altri multiversi. Invece la sua presenza qui ci dice che i cunicoli dell'iperspazio trasportano la materia anche tra un livello e l'altro. È una scoperta formidabile – affermò la Frank.
– Ma voi, allo stato attuale, non sapete ancora come riprodurli, giusto? – domandai, pur conoscendo già la risposta.
– Non riusciamo a studiarli a sufficienza. Si aprono a sorpresa e troppo raramente. Ma ci arriveremo.
– Quindi per ora non potrò tornare indietro – conclusi amaramente.
– Purtroppo, attualmente, è impossibile – mi confermò la Frank, con espressione contrita.
– E il mio alter-ego resterà al mio posto.
– Sì, anche lui si trova nella sua stessa incresciosa situazione, con l’aggravante che non può comunicare con noi e quindi è all’oscuro di tutto.
– E adesso io che faccio? – mi domandai ad alta voce.
– Kaspen, ci pensi lei, per favore. Prenda il fascicolo di Joaquin, trovi il suo indirizzo e tutto quello che può interessargli. Vorrei però che tornasse qui, quando la ricontatteremo. Lo farà?
– Certamente.
Ma davvero mi avrebbero permesso di tornare a casa? Anche se non era esattamente casa mia, avrei potuto convincermi che lo fosse?
Kaspen mi condusse in un ufficio pieno di schedari. Un uomo, seduto a una scrivania posta di fronte alla porta d’ingresso, chiese in che cosa poteva esserci utile. Poco dopo, il caposervizio aveva tra le mani il mio dossier. Beh, non proprio il mio, ma quello del mio alter-ego, in realtà. L’indirizzo di casa era lo stesso. Stesso lavoro, stessi conoscenti, stessi hobby, stesso tutto. Ma io non portavo anelli.
– Dove siamo qui? – chiesi a un tratto, rendendomi conto che non ne avevo la più pallida idea – Europa? Stati Uniti? Australia?
– Non posso dirglielo – rispose Kaspen, contrito.
– E come ci torno a casa? – gli domandai ancora.
– A questo penseremo noi, non si preoccupi.
Già immaginavo un lungo viaggio con un cappuccio in testa.
A un tratto Kaspen si bloccò in mezzo al corridoio che stavamo percorrendo, mi mise una mano sulla spalla e mi guardò dritto negli occhi. Era poco più alto di me.
– Contrariamente a quello che crede la dottoressa Frank, io penso che le proporranno di arruolarla definitivamente. Temo che non la lasceranno andare. Lo capisce? Questa Base è coperta da segreto militare. Se lei dovesse farsi sfuggire anche una sola parola, di quello che ha visto o sentito, il progetto potrebbe diventare di dominio pubblico, con conseguenze inimmaginabili. Se lei dovesse insistere per andarsene da qui, i militari potrebbero cedere alle sue richieste, ma non la lascerebbero vivere. Ho visto come agiscono.
– Sì, capisco. Costituirei una mina vagante.
– Cosa andrebbe a fare a casa? Questa non è neppure casa sua. Ritiene di avere qualche pendenza?
– No. Nessuna pendenza.
Solo un amore appena nato, che non avevo avuto il tempo di vivere. Avrei mai rivisto Paul? Esisteva un Paul su quel mondo?
– Allora resti qui. È più sicuro, per lei, mi creda. Denunceranno la scomparsa del suo alter-ego e sarà soltanto una pratica in più sulla scrivania di qualche povero diavolo impiegato all’Ufficio Persone Scomparse. La dimenticheranno. L’importante è che lei non si faccia mai vivo con nessuno – concluse Kaspen.
La sua raccomandazione mi parve del tutto superflua, dal momento che in quel mondo non avevo davvero nessuno con cui farmi vivo.
– Dunque, lei pensa che una volta fuori di qui, sarei spacciato.
– Non possono permettere che qualche notizia filtri. Non ancora. I militari sono fatti così – ammise Kaspen.
Me l'aspettavo. Su Terra-1 vigevano gli stessi sistemi ed equilibri che su Terra-49.
– D’accordo. Allora mi devo organizzare. Mi servono spazzolino da denti, biancheria intima e calzettoni. Può aiutarmi? – gli proposi.
Kaspen fece un sospiro di sollievo, dal quale compresi che mi aveva già dato per spacciato.
– Ne sarò felice – rispose, con l’espressione rasserenata di uno che s’è tolto un grosso peso dalle spalle.
– E poi ho dimenticato di raccontare il mio sogno alla Frank.
– Prima pensiamo al suo corredo.
– Resterò alla 107?
– No, per i residenti abbiamo stanze più adatte, con tutti i confort. Ce n’è una libera proprio accanto al mio alloggio. Venga. Passiamo prima allo spaccio.
Di corridoio in corridoio giungemmo a un piccolo centro commerciale. Gli acquisti si effettuavano passando il cartellino personale, in luogo del classico bancomat. Kaspen utilizzò il suo, spiegandomi che avrebbe pensato lui a scaricare il materiale. Mi procurai tutto quello che mi serviva per le prime necessità, quindi, dopo aver percorso un altro paio di corridoi, giungemmo a un ascensore. Kaspen pigiò il tasto due.
– Mi sono perso.
– Non importa. Ci farà presto l'abitudine.
Le porte dell'ascensore si aprirono.
– Eccoci al secondo livello, quello dei residenti.
Qui le pareti erano bianche, con le porte di un caldo giallo senape, così come i corrimano e il pavimento. Tutto appariva più luminoso. Passammo davanti a una piccola mensa, a una biblioteca, a una saletta cinematografica e a un bar, prima di imboccare un largo corridoio con porte numerate. Kaspen si fermò davanti alla 223, aprì la porta e mi lasciò entrare. Era più vasta di quella in cui avevo dormito.
– Come vede, qui c’è più spazio. Ha un computer, impianto audio e video, un piccolo frigo. Le luci hanno frequenze solari. Il bagno è più spazioso. Su questo livello c’è anche una palestra, con sauna e lampade UVA. E di qualunque cosa sentirà la necessità, io posso procurargliela.
– Starò benissimo. Lei dorme qui accanto?
– Sì, sono alla 225, ma non gliela faccio vedere. Sono un tipo decisamente disordinato.
– Non si preoccupi, Kaspen, ognuno ha i suoi difetti.
– Già, è vero. I difetti sono la cosa migliore della gente. Lei mi piace, Joaquin. Se non dovessero trovarle una collocazione, la proporrò come mio collaboratore. Ne ho chiesto uno da tempo, ma non mi hanno mai accontentato. Che gliene pare?
– Potrebbe andare.
– Allora diamoci del tu. Chiamami Andrej.
– Grazie, Andrej.

 

3. UN ALTRO MULTIVERSO

Tre mesi dopo ero ancora lì. Trascorrevo molto del mio tempo con Andrej e sempre più spesso le mie serate. Pian piano mi raccontò di lui. Andrej aveva pensato di farsi prete, ma poi le circostanze della vita l'avevano portato a occuparsi del magazzino di suo padre e là l'avevano trovato quelli del Centro di Addestramento. La sua efficienza li aveva convinti ad affidargli compiti sempre più ampi, fino ad arruolarlo definitivamente, forse non tanto per il fascino che emanava dalla sua persona, e da cui io mi lasciavo avvincere sempre più, quanto, più probabilmente, per la sua estrema affidabilità e per l’assenza di legami familiari, circostanza, quest’ultima, che rendeva sicuramente più semplice e sicuro il suo allontanamento dal mondo esterno. Andrej si era lasciato inghiottire dalla Base e dai suoi segreti, senza rimpianti.
Io avevo smesso di rimpiangere Paul. Mi ponevo un solo obiettivo, ogni mattina: vivere quella giornata senza ricordare il mio passato.
Ero il collaboratore di Andrej già da qualche tempo, quando si verificò un nuovo caso di trasporto fisico attraverso l’iperspazio. L’uomo si chiamava Mikhael Carrey e diceva di venire da un altro multiverso. Ero presente al suo secondo colloquio con la Frank, anche se non me ne spiegavo il motivo. L’uomo era seduto davanti alla scienziata, con indosso una divisa di color verde, come quella che avevano assegnato a me, per distinguermi dagli altri residenti. Quella divisa mi bollava come alieno. Visti i precedenti, si aspettavano che prima o poi avremmo costituito un contingente numeroso? Questo, infatti, era il secondo caso in tre mesi.  Mikhael era alto, slanciato, biondo, non troppo sicuro di sé, forse un po' timido, piuttosto conciso nell’esposizione del suo racconto. Gli avevano già comunicato che non erano in grado di rimandarlo indietro. Questa notizia l'aveva rincuorato e convinto a parlare apertamente. Mi concentrai su quanto stava dicendo in quel momento:
– Quando nasci, nell’attimo esatto in cui sono sicuri che sei vivo, ti iniettano un nanochip nel polso e da quel momento fai parte dell’umanità, hai un nome, un indirizzo, un conto corrente, un piano di studi, un futuro programmato, cioè sei un numero. Anche il pianeta su cui vivi è un numero, il mio era il 333. Io sono uno degli ispettori che sovraintendono alla marcatura, cioè colui che controlla che ciascun nuovo nato abbia la sua identità e che sia subito messo sotto il controllo del GUM, il Governo Unico Mondiale. È grazie a me e al mio amico Mark, che è nata la cellula che si è trasferita su Terra-vergine. Mark l’ha visitata per sbaglio, senza neppure capire come ci sia finito. Non era nella lista dei pianeti sottoposti al GUM. Era una Terra ancora libera e Mark ne aveva tratto la convinzione che appartenesse a un altro multiverso. Disse che vi si poteva vivere in pace, nonostante mancasse completamente di controllo totale sui propri abitanti. Da lui è nata l’idea di trasferirvi esseri umani anonimi, non dotati di nanochip, per potervi vivere liberi. Così ho iniziato a sottrarre neonati alla marcatura e abbiamo creato una piccola cellula che al momento giusto è stata trasferita su Terra-vergine.
– Come avete fatto ad aprire un canale nell’iperspazio? – lo interruppe la Frank.
– Mark ha scoperto il sistema e dopo il trasferimento ha chiuso il canale e distrutto tutte le formule.
– Capisco.
– Terra-vergine è questa? – chiese Robert.
– Sì. Ed è magnifico che non faccia parte del multiverso da cui provengo.
– Capisco perfettamente la sua opinione – commentò la Frank.
– Tutti hanno un nanochip impiantato? Anche lei? – chiese Robert.
– Sì, tutti.
– E come avete fatto lei e il suo amico a impedire che vi scoprissero?
– Siamo sempre stati molto attenti, per non dare nell'occhio. Il GUM è sicuro di averci resi tutti schiavi, controllati, ma non è sempre vero. Se ci si tiene fuori dai guai, non c'è motivo di essere presi di mira dalle loro intercettazioni o trasmissioni.
– Che intende?
– Immagino sappiate che il cervello è una rete elettrica a modulazione chimica. Ci sono microonde che influenzano il cervello e quindi la psiche umana. Diffondendo raggi elf a 6,6 Hz possono indurre nella popolazione o anche su un singolo soggetto un senso di depressione, oppure possono indurre il buonumore, irradiando a 7,83 Hz; o anche reazioni violente, a 10,80 Hz.
– È così che vi hanno resi schiavi?
– Sì, ma anche in modi molto più subdoli, prima di questo.
– Quindi lei e il suo amico avete rischiato molto.
– Era importante.
– E nessuno si è mai accorto della scomparsa del suo amico, quando si è trovato catapultato in un altro multiverso?
– No, perché è riuscito a tornare indietro nello stesso momento in cui era partito.
– Vorrebbe farci credere che ha viaggiato nel tempo?
– Mark dice che viaggiare in un tunnel multiverso e tornare nel tempo al punto di partenza è molto facile. Basta forzare l'invarianza temporale.
– Davvero?... – commentò Robert con espressione scettica.
– Qui da noi si pensa che la teoria dei viaggi nel tempo sia una sciocchezza – aggiunse la Frank.
– A quanto pare no.
– Mi piacerebbe molto parlare con il suo amico. Pensa che verrà anche lui?
– Assolutamente no. Ha distrutto tutte le sue formule.
– Eppure lei è qui.
– Mark si era rifiutato di mandare qui anche me, ma io l'ho convinto. Sapevo che era un grosso rischio, ma l'ho accettato. Mark deve aver sbagliato i calcoli. Avrei dovuto finire in mezzo alla campagna inglese, dove aveva trasferito la cellula. I suoi cinque componenti sono troppo giovani per potersela cavare da soli. Ora sono senza guida e io sono molto preoccupato per loro.
– Mi spiace. Questa, per noi, è Terra-1 e ci troviamo nella base segreta del Centro di Addestramento della Flotta di Emergenza Soccorso Extrauniverso. Se la sua cellula è qui, forse potremo trovarla per lei, ma per il momento non possiamo lasciarla libero di andare. Spero che lei comprenda. Su questo livello tutto ciò che riguarda gli universi paralleli è ancora top-secret.
Mikhael sospirò.
– Capisco. Neppure qui siete molto liberi.
– Signor Carrey, la libertà è un’idea astratta – commentò Robert.
– Capisco – ammise Mikhael, sollevando uno sguardo infelice su di lui.
– Kaspen, le affido il signor Carrey. Gli trovi un’adeguata sistemazione – disse la Frank, ritenendo concluso il colloquio.
Kaspen accompagnò fuori Mikhael e io li seguii, richiudendo la porta alle mie spalle. Una volta nel corridoio si guardarono.
– Questo è Joaquin, il mio collaboratore – mi presentò Andrej.
– Piacere di conoscerti. Qui tutti portano una divisa blu, ma tu ne hai una verde come la mia. Questo vuol dire che anche tu sei di un altro multiverso?
– Vengo da un altro livello di questo macro-universo. E ho deciso di non tornare a casa.
– Anch’io sono felice di non tornare a casa.
– Allora sono certo che vorrai adattarti presto a questo posto – concluse Andrej.
– La stanza 235 è libera – dissi, dopo aver dato un’occhiata al mio tablet, su cui avevo preso l’abitudine di annotare tutto ciò di cui mi occupavo con Andrej.
– Andiamo a conquistarla, allora – accettò Mikhael, con un sorriso mesto.
Mentre passavamo per l’emporio, Andrej indicò a Mikhael che là avrebbe potuto rifornirsi di tutto quanto gli servisse e che se gli fossero sorte necessità ulteriori, avrebbe potuto chiedere a noi.
– È una città sotterranea, questa?
– All’incirca – rispose Andrej.
Una volta nella sua stanza, si guardò intorno, come io avevo fatto la prima volta che ero entrato alla 223, poi si sedette sul letto e ci guardò.
– Pensate che sia possibile cercare i miei ragazzi?
– Quanto sono giovani? – domandò Andrej, a sua volta.
– Hanno quindici anni. Sono tre maschi e due femmine. Li abbiamo sempre tenuti nascosti, li abbiamo addestrati, istruiti e informati di tutto, sin nei minimi particolari. Quando si sono sentiti pronti ad affrontare una nuova vita, hanno deciso di essere trasferiti. Mark intanto era pronto. Purtroppo, proprio quel giorno, io sono stato trattenuto da un imprevisto e sono potuto tornare da loro soltanto il giorno successivo. Speravo che Mark mi avrebbe aspettato, ma non vedendomi arrivare si è spaventato e ha creduto che mi avessero beccato. Così si è precipitato a trasferirli e a far sparire le tracce. Quando sono arrivato, mi ha detto che era sicuro che fossi stato arrestato. Non aveva più la formula, ma ha tentato di trasferirmi lo stesso, su mia pressione, anche se aveva un dubbio che lo tormentava. Aveva ragione, perché io sono finito qui e i miei ragazzi chissà dove.
– Avete compiuto il trasferimento alla stessa ora esatta?
– Credo di sì.
– Allora non possono essere troppo distanti – affermò Andrej.
– Sei sicuro?
– Da quel che ho capito, ogni giorno c’è un piccolo spostamento nella posizione della Terra, che bisogna calcolare se si vuole trasferire qualcuno nell’identica posizione.
– Credo che Mark lo sapesse, ma non l’abbia considerato. Per questo non era sicuro di quello che stava facendo.
– Questo significa che sono finiti qui vicino? – chiesi ad Andrej.
– Immagino di sì. Avevano viveri e armi?
– Viveri e cambi d’abito, ma niente armi. Sono addestrati al combattimento a mani nude. Da noi le armi sono illegali.
– Viveri e acqua sufficienti per quanto tempo?
– Una settimana. E sono già passati tre giorni.
– Dobbiamo cercarli – disse Andrej, uscendo deciso dalla stanza.
– Pensi che sia possibile trovarli? – mi chiese Mikhael.
– Mi dispiace, non ne ho la più pallida idea. Sono qui solo da tre mesi e non ho ancora avuto occasione di essere informato su quali mezzi disponga il Centro per eventuali ricerche all’esterno.
– Io sono stato individuato subito.
– Lo credo, sei apparso a dieci metri dall'ingresso!
– Già, certo. Se li trovano, saranno costretti anche loro a restare rinchiusi qui?
– Mikhael, questa è una base segreta. Nel tuo mondo non ne esistono?
– Nel mio mondo tutto è sotto il controllo diretto, attento e minuzioso del Governo Unico Mondiale. Non ci può essere nulla di nascosto. Al contrario, quello che abbiamo fatto Mark e io, doveva rimanere più che segreto. Abbiamo commesso un reato gravissimo, inammissibile, considerato un crimine contro l’umanità, passibile di morte.
– Terra-1 è un mondo libero, come tutti i mondi degli altri livelli di questo multiverso, ma i governi, per conservare questa libertà, devono mantenere dei segreti.
– Non hai risposto alla mia domanda. Se trovano i ragazzi li porteranno qui e resteranno prigionieri del Centro?
– Non ti ho risposto perché non lo so. Forse potrebbero portarli da qualche parte, dove non sapranno mai di questo posto.
– Preferirei che li portassero qui. Mi mancano. Sono come figli miei, li ho nutriti, curati, istruiti, addestrati. Vorrei che tornassero sotto la mia responsabilità.
– Parlane con la Frank.
– Lo farò.

 

La dottoressa Amanda Frank era una veterana della Base. Si vedeva poco fuori dal suo ufficio, come se allontanarsene potesse mettere in pericolo la sicurezza del Centro. Era lei a coordinare tutte le attività che vi si svolgevano. Benché apparisse cordiale, manteneva comunque le distanze. In mensa la incontrai. Le chiesi cosa ne avrebbero fatto di Mikhael.
– Può essere un ottimo informatore. Non sapevamo dell’esistenza di questo multiverso, anche se ovviamente se ne discuteva. Adesso ne abbiamo una prova certa.
– Probabilmente i ragazzi di Mikhael sono finiti qui vicino – le comunicai.
– Lo so. Kaspen mi ha riferito le sue considerazioni. Abbiamo contattato il reparto militare per le ricerche.
– Pensi che riusciranno a trovarli?
– Hanno elicotteri sufficienti per rintracciarli nel giro di un paio di giorni, a meno che non siano già arrivati molto lontano o non si nascondano. Non conosciamo le loro intenzioni, né le loro paure. Da quello che ho capito, avevano ordine di mimetizzarsi in mezzo alla campagna inglese. Non sanno nemmeno dove si trovano.
Quanto a questo, non lo sapevo neanch'io.
– Pensi che potrebbero aver raggiunto una città o qualche fattoria?
– Impossibile.
Pessima notizia per le mie aspirazioni di fuga. Evidentemente il Centro si trovava molto distante da qualunque luogo abitato.
– Ma è sicuro che siano finiti qui?
– Secondo l'opinione di Robert ci sono alte probabilità.
– E se li trovano, li porteranno qui?
– Naturalmente. Non ci possiamo permettere che se ne vadano in giro con quello che sanno.
– Certo – commentai, rendendomi conto di aver fatto una domanda stupida.
– Ti trovi bene con Andrej? – mi chiese la Frank, cambiando argomento.
– Benissimo.
– Ne sono lieta. Tra qualche tempo potrai accompagnarlo nelle sue missioni all’esterno, quando i militari avranno abbastanza fiducia in te.
– Mi rendo conto. Chiunque metta il naso fuori da qui è una mina vagante.
La dottoressa Frank rise.
– Sì, è vero. Sono un po’ paranoici, ma bisogna avere pazienza.
– Quella è una dote di cui sono ben provvisto, fortunatamente.
– Mi fa piacere. Kaspen è molto contento di te. Dice che sei efficiente e anche un po' pignolo. Anche questa è una dote di cui c’è bisogno, qui da noi.
Dopo lo scambio di opinioni con la dottoressa Frank, tornai verso la mia stanza, con l’intenzione di leggere qualcosa prima di tornare al lavoro per il turno pomeridiano, ma incontrai Andrej nel corridoio.
– Ci sono novità? – gli chiesi.
– Non ancora, ma credo che le ricerche siano appena iniziate. Hai visto Mikhael? Nel suo alloggio non c’è.
– No, sarà andato a mangiare.
– Non gli ho consegnato il cartellino personale. Ne avrà bisogno. Aiutami a cercarlo.
– Va bene. Io vado di là – dissi, indicando il corridoio nella direzione da cui ero venuto.
– Io cerco di sopra, anche se non credo che sia tornato dalla Frank. Chi lo incontra per primo chiama l’altro sul cellulare.
– D’accordo – accettai, assicurandomi di avere nel taschino il cellulare interno di cui mi avevano equipaggiato. Avevo capito subito che non era adatto a telefonate verso l’esterno. Del resto, non avrei saputo chi chiamare, perché fuori dal Centro non conoscevo nessuno.
Tornai sui miei passi, guardando in mensa, nel bar, in palestra, nel solarium e persino nelle cabine UVA. Di Mikhael non v’era traccia. Mi venne in mente che potesse essersi perso, così decisi di scendere al terzo piano, dove c’erano gli uffici direzionali, il comando militare, i laboratori di fisica e la biblioteca scientifica. Anche là non v’era traccia di Mikhael. Allora tornai al livello zero, quello della prima accoglienza. Affacciandomi sull’hangar delle navette, infine, lo vidi. Era impegnato in una fitta conversazione con un paio di tecnici, davanti a una navetta. Chiamai immediatamente Andrej, comunicandogli che Mikhael si trovava nell’hangar. Poco dopo lo vidi scendere le scalette di metallo e dirigersi verso di lui. A quel punto ritornai al mio alloggio. Accesi lo stereo e tornai ad aprire un romanzo che stavo leggendo, senza grande entusiasmo, da un paio di giorni. Dopo neppure mezz’ora bussarono alla porta.
– Ti disturbo? – mi chiese Mikhael.
– No. Entra pure – lo invitai, chiudendo il libro.
– Ho bisogno di lavare della biancheria. Come siete organizzati per questo?
– C’è la lavanderia in fondo al corridoio. Vieni, ti faccio vedere.
– Non ti disturbare. Basta che mi spieghi.
– Credo sia meglio che ti accompagni – replicai.
– Andrej mi ha detto che il tesserino personale si usa per prendere ciò di cui si ha bisogno. Serve per tenere sotto controllo il magazzino, così sanno di cosa rifornirsi. Ma mi ha detto anche che ho un credito di base, in modo da tenere sotto controllo le spese. Però non so quanto credito ho. Come faccio a saperlo?
– C’è una specie di bancomat nel corridoio, vicino allo spaccio.
– Un che? – chiese Mikhael.
– Sul tuo mondo non esistono le banche? Le banconote, il denaro, le carte di credito?
– Una volta, molto tempo fa.
– Come pagate i vostri acquisti? – gli chiesi per far prima.
– Appoggiamo il polso a un lettore di crediti.
– Qui da noi s’inserisce la tessera in una fessura. Vieni con me. È difficile da spiegare – gli dissi, conducendolo fuori.
Giunti allo spaccio, c’era il Credit Service. V’introdussi il cartellino personale di Mikhael e chiesi il credito. Sul display apparve la cifra 500.
– Sei ricco – commentai.
– Davvero? E da dove viene il mio credito?
– Consideralo un anticipo su quello che ti meriterai lavorando alla Base.
– E se non volessi far nulla?
– Credo che qui non importi.
– Nel mio mondo c’è un credito base per tutti, che serve alla sopravvivenza. E poi c’è il guadagno derivato dalla produttività o dai servizi.
– Qui al Centro, un credito base è fornito a tutti, indipendentemente dai servizi svolti. Come ti ha detto Andrej, è più che altro un modo per tenere sotto controllo le spese, ma nel mondo esterno funziona in tutt’altro modo. Chi non lavora non guadagna e i sussidi sono forniti soltanto da alcuni governi. Ci sono intere nazioni che vivono nella povertà più assoluta, dove la gente muore letteralmente di fame.
– Ma quanti governi avete?
– Tantissimi. E ciascuno è diverso dagli altri.
– Quindi la povertà è una realtà soltanto in alcuni paesi, mentre altri sono capaci di far fronte alle necessità della popolazione?
– Sì. Ci sono paesi molto ricchi e altri molto poveri.
– Ma è assurdo! Perché i paesi ricchi non dividono con quelli poveri le loro risorse?
– Forse perché temono che il loro tenore di vita possa peggiorare.
– Sì, capisco. Una volta era così anche da noi. Nel mio mondo c’è un unico governo e tutti possono avere ciò di cui hanno bisogno. Certo, questo implica un attento controllo su ciascun abitante, ma nessuno muore di fame. Mi domando se la libertà che cercavo qui non sia soltanto un’illusione. Forse ho commesso un grosso errore di valutazione.
– Tu cerchi un paradiso. Sono certo che saresti deluso su qualunque mondo ti trovassi.
– Sono un idealista illuso, vuoi dire? Hai ragione.
– Mi dispiace – commentai, di fronte alla sua espressione delusa.
– Ti va di accompagnarmi in lavanderia? Credo di aver bisogno di una guida anche per far funzionare una semplice lavatrice.
– Certo. Andiamo.
Mikhael aveva un’espressione malinconica che dava ai suoi occhi castani una piega da beagle triste. Con esso riusciva a mettere in moto una sorta di senso di protezione in chi lo frequentava. In fondo era come un bambino indifeso in un mondo più grande di lui. Mi resi conto che per Mikhael tutto era alieno, tanto che doveva spaventarlo persino l’uso di una lavatrice. 
Dopo il bucato, lo accompagnai alla mensa. Anche i cibi avevano per lui uno strano sapore. Erano troppo dolci, diceva. L’acqua gli era gradita, ma gli sembrava piuttosto salata.
Insomma, aveva rischiato la vita per venire in quel mondo, e ora passava il tempo a lamentarsi di tutto.
Peccato che non potessimo rimandarlo indietro.

4. LA CELLULA EVERSIVA

 

Due giorni dopo trovarono i ragazzi. Erano accampati sotto un’appariscente tenda arancione. Mi domandai come pensassero di mimetizzarsi nella verde campagna inglese. Furono avvicinati da una pattuglia, che spiegò loro che Mikhael Carrey li aveva mandati a cercare. Salirono sugli elicotteri senza farsi pregare, dopo aver smontato in fretta il campo.
Mikhael, avvertito in tempo, si trovò ad accoglierli davanti all’ingresso della grotta. Oltre a me, erano presenti Andrej e un gruppetto di militari e scienziati, tra cui la dottoressa Frank.
I cinque ragazzi avevano un’aria robusta, non sembravano per niente provati da quell’esperienza e dimostravano ben più dei quindici anni che Mikhael aveva dichiarato. Non sembravano nemmeno intimoriti, anzi, mostravano un’espressione spavalda e arrogante, più tipica di certi militari ben addestrati che avevo incontrato al Centro, che di una banda di ragazzini fuggitivi.
Vennero abbracciati a uno a uno da Mikhael, che poi li presentò. Le due ragazze, entrambe molto alte e robuste, si chiamavano Dirma e Lara. I ragazzi, tutti sul metro e ottanta, Kirk, Tammy e Max. Erano tutti biondi. Perfetti. Ecco, fu quella perfezione a darmi un po' sui nervi. Non sorridevano. Nemmeno quando Mikhael li aveva abbracciati con trasporto, avevo notato in loro un briciolo di calore umano. Rabbrividii, senza sapermene spiegare il motivo.
Poi li condussero agli alloggi che erano stati predisposti per loro, li rifocillarono, li rivestirono con le divise verdi e li convocarono nella sala della prima accoglienza. Andrej mi portò con sé. Ormai non muoveva più un passo, senza che fossi presente. Voleva che, nel momento del bisogno, potessi sostituirlo completamente, appoggiato, nel suo progetto, dalla dottoressa Frank. Andrej le aveva comunicato, sottovoce, che i ragazzi non erano mai rimasti soli con Mikhael. Pensai che non si fidassero completamente di loro.
Mentre aspettavamo che la cellula si presentasse a rapporto, ne approfittai per raccontare alla Frank l’ultimo sogno che avevo fatto, e che ormai avevamo deciso si trattasse di comunicazioni telepatiche con il mio alter-ego. Aveva acquistato una pianta di limoni e l’aveva messa in un angolo del mio balcone. Inoltre avevo visto molti vasi di geranio che iniziavano a fiorire. Io non avevo mai avuto piante.
– Il tuo alter-ego si è rassegnato a vivere là al tuo posto. Pensa che non lo preleveremo più – ne dedusse la Frank.
– Lo credo anch’io. Sta cercando di mettersi a proprio agio. Il mio appartamento è sempre stato minimalista, spartano direi. Io mi accontento dell’essenziale.
– È per questo che ti trovi così bene qui. Niente fronzoli, niente di superfluo.
– È vero – ammisi sorridendo.
Mi ero ambientato senza fatica. Nella mia stanza c'era tutto ciò di cui potessi sentire la necessità. Se avessi avuto voglia di parlare, c'era Andrej. Ma quello era un bisogno che non sentivo affatto. Mi ero chiuso in me stesso, anche se non me n'ero neppure reso conto. Era Andrej che mi costringeva a fare un po' di conversazione tutti i giorni, anche se il suo tatto gli consentiva di capire al volo se era il caso di insistere o di lasciarmi cuocere nel mio brodo. La sua sensibilità, in un primo tempo, mi era passata del tutto inosservata.
In quel momento entrarono Mikhael e i ragazzi, accompagnati da un paio di militari, che rimasero fuori, richiudendo la porta.
Quando tutti si furono seduti, la dottoressa Frank chiese loro se gli alloggi in cui erano stati sistemati erano di loro gradimento e se avevano bisogno di qualcosa.
Mikhael rispose che era tutto perfetto e che, se si fossero presentate delle necessità, ne avrebbe messo a conoscenza Andrej, il quale si era gentilmente già offerto di aiutarli. La dottoressa Frank gli sorrise, aggiungendo che gli sarebbe piaciuto sentirlo dalla bocca dei ragazzi stessi.
– Mi sono permesso di fare da portavoce, perché i miei ragazzi hanno qualche difficoltà con la vostra lingua. Hanno bisogno di sentirla parlare ancora per qualche tempo, prima di lanciarsi speditamente in una conversazione.
– Non importa se commetteranno degli errori. Kirk, come ti è sembrata la tua stanza?
– Molto grande. Tutta mia?
– Sì, è tutta tua. Sei contento?
– Molto contento. Grazie.
– E tu, Lara?
– Molto contenta. Grazie.
– Mi sembra che se la cavino piuttosto bene con la nostra lingua, signor Carrey. Lei come l’ha imparata?
– Me l’ha insegnata Mark. Lui è stato qui a lungo. Poi, insieme l’abbiamo insegnata ai ragazzi. Ora che sono qui impiegheranno pochissimo per perfezionarla. Imparano molto in fretta.
– Bene. Naturalmente è importante che continuino i loro studi.
– Certamente. Ho visto che siete forniti di una bella biblioteca. Ci sarà utile.
– Vi assegneremo un insegnante. Inoltre avrete dei colloqui settimanali con un nostro psicologo. Per quanto riguarda i militari, vogliono parlare con lei, appena finito qui. L'accompagnerà Robert. I ragazzi, intanto, andranno all’emporio con Andrej e Joaquin, per rifornirsi dell’essenziale. Andrej, per favore, distribuisci i cartellini personali.
– Certo, dottoressa.
I ragazzi ricevettero ciascuno il proprio cartellino, senza battere ciglio. Nessuno di loro chiese a cosa servissero.
– Ci sono domande? – chiese ancora la Frank.
Nessuno fiatò.
– Potete chiedere ciò che volete, ragazzi – insisté la Frank, ricevendo in risposta il loro sguardo quasi indifferente.
– Non siete curiosi di nulla?
– Non sono abituati a parlare con gli estranei – li giustificò Mikhael.
– Dovranno fare un piccolo sforzo per considerarci amici. Qui non c’è un Governo Unico Mondiale che possa minacciarli. 
– Sono sicuro che impareranno presto. Su, ragazzi, non avete qualche domanda da porre alla dottoressa?
I ragazzi si guardarono tra loro, poi Max prese la parola, come se fosse il loro portavoce.
– Quando potremo andarcene da qui?
– Per il momento non è previsto. Sono i militari a decidere. Per tutto il resto, siete liberi di fare ciò che volete.
– Pensavamo di mescolarci alla popolazione, imparare meglio la lingua e studiare usi e costumi del posto.
– Potrete farlo anche qui. Potrete studiare la geografia e la storia del nostro mondo e confrontarvi con chiunque, qui alla Base. Non vi annoierete.
– Avevamo deciso di farci trasferire qui, sperando di essere finalmente liberi. Invece siamo segregati ugualmente.
– Questa è quasi una città. Non è come essere segregati in una cantina.
– È soltanto un piccolo miglioramento – obiettò Max.
– Mi rendo conto della vostra delusione, ma si tratta solo di rimandare per qualche tempo. Vedrete che presto sarete liberi di andarvene – affermò la Frank.
Per quanto ormai avevo imparato a conoscerla, compresi che aveva appena mentito o che dubitava fortemente che ciò potesse avvenire. Erano i militari a decidere e la loro paranoia era provvista di profondità insondabili.
Una volta congedati dalla Frank, Robert accompagnò Mikhael verso gli ascensori, mentre Andrej e io accompagnammo i ragazzi all’emporio. Giunti all’interno, io guidai Dirma e Lara al reparto donna, mentre Andrej conduceva Kirk, Tammy e Max al reparto uomo.
– Potete scegliere quello che preferite – dissi alle ragazze, che si limitavano a guardarsi intorno, senza neppure avvicinarsi agli articoli in esposizione.
– Dobbiamo decidere noi? – mi chiese Lara, titubante.
– Certamente.
Fu allora che mi venne in mente che avevano sempre vissuto rinchiuse in un sotterraneo e che tutto ciò che utilizzavano o indossavano era stato scelto da Mikhael o da Mark.
– Scegliere ciò che volete indossare è il vostro primo passo nella libertà.
– Capisco – disse Lara, avvicinandosi al banco della biancheria intima.
Dirma si avvicinò ai pigiami, voltandosi verso di me.
– Porteremo sempre queste divise?
– Credo proprio di sì.
– E questi allora a che servono?
– Sono pigiami. Si usano per andare a letto.
– Abiti per andarci a letto? Non è uno spreco inutile?
– Da noi alcuni li usano – commentai, ripensando alla mia tuta.
Lei mi guardò con espressione quasi di riprovazione.
– Prendete quello che volete, se volete. Nessuno vi obbliga. Se pensate che sia comodo lavarsi la biancheria ogni giorno, sta a voi decidere. Vi aspetto all'uscita – dissi, un po’ scocciato.
Lara comprese ciò che intendevo e dopo poco mi si riavvicinò con le braccia cariche di calzettoni, magliette e slip. Io andai a prendere un cestino e lei ve li depositò. Dirma non scelse quasi nulla. Quando ci ritrovammo davanti ai banchi d’uscita, insegnai loro che per prima cosa si doveva passare il cartellino personale, poi mostrai come passare al lettore le etichette dei capi che avevano scelto e quindi di nuovo il cartellino personale.
– Questa tessera sostituisce i nanochip del nostro mondo? – mi chiese Lara, dimostrando di essere molto sveglia.
– In un certo senso, sì. Ma questo apparato funziona soltanto qui al Centro. Nel mondo esterno ci sono altri sistemi.
Prima che Lara potesse chiedermi altro, Andrej ci raggiunse con i ragazzi. Anche loro si erano molto limitati. Evidentemente erano abituati a una vita molto spartana.
Andrej ci guardò sorridendo.
– Direi di riaccompagnarli ai loro alloggi.
Le stanze che avevano assegnato alla cellula erano le ultime del corridoio, accanto alla palestra con il solarium. Io non mi ero mai spinto fino a lì, quindi mi stupii di vedere, attraverso le vetrate, anche una piscina.
– Non mi avevi detto che c’era una piscina.
– Davvero? Che sbadato. Dev’essermi sfuggito – commentò.
Poi, imbarazzato, aggiunse – Forse perché io non so nuotare.
– Questo Centro è così grande che non finirò mai di scoprirlo tutto. – Da quanto tempo sei prigioniero qui? – mi chiese Max.
– Non sono prigioniero. Mi sono trovato qui per caso, è vero, ma ho deciso di rimanere e adesso ci lavoro, da tre mesi e mezzo.
– E ancora non hai visto tutto? Ma quanto è grande questo posto?
– È più grande di alcuni paesi che conosco.
– E noi possiamo girarlo tutto? – chiese Lara.
– Certamente, – rispose Andrej – tranne dove possono entrare soltanto gli addetti ai lavori, e questo divieto è scritto sulla porta. Naturalmente non si può entrare negli alloggi privati o negli uffici, se non invitati, ma ci sono moltissime aree comuni, come quelle che vi abbiamo mostrato venendo qui, la biblioteca, il cinema, la palestra, la mensa, il bar. In fondo al corridoio, sul lato opposto, ci sono le lavanderie e la sala relax, dove potrete imparare vari giochi.
– Abbiamo anche noi un computer in stanza. Perché dovremmo andare là a giocare? – chiese Kirk.
– Là si gioca senza computer, ci sono giochi che si fanno in compagnia di altre persone: gli scacchi, la dama, il domino, le carte e molti altri. Vedrete, sono piuttosto interessanti.
Non doveva essere facile, per loro, capire questo nuovo mondo, forse perché non avevano vissuto neppure nel loro. La fuga verso un mondo presunto migliore si era trasformata in un salto dalla padella alla brace. Avevano aspirato alla libertà ed erano finiti di nuovo prigionieri. Ma per quanto tempo i militari li avrebbero trattenuti contro la loro volontà? Potevano farlo impunemente? Certo, che potevano farlo. Chi si sarebbe opposto? Da parte mia, mi ero affidato ad Andrej, sperando che mettesse una buona parola per me. Anch'io aspiravo a tornare libero. Speravo tanto di poterci riuscire, ma mi ero quasi convinto che se pure gli scienziati fossero stati in grado di rimandarmi indietro, non l'avrebbero fatto.
Dopo aver lasciato i ragazzi, Andrej m’invitò al bar a prendere un caffè. Ci eravamo appena seduti davanti alle nostre tazze, quando finalmente mi ricordai di una domanda che avevo sempre avuto sulla punta della lingua, ma non mi ero mai ricordato di fargli.
– Andrej, mi hai sempre detto che tra un livello e l’altro non c’è che qualche banalissima differenza. Mi chiedevo, questo Centro è uguale su tutti i livelli?
Andrej mi osservò attentamente per qualche istante, poi sorrise.
– Aspettavo questa domanda da un sacco di tempo. E la risposta è no. Sugli altri livelli non esiste.
– Ma come è possibile?
– Non lo so. Qualcuno ha proposto la teoria che si possano aprire canali da un unico livello verso gli altri. Insomma, pare che l’ascensore sia nostro. Se qualcuno degli altri livelli volesse viaggiare tra un livello e l’altro, dovrebbe passare da qui.
– Nel multiverso-2 però non dovrebbe valere la stessa legge. Il mondo da cui proviene Mikhael è il 333. Se fosse quello da cui i canali si possono aprire, si chiamerebbe Terra-1, come questo, non trovi?
– Loro hanno viaggiato attraverso un canale dell’iperspazio, non grazie a un semplice cunicolo. Forse l’iperspazio si può aprire da qualunque livello, verso qualunque altro livello o multiverso. Non so, ne parleremo con Robert.
– Potrò mai tornare a casa, secondo te?
– Quando saranno in grado di riprodurre il canale d’iperspazio che ti ha portato qui.
– Non lo faranno. Anche se sul mio mondo questo Centro non esiste, i militari avranno sempre il timore che io possa andare a spifferarlo in giro.
– Anche se trovassi qualcuno che ti desse credito, sono convinto che non servirebbe a niente, visto che i canali si aprono soltanto da qui. E lo sanno anche i militari.
– Ma quelli dell’iperspazio no.
– Non possiamo esserne sicuri. In ogni caso, ti confesso che mi dispiacerebbe molto se tu te ne andassi. Sei diventato... come dire? Sei molto importante, per me.
– Anche tu, Andrej. Sei il mio unico amico su questo pianeta.
Il sorriso di Andrej mi sembrò velato di tristezza.
– Spero non sia solo per questo.
Per un attimo fui turbato dall'inflessione della sua voce e dal calore del suo sguardo. Ma io non potevo indulgere su vaghe considerazioni, su domande che mi sarei posto se fossi stato a casa mia. Dovevo fuggire dal Centro e lasciarmelo indietro, senza strascichi né rimpianti. Tornai all'argomento precedente, per non lasciarmi coinvolgere.
– Sono sicuro che Mikhael sappia tutto dei canali dell'iperspazio. Il suo amico Mark è riuscito ad aprirne uno tutto da solo.
Andrej finse di non badare alla mia diversione.
– È stato un colpo di fortuna.
– Anche altri potrebbero averlo.
– È questo che ci preoccupa un po’. Soprattutto riguardo a Multiverso-2. Non vorremmo ritrovarceli qui a imporci il loro Governo Unico Mondiale.
– Su questo sono d’accordo. Avranno pure trovato il modo di mantenere la pace nel mondo, ma a quale prezzo?
– Un prezzo che noi non siamo disposti a pagare.

Nei giorni successivi, i ragazzi si dedicarono all’esplorazione del Centro, con una cura e una meticolosità che destarono ammirazione. Li si vide ovunque, in due gruppetti separati. Le ragazze si mantenevano sempre lontane dai ragazzi e, se accadeva che s’incrociassero, non si degnavano neppure di uno sguardo. Qualcuno si domandò se per caso non avessero avuto qualche discussione. Ma, secondo lo psicologo che li aveva incontrati, non c’era nessun contrasto tra loro. Semplicemente, erano adolescenti, con i medesimi istinti degli adolescenti del nostro livello. Era naturale che mantenessero le distanze tra loro, soprattutto se erano stati costretti a vivere sempre insieme sotto lo stesso tetto, in un ambiente angusto e claustrofobico. Dopo qualche tempo, persino tra le ragazze si creò una certa distanza. Mentre Dirma prese a passeggiare con una recluta di Terra-1 di nome Mara, che aveva chiesto espressamente di rimanere al Centro, Lara aveva iniziato a seguire me ogni volta che poteva o che io potevo permetterglielo, cioè quand’ero fuori servizio. Si era stabilito di non ammetterli troppo a fondo nei nostri segreti, anche se, per come la vedevo io, si trattava di segreti veramente ridicoli, per lo meno nel mio caso. Poi arrivò un insegnante che li bloccò in una piccola aula predisposta appositamente per le loro lezioni. Dopo l’ora di pranzo si videro meno in giro. Dopo aver studiato, ciascuno nella propria stanza, Kirk trascorreva il tempo libero in palestra, Max in biblioteca, Tammy nella sala relax, Dirma in lavanderia o in piscina e Lara alla mia ricerca o con me, quando riusciva a trovarmi. Era una ragazza molto tenace, che aspirava a imparare presto un mestiere per rendersi utile. Io notai che imparava in fretta e molto spesso senza neppure il bisogno di spiegarle le cose. Afferrava al volo, aveva un grande intuito, una notevole intelligenza, una volontà di ferro e una memoria portentosa. Un giorno mi ritrovai per caso a parlarne con lo psicologo, il dottor Garrett, il quale volle metterla alla prova. Il suo test fu quanto di più semplice si potesse immaginare. Mostrò a Lara un cartello diviso in ventiquattro riquadri. Dentro ciascun quadrato c’era una singola immagine. Le diede un minuto per memorizzarlo, poi lo coprì e ne tirò fuori uno con gli stessi riquadri, ma privi d’immagini, e una scatola con dentro le ventiquattro figure da piazzare nei posti giusti, per replicare il cartellone che aveva visto. Lara non ne sbagliò neppure uno. Il dottore rimase notevolmente impressionato. Io pensai che non ci sarei riuscito nemmeno se avessi tenuto il cartello appeso alla mia parete per un mese, come un quadro. Per curiosità scientifica, il dottor Garrett volle ripetere lo stesso test anche agli altri ragazzi e l’esito fu stupefacente. Tutti furono in grado di ripetere il risultato di Lara. Erano dei piccoli geni. Anche il loro insegnante fu d’accordo, alla prima riunione che si tenne in proposito, e che coinvolse tutti coloro i quali, in un modo o nell’altro, avevano a che fare con la cellula di Multiverso-2. Andrej aveva insegnato il gioco degli scacchi a Tammy e dopo le prime due partite, non aveva più avuto il piacere di vincere, neppure una volta, nonostante fosse stato un campione nazionale pochi anni prima. Dirma aveva imparato a nuotare in due ore e appena dopo una settimana copriva quattro vasche a tempo di record. Max leggeva volumi di ottocento pagine in un’ora. Kirk non aveva rivali nella lotta, forse perché ancora non si era visto combattere con i suoi compagni, che immaginavamo essere allo stesso livello. Conoscerli più a fondo non me li rese più simpatici. Faceva forse eccezione Lara, che si poneva un sacco di domande frivole, ma era anche curiosa di come fossero strutturati i rapporti tra uomo e donna in quel mondo, se davvero ci si vestiva al di fuori del Centro come aveva visto su certe riviste, se i film a cui aveva assistito rispecchiavano davvero la nostra società. Le sue curiosità me la rendevano più simpatica a misura di quanto mi sembravano ingenue e innocenti.
Una notte sognai che il mio alter-ego aveva incontrato Mirko, per caso. Nel sogno, per la prima volta, non avevo l’impressione di essere lui, ma mi rendevo perfettamente conto che a vivere quell’esperienza era un Joaquin diverso da me. Mirko lo vide tra la gente, gli si avvicinò sorridendo e lo salutò, l’abbracciò e gli disse che per “quella cosa del Centro” avrebbe voluto parlargli. Joaquin-1 era così stupito che non sapeva cosa rispondere. Reagendo al suo silenzio imbarazzato, Mirko lo prese sottobraccio e lo condusse lontano dal via vai della strada. Quando fu ben certo che nessuno potesse ascoltarli, gli disse sottovoce che non era mai stato chiamato in missione e fu curioso di sapere se lui, invece, fosse tornato su Terra-1.
– Sei una recluta anche tu? – si stupì Joaquin-1.
– Certo, non ricordi che siamo stati reclutati insieme?
Joaquin-1 lo fissò per qualche istante e finalmente si decise a raccontargli cosa era accaduto a lui e chi fosse in realtà.
Mirko ne fu scosso.
– Come diavolo è successo? – gli chiese, infine.
– Non lo so, ma di sicuro su Terra-1 stanno cercando di rimediare. Inoltre, il tuo amico e io siamo in contatto. Quando dormiamo riusciamo a metterci in comunicazione attraverso i nostri sogni. So che adesso lavora al Centro con Andrej Kaspen. Non so perché non abbia preso il mio posto, forse non lo fanno uscire dal Centro.
– Vorrei proprio tornare là a parlargli – affermò Mirko.
Questo era ciò che ricordavo del sogno e al mattino, prima di andare in servizio, andai a raccontarlo alla Frank.
– Non mi avevi mai parlato del tuo amico Mirko – si stupì.
– Non mi è mai venuto in mente – mi difesi.
Era vero, avrei potuto pensarci già da molto tempo. Cosa mi aveva spinto a rimuovere quel pensiero?
– Possiamo richiamarlo qui e trasformarlo in un messaggero tra noi e Joaquin. Mi sembra un’ottima soluzione.
– Grazie, dottoressa Frank.
– No, grazie a te. Il tuo alter-ego si sarà sentito abbandonato, in tutti questi mesi.
Quel giorno, Lara, appena si fu liberata dai suoi impegni di studio, mi cercò e mi si appiccicò alle calcagna. Quando incrociammo Andrej in un corridoio, lui mi disse soltanto:
– È per stanotte.
Compresi che si riferiva al viaggio di Mirko e mi limitai a restituirgli un cenno d’intesa, sorridendo. Lara s'incuriosì e iniziò a tempestarmi di domande alle quali non avevo alcuna voglia di rispondere, così la salutai con la scusa che la dottoressa Frank mi stava aspettando.
Quando entrai nel suo studio, sperai che Lara non mi attendesse fuori. Richiudendomi la porta alle spalle, emisi uno sbuffo mescolato a un sospiro di sollievo.
La Frank mi osservò sorridendo, poi mi mostrò un piccolo monitor agganciato sotto il piano della sua scrivania. Mostrava il corridoio subito fuori dalla sua stanza. Vedemmo Lara passeggiare avanti e indietro per un paio di minuti, poi si stancò e si allontanò lungo il corridoio.
– È tenace, la ragazza – mormorò.
– Non sai quanto – risposi, anch'io a bassa voce.
– Stanotte richiameremo il tuo amico Mirko.
– Me l’ha detto Andrej. Purtroppo c’era anche Lara, che ha iniziato a farmi un sacco di domande. Non mi piace. Non mi fido di quei ragazzi, non so perché.
La Frank mi osservò con attenzione per qualche istante, poi le sue labbra si aprirono in un sorriso complice.
– Neanch’io mi fido di loro. Sono troppo perfetti.
– Esatto.
– Ma non possiamo fare molto. I militari hanno deciso di rendere off-limits alcune zone del Centro, per primo l’hangar, dove Mikhael è andato a ficcare il naso appena arrivato. Come sai, non vogliamo che sappia che non siamo ancora riusciti a trovare il modo di viaggiare nell’iperspazio. I militari hanno anche deciso per loro il divieto d’accesso a tutto il terzo piano e all’ingresso, dove sono stati piazzati ulteriori sistemi di sicurezza e allarmi. A nessuna recluta è consentito uscire dall’hangar, per evitare incontri indesiderati. È meglio che nessuno parli con loro, finché non li avremo inquadrati bene.
– Io non ho mai parlato di nulla che non fosse il mio lavoro alla logistica. Forse Lara si annoierà e si stancherà di pormi domande.
– Forse la paranoia dei militari è contagiosa – commentò la Frank, con espressione ironica.
– Forse, può darsi, ma quei piccoli geni mi mettono a disagio.
– Anche lo psicologo ha affermato la stessa cosa.

 

Quella sera, alle dieci, Andrej bussò alla mia porta ed entrò.
– Andiamo all’hangar. Tra poco arriva il tuo amico.
– Parla piano.
Lui si guardò intorno, stranito. Allora avvicinai la bocca al suo orecchio e gli sussurrai:
– Temo che la cellula possa sentirci.
In quel momento fui percorso da un brivido. Provai l'impulso di mordergli il lobo e poi proseguire fino a raggiungere le sue labbra con le mie. Mi allontanai con un grande sforzo.
Andrej assentì, ma pareva davvero poco convinto.
Quando fummo al primo piano mi disse:
– Cosa ti fa pensare che possiedano un senso dell’udito tanto sviluppato?
– Non lo so, è un’impressione. Sono super-dotati in tutto, perché non anche nell’udito?
– Non ci avevo riflettuto, ma potresti aver ragione. C’è qualcosa che non mi convince in questa storia. Il signor Mark trova tutto da solo la formula per l’iperspazio, viene qui, studia la nostra lingua, ci resta per anni, poi torna a casa, crea con Mikhael una cellula eversiva di cinque elementi, guarda caso tutti della stessa età, tutti superdotati, neanche fossero geneticamente modificati, li manda qui da soli, poi ci manda anche Mikhael, che fa loro da apripista. Tutti conoscono perfettamente la nostra lingua. Ti sarai accorto che il primo giorno i ragazzi facevano finta di non capire e di non parlare bene. Come mai il giorno seguente la parlavano meglio di noi? E poi sono troppo intelligenti, troppo. Meglio restare in guardia.
Scendemmo all’hangar e ci piazzammo davanti alla navetta. Mirko e io non potevamo essere state le prime reclute di quel livello, ovviamente, ma mi chiedevo come mai in tanti avessero rifiutato, mentre noi avevamo accettato entrambi di far parte di quelle missioni.
– Prima di noi avete contattato molti altri di Terra-49?  – chiesi ad Andrej.
– Sì, almeno una ventina.
– E come mai hanno rifiutato tutti?
– Chi ha detto che hanno rifiutato? A ogni recluta facciamo fare quattro viaggi, poi ne reclutiamo altri.
– Perché?
– Non sappiamo ancora esattamente quali effetti abbiano sull’essere umano, quindi ci limitiamo a quattro, per evitare lo stress. Abbiamo appurato che comunque sono tutti contenti di tornare alla loro vita normale, quando li informiamo che il quarto è l’ultimo viaggio.
– E se invece desiderassero farne ancora?
– Allora li arruoliamo. È già capitato, in qualche caso. Mara è una di loro, per esempio, l’hai conosciuta. Lei ha voluto restare a disposizione. Ci aiuta con le sue alter-ego degli altri livelli ed è disposta a viaggiare nell’iperspazio, quando finalmente sapremo farlo, come a te è successo per caso.
Poi i tecnici si misero all’opera. Vedevo Mirko di Terra-1, attraverso la vetrata della saletta in fondo all’hangar. Non era l’unico viaggiatore, quella notte. Prima che potessi pensare a qualunque altra cosa, Mirko apparve nella navetta di Terra-49. Gli sorrisi. Lui uscì dall’uovo e mi abbracciò.
– Come sono contento di vederti!
– Anch’io, Mirko. Come stai?
– Tutto bene. Non vedevo l’ora di tornare qui. Ho incontrato il tuo alter-ego. Vorrebbe sapere cosa è successo.
– Lo so. Adesso ti spiegheremo tutto – lo rassicurai.
Andrej ci precedette in una saletta collegata all’hangar, dove la dottoressa Frank ci stava aspettando.
– Accomodatevi – ci disse, mostrando le poltroncine di fronte a lei – Benvenuto, Mirko. Ti abbiamo convocato per una missione un po’ diversa dal solito. L’agente che si è perso stavolta sappiamo dov’è, ma non siamo in grado di riportarlo a casa. Però tu puoi contattarlo, perché si trova sul tuo livello, Terra-49.
Mirko, senza attendere che la Frank completasse il suo discorsetto introduttivo, le disse:
– Lo so, è Joaquin. L’ho già incontrato e vorrebbe sapere come mai si trova là e perché non l’abbiate ancora riportato indietro.
La Frank mi guardò.
– Questa è la prova che i tuoi sogni sono davvero un collegamento con Joaquin-1 – osservò.
Mirko, evidentemente, sapeva già di cosa stava parlando la Frank, perché aggiunse:
– Anche Joaquin mi ha detto di essere in collegamento con lui. Credo sia l'unica cosa che l'abbia tenuto tranquillo. Sa che il suo alter-ego adesso lavora qui.
– È vero – confermò.
– Come mai non avete ripetuto lo scambio? – chiese Mirko.
– Perché è avvenuto accidentalmente, attraverso un tunnel nell’iperspazio, che noi non siamo ancora in grado di replicare. I nostri fisici ci stanno lavorando.
– E allora che cosa devo dire a Joaquin?
– Digli che non l’abbiamo abbandonato. Deve avere pazienza.
– Mi ha raccomandato di dirvi che si è ambientato bene. La sua vita scorre esattamente come accadeva qui, con l’unica differenza che sul nostro livello non è riuscito a trovare un Centro come questo e quindi non sapeva come contattarvi.
– Noi siamo rimasti sempre in contatto, sin dalla prima notte – obbiettai.
– Ma lui ci ha messo un po’ a capire. All’inizio gli sembravano soltanto strani sogni.
– Capisco. Comunque stiamo migliorando e penso che presto troveremo un modo di comunicare anche da svegli.
– L'ha detto anche lui. – si stupì Mirko – Prima che me ne dimentichi, ho un altro messaggio per voi. Spero che comprendiate di cosa parla, perché io non l’ho capito. Dice che secondo lui, i ragazzi della cellula non sono umani. 
– Cosa? – dissero in coro Andrej e la Frank.
– Se non sapete cosa vuol dire, io non posso aiutarvi.
– Non capisco come faccia a…
La Frank ci guardò, prima Andrej e poi me. Entrambi erano stupiti.
– Il nostro contatto dev’essere più profondo di quanto pensassi – commentai.
– Non ci sono dubbi – affermò la Frank.
– Bene. Credo che potrò rassicurarlo che state facendo del vostro meglio per riportarlo indietro.
– Sì. Salutalo e digli che i sogni funzionano meglio di un telefono.
Riaccompagnando Mirko alla navetta, gli raccomandai di salutare il mio alter-ego. Una volta sparito, Andrej mi riportò dalla Frank.
– Cos'è questa storia che i ragazzi non sarebbero umani?
– Credo che Joaquin abbia intuito i miei sospetti. Forse anche a lui sembrano poco umani, perché sono troppo perfetti.
– Certo, provengono da un altro multiverso, dove le cose funzionano diversamente.
– Proprio per questo, sarà meglio studiarli più a fondo – avvertì Andrej.

Robert Davino aveva un sogno: viaggiare nell’iperspazio. Lo aveva fin da ragazzino, quando leggeva ogni romanzo di fantascienza su cui gli riuscisse a posare le mani. Sostenuto da quest’unico sogno, aveva messo insieme un team che lo aveva seguito entusiasticamente, fino a seppellirsi nelle viscere di quella collina, in cui avevano costruito il Centro di Addestramento. Da quando era apparso tra loro Joaquin-49 ed era scomparso Joaquin-1, non parlavano d’altro. Erano vicinissimi alla meta. Capire come fosse accaduto e ripetere l’esperimento, aveva assorbito tutta l’attenzione del laboratorio. Il sopraggiungere della cellula da Multiverso-2 aveva dato loro un’ulteriore spinta verso il traguardo cui Robert aspirava da tempo.
Al terzo piano i laboratori erano sempre attivi. Robert era di turno e ci accolse con espressione lievemente stupita, forse più che altro per la mia presenza. Quando Andrej gli chiese notizie sui nanochip e gliene spiegò il motivo, Robert affermò che i loro studi non erano in fase molto avanzata, perché ci si era messa di mezzo la politica. Prima di tutto si voleva stabilire un’etica delle nanotecnologie. L'opinione pubblica temeva soprattutto la parola autoriproduzione, che significava la capacità dei nanoelementi di riprodursi autonomamente, ma anche quella di essere in grado di ripararsi da sé. Questo aveva bloccato molti progetti e numerosi finanziamenti. Le nanotecnologie erano in una fase di stallo e le ricerche proseguivano a rilento.
– Ho mantenuto molti collegamenti con alcune Università. Mi informerò sui progressi. L’unico problema è la maledetta segretezza che siamo costretti a osservare. Mi chiederanno a cosa sto lavorando. Non posso certo dire che mi serve perché ho qui un tizio con un nanochip impiantato nel polso!
– No, Robert, direi che sarebbe meglio evitarlo.
– Non sarà facile.
– Lo so, ma sono certo che troverai il modo.
– In caso, a che serve?
– Pensiamo che sia doveroso liberarlo da quel corpo estraneo.
– M’informerò, ma mi sembra tutta fatica sprecata.

 

Una volta tornati al secondo piano, appena usciti dall’ascensore, mi sembrò di vedere la Frank svoltare l’angolo insieme con Mikhael, ma mi dissi che non era possibile. Forse cominciavo a essere stanco. Giunti davanti alla porta di Andrej, gli augurai la buonanotte e poi m’infilai nella mia stanza. Joaquin-1 mi venne incontro appena posai la testa sul cuscino, chiudendo gli occhi. Non mi sembrava di essere ancora addormentato, ma piuttosto in dormiveglia. Joaquin-1 mi disse che le cose stavano cambiando. Si rivolgeva direttamente a me, senza passare per i miei sogni o i suoi.
– Mi puoi sentire? – chiese.
– Sì, ti sento.
– Oh, finalmente!
– Volevi parlarmi?
– Sì. Volevo dirti che, se mi metto in ascolto, sento i tuoi pensieri e le tue impressioni. È incredibile. A te non capita?
– Io non ci ho mai provato.
– Capisco. Bada a Lara. C’è qualcosa che non ti convince in lei.
– Lo so benissimo, ma da dove ti è venuta l’idea che non sia umana?
– Da te. Hai pensato che la loro intelligenza non è normale e che potrebbero avere un cervello rinforzato da qualche strano impianto.
– Non mi ricordo di averlo pensato.
– Eppure è così. Tu forse sei distratto da mille altre cose, ma io sento soltanto i tuoi pensieri e posso restare più concentrato su quelli.
– Sarà. Però mi sembra tutto così incredibile. Che ci fai nella mia testa? Cosa c’è capitato?
– Credo che sia per il fatto che ci siamo incrociati per sbaglio nell’iperspazio. Forse abbiamo occupato lo stesso spazio per un attimo e abbiamo mescolato un po’ di noi. Chi lo sa?
– Oppure capita perché siamo uguali. Siamo la stessa persona su due livelli diversi. Adesso però fammi dormire. Sono sfinito.
– Buonanotte, Joaquin.
– Buonanotte anche a te.
Il mattino seguente, Andrej bussò alla mia porta alle sette del mattino. Stavo ancora dormendo, ma lui non si scusò nemmeno. Mi aveva portato la colazione in un sacchetto e aveva due bicchieri di carta impilati uno sull’altro.
– Cappuccino e brioches – annunciò.
– Grazie, Andrej. A che devo l’onore? – chiesi, sbadigliando.
– Ieri sera dicevo che dobbiamo studiarli meglio. Credo che per farlo dobbiamo cercare di assecondare i loro interessi. Per esempio, Dirma mi ha confessato che le piacerebbe imparare a cucinare. Ha visitato le cucine della nostra mensa e trova che sia molto divertente mettere insieme i pasti. Accontentiamola.
– Per me non ci sono problemi. Non sono io a decidere – commentai, chiedendomi perché Andrej parlasse con me come se avessi voce in capitolo.
– È vero, scusa. A volte mi dimentico che tu non fai parte del team.
– Non c’è di che. Un giorno forse ne potrò far parte anch’io, se me lo permetterete.
– Sono sicuro che accadrà presto. Ormai tutti si sono abituati a te, persino i militari. E si fidano – affermò, sorridendomi allegramente.
– Non sarà che lo pensi solo perché sei tu che ti fidi di me?
– Vuoi dire che attribuisco agli altri le mie preferenze? Può darsi. Non posso farne a meno. Mi piaci, Joaquin. Mi sei piaciuto dal primo momento che ti ho visto.
– Anche tu mi piaci.
Forse riuscii ad ammetterlo perché non ero ancora del tutto lucido.
– Bene. Allora, alzati e fai colazione con me.
Non me lo feci ripetere due volte. Seduti ai due lati della scrivania, ci guardammo.
– Quant'è che non vedi il sole, quello vero? Che non respiri aria pura, non filtrata dal sistema di aerazione?
– Quattro mesi.
– E non ti manca?
– Certo che mi manca. Ma so che non devo pensarci. A che servirebbe lamentarmi? A convincermi di essere una vittima, di essere un prigioniero, a farmi crescere dentro il risentimento, e poi l'odio, che farebbero stare male solo me. Così mi adatto alla situazione. So che devo avere pazienza, che questa condizione cambierà, perché non c'è nulla che sia eterno. E poi ho fiducia in Robert. Lui sta cercando il modo.
– Hai ragione. E sono convinto che se questa cosa era proprio necessario che accadesse, il caso ha scelto la persona giusta.
– L'uomo giusto al posto giusto...
Mi misi a ridere.
– Ho voglia di uscire da questo buco – disse Andrej improvvisamente, guardandomi dritto negli occhi – e ho deciso di portarti con me.
– Credi che te lo permetteranno?
– Ci puoi scommettere – affermò lui, con decisione, alzandosi dalla scrivania e allontanandosi a passo di carica senza nemmeno salutarmi.
– Attacco di claustrofobia? – mi domandai.

5. FUORI DALLA BASE

 

La prima cosa che mi stupì furono i colori. Il cielo era azzurro come non ricordavo che fosse. O forse non vi avevo mai dato importanza, in passato. Il sole era piacevolmente caldo. La distesa d'erba davanti all'ingresso del Centro era di un verde intenso. Sospirai. Cose che diamo per scontate diventano preziose solo quando ci mancano. Era un pensiero banale, di un'ovvietà penosa, eppure per me acquisì significato solo in quel preciso momento.
– Grazie, Andrej.
– Non avevi capito di essere al limite?
– No, te lo confesso. Perciò ti ringrazio doppiamente.
Andrej si nutrì avidamente del mio sguardo, poi mise lo zaino in spalla e cominciò ad attraversare la radura circondata dagli alberi. Io lo seguii.
Camminavamo in silenzio, respirando l'odore vegetale.
– Che ne pensi di Mikhael? – chiese Andrej.
– Beh, almeno lui non è un superuomo. Però questo non basta perché riesca a fidarmi di lui. C'è qualcosa che mi disturba in tutta questa storia. Il problema è che non so cos'è.
– Amanda invece comincia a fidarsi di lui. Se non fosse per i militari che sono contrari, l'avrebbe già lasciato andare, lui e i suoi ragazzi.
– Rischiando che possano raccontare la loro storia e far conoscere l'esistenza del Centro?
– Lei e lo psicologo ne hanno discusso. Sono d'accordo che la rigida educazione dei ragazzi potrebbe essere un punto a loro favore. Si potrebbe far giurare a tutti di mantenere il silenzio sull'intera faccenda.
– Un giuramento? I militari si farebbero una grassa risata.
– Però se ci riuscissero, sarebbe un buon precedente per te.
– Senti Andrej, mi libererebbero solo nel caso che avessero intenzione di diffondere la notizia della loro esistenza. E non s'immaginano nemmeno che pur di non assecondarli mi farei tagliare la lingua. Non sono un burattino e non sono al loro servizio.
Andrej sospirò.
– Mai come in questo momento, vorrei potermene andare e portarti con me.
– Dove andresti?
– Non ci ho ancora pensato. Nel nord Europa, forse, o in Canada.
– E a fare che?
– Qualunque cosa, purché lontano da quelle caverne. Voglio tornare a vivere alla luce del sole, voglio respirare liberamente, sapere quando è il tramonto, quando piove, quando nevica, quand'è Natale, quando gli aceri diventano rossi e le onde del mare sono gigantesche. Voglio tornare a vivere, Joaquin. E vorrei lo stesso per te.
Mi fermai, appoggiando le spalle a un grosso albero. Sentivo che qualcosa si stava sciogliendo dentro di me, che un timido calore stava tornando a circolare nel mio gelo.
– Grazie, Andrej.
In fondo non avevo idea del motivo per cui gli fossi grato. Forse perché ero fuori, con il cielo sulla testa e i piedi ben piantati sulla nuda terra.
– Non mi sono accorto di essere prigioniero, finché non sei arrivato tu. Quindi sono io che ti devo ringraziare.
Di slancio Andrej mi strinse con forza in un abbraccio. Poi si staccò da me e abbassò lo sguardo.
Era un uomo magnifico, che sapeva dimostrare il suo calore umano e che non si vergognava certo dei suoi slanci. Perché dunque, dopo avermi abbracciato, non riusciva a guardarmi negli occhi?
In quel momento uno scricchiolio tra gli alberi ci fece sobbalzare. Fummo presto circondati da militari in mimetica con i mitra spianati.
– Temo che dovrete venire con noi – disse uno di loro.
Non erano militari del Centro.
Usciti dal bosco, ci caricarono su una camionetta e imboccarono un sentiero che conduceva verso sud. Durante il trasferimento nessuno dei soldati fiatò. Andrej e io, seduti in mezzo a loro, ci limitammo a domandarci chi diavolo fossero, che cosa volessero e dove ci stessero conducendo. La risposta alle nostre domande fu chiara circa cinque minuti dopo, quando giungemmo nel bel mezzo di un accampamento e ci portarono davanti al comandante.
– Buongiorno, signori. Non vedo le vostre mostrine, ma venite sicuramente dal Centro di Addestramento, vero?
– Siamo civili – rispose Andrej.
– In divisa? E perché una verde e l'altra blu?
– È solo un vestito.
– No. Non è solo un vestito. Cosa ci fate al Centro, se siete due civili?
– Che cosa volete da noi?
– Sì, è vero che non sei un militare, altrimenti mi avresti risposto, invece di farmi un'altra domanda. Quindi la ripeto e pretendo una risposta. Che cosa ci fate al Centro?
– Ci occupiamo della logistica – risposi, trattenendo Andrej per un braccio.
– Se state pensando di mantenere qualunque segreto, sappiate che siamo già informati di tutto. Quindi, non sprecate energie. L'unica cosa che ci serve è che facciate uscire dalla base Mikhael Carrey e la sua squadra. Siamo venuti a riprenderceli.
– E come avete fatto a seguirli fino a qui? – chiese Andrej, stupito.
– Non credo che la cosa v’interessi.
– Se sta cercando la nostra collaborazione, sarebbe bene che ci rispondesse, non crede? – domandai.
– Ho capito. Siete due rompicoglioni. Ce ne sono dappertutto, del resto. È una costante di ogni pianeta abitato.
– Potrebbe forse interessarle uno scambio - proposi.
– E quale sarebbe la tua proposta?
– Noi li portiamo fuori, voi ve li riprendete e ci lasciate liberi da qualche parte, lontano da qui.
– Nient'altro?
– Nient'altro.
– Ma come? Non chiedete un riscatto? Non volete soldi?
– È questo che pensate della gente di questo pianeta? O forse è quello che succede nel vostro multiverso?
Il capitano restò immobile. Poi ci guardò bene in faccia.
– Noi facciamo parte del vostro multiverso.
– Ma com'è possibile? Solo da questo pianeta si possono aprire i cunicoli.
– La tua convinzione è errata. Si possono aprire da qualunque universo verso qualunque altro. Siamo noi che abbiamo impedito che accadesse. Quando i pianeti raggiungono la capacità di aprire corridoi nell'iperspazio, interveniamo a chiuderli. Non vogliamo rompicoglioni come voi sul nostro pianeta.
– Adesso capisco.
– Allora la mia richiesta è un'altra. In cambio di Mikhael e dei ragazzi, voglio che rimandiate lui su Terra-49 e che mi permettiate di andarmene da qui – disse Andrej.
Il capitano mi osservò con nuovo interesse, sorridendo ironicamente.
– Ah, sei tu l'errore di calcolo. Molto divertente. Sei rimasto incastrato qui, eh? Vedi che cosa succede a giocare con cose che non si conoscono?
– Non l'ho chiesto io – precisai.
– Per giunta! Ti hanno rapito?
– Per sbaglio.
– Non ne dubito. Non sanno quello che stanno combinando. Sono come bambini che giocano con una bomba elettromagnetica.
– Allora, l'accordo si fa? – domandò Andrej – Se non vogliamo dare nell'occhio, dobbiamo tornare subito al Centro.
– L'accordo è che usciate tutti dalla Base entro due giorni. Se non vi vediamo, attacchiamo il Centro e potete stare sicuri che voi non andrete da nessuna parte. Sono stato chiaro? Se ne parlate con qualcuno lo sapremo, e il risultato sarà esattamente lo stesso. Fatevi i vostri conti.
– Tutto chiaro. Manca solo che risponda a una domanda: come avete fatto a seguire Mikhael?
– Pensate davvero che chiunque possa utilizzare un corridoio nell'iperspazio senza il nostro consenso? Mikhael è qui perché l'abbiamo lasciato fare. Il suo amico si è limitato a raccontargli una bella favoletta e lui ha abboccato. A noi interessava mandare qui un agente che facesse da testa di ponte. Lui o un altro non avrebbe fatto differenza. I ragazzi sono androidi programmati per ripulire le tracce dopo la distruzione del Centro. Qui non rimarrà nessuno che ne possa parlare. No, neanche tu. Se vuoi vivere, puoi accompagnare il tuo amico su Terra-49. E solo perché è un livello che abbiamo già ripulito e oggi mi sento stranamente buono.

– Passeggiata lunga! – commentò la dottoressa Frank, vedendoci rientrare.
– È una giornata splendida, là fuori. Dovremmo farlo più spesso.
– La prossima volta vengo anch'io.
– Perché no? – rispose Andrej, mentre io mi chiedevo come avremmo fatto a convincerla in due giorni a portare fuori anche Mikhael e i ragazzi.
– Sì, ma adesso vi devo lasciare. Robert mi vuole parlare. Speriamo che abbia trovato qualcosa.
Amanda Frank si allontanò in fretta, infilandosi nel primo ascensore.
Mi avvicinai al suo orecchio per sussurrargli:
– Non parlare finché non arriviamo alla mia camera.
Andrej assentì.
Il corridoio del settore abitativo era deserto. Entrammo nella mia stanza e ci guardammo in faccia.
– Mi dispiace che tu non possa restare qui – gli sussurrai in un orecchio.
– Io invece sono contento di venire da te. Quali differenze vuoi che ci siano? – rispose Andrej, nello stesso modo.
– Andrej, hai riflettuto su quello che significa la presenza dell'universo GUM nel nostro multiverso?
– Si tratta di un'anomalia.
– O, più probabilmente, si tratta del nostro futuro. Di quello di ogni pianeta.
– Cazzo, non ci avevo pensato.
– Sta già succedendo. Possiamo intervenire, secondo te?
– E come?
– Dobbiamo parlare con Robert.
– Hanno detto che se lo diciamo a qualcuno loro lo sapranno. Ma come?
– Dagli androidi, per esempio. Io sono convinto che Lara senta attraverso le pareti.
– Pensi che sia una capacità che hanno tutti?
– È probabile.
– Ci chiuderemo nel caveau.
– Cosa?
– Lasciami fare.
Robert e Amanda si zittirono al nostro ingresso. Andrej prese carta e penna e si mise a scrivere, sotto lo sguardo incuriosito dei due. Una volta finito, tese il foglio a Robert, che lo scorse velocemente e lo passò ad Amanda. Entrambi impallidirono.
Andrej prese un nuovo foglio e scrisse "parliamoci nel caveau". Robert negò con un veloce movimento della testa, quindi si mosse in fretta accennando a tutti di seguirlo.
Il laboratorio era dotato di una camera insonorizzata. Andrej non lo sapeva. Ci chiudemmo dentro.
– Allora, che storia è?
Andrej e io riassumemmo la situazione.
– Bisogna avvisare l'esercito – decise Amanda.
– Loro penserebbero solo a scatenare la guerra. Ma poi ne verrebbero altri. – commentò Robert – Non ci voleva, proprio adesso che siamo a buon punto con le ricerche. Ma non ce la faremo mai a fregarli. Ci dobbiamo trasferire. E lo faremo senza avvertire nessuno.
– In due giorni? E con il nemico in casa? Quegli androidi non permetteranno a nessuno di fuggire.
– Dobbiamo neutralizzarli.
– E come?
– Vado a chiamare Mikhael. Deve essere messo al corrente.
– Amanda, sei sicura di quello che fai? E se il capitano avesse mentito? Se Mikhael fosse un loro agente?
– Dobbiamo rischiare. E poi ormai credo di conoscerlo bene. Ho avuto numerose conversazioni private con lui.
– Perché dici che dobbiamo rischiare?
– Perché è l'unico che ci può aiutare a mettere fuori uso gli androidi. Ne sa sicuramente più di noi, no? Voi che ne pensate?
– Io penso che il GUM non avesse alcun buon motivo per metterci al corrente dei loro piani. Questo dimostra ampiamente la loro arroganza. Ci sottovaluta a tal punto da fregarsene di rendercene partecipi, perché è certo che non possiamo contrastarli. Per il GUM siamo topi in trappola. Per me va bene, Amanda.
– Vai, Amanda. Per il calcolo delle probabilità, almeno una cosa deve andare bene – aggiunse Andrej.
Robert si limitò ad annuire.
Amanda sorrise e sparì dietro la porta.
– Allora, Robert, sei davvero a buon punto? - volli sapere.
– Sì. Abbiamo aperto un canale nell'iperspazio. Ma il mondo collegato sembrerebbe completamente deserto.
– E che fine ha fatto l'umanità?
– Non lo so. Per quel che abbiamo potuto appurare non c'è traccia di esseri umani per miglia e miglia.
– E le altre forme di vita?
– Ci sono pochi animali, ma la vegetazione è fiorente.
Le sue parole furono subito inghiottite dalle pareti. Se esisteva un mondo tanto diverso da quelli conosciuti, perché non doveva esisterne uno su cui si era affermato il GUM, e magari più d'uno?
La rivelazione di essere stato mandato su Terra-1 grazie a un inganno del GUM, con la complicità di Mike, colpì Mikhael come una fucilata. Si accasciò sul pavimento, con la testa sulle ginocchia e cominciò a guaire come un cane. Ci volle tutta la pazienza di Amanda e di Andrej per farlo riprendere dalla sua prostrazione.
– Sono un uomo morto – esclamò infine, disperato.
– No. Tu puoi aiutare te stesso e noi, adesso che lo sai. Dobbiamo trovare insieme il modo di uscirne. Per prima cosa, come possiamo mettere fuori uso gli androidi?
– Ma siete proprio sicuri che i miei ragazzi siano stati sostituiti con degli androidi?
– Così ha affermato il capitano del GUM.
– È terribile.
– Non abbiamo molto tempo per le recriminazioni, i lamenti e i se fosse. Dobbiamo agire subito. Quindi, concentrati, Mikhael. Come facciamo a metterli fuori uso?
– Rispondono a trasmissioni di microonde come gli esseri umani. Ma quelli del GUM ricevono a loro volta le informazioni nello stesso modo. Nel momento stesso in cui non riceveranno più i loro segnali, sapranno quello che abbiamo fatto e verranno a distruggere il Centro.
– Ok. Allora dobbiamo trasferirci senza farglielo sapere – disse Robert.
– E come? – domandò Amanda, bruciando tutti gli altri sul tempo.
Robert si mise a camminare avanti e indietro, completamente concentrato su se stesso. I suoi passi non facevano rumore. Tutti gli altri, me compreso, erano immersi in domande senza risposta. Infine Robert si fermò di fronte a noi e ci guardò.
– Trasferiremo l'intero complesso in un colpo solo. Un attimo prima metteremo fuori uso gli androidi. Quando giungeremo a destinazione non ci sarà più una trasmissione che possa farci intercettare dal GUM.
– Come, l'intero complesso? – disse Amanda, che non riusciva a seguire il suo ragionamento.
– Il fatto che fin qui abbiamo trasferito un solo uomo alla volta non significa che non si possa trasferire qualcosa di più grande. Come credi che sia apparso qui il piccolo esercito del GUM? Noi faremo lo stesso.
– E dove pensi di trasferirci?
– Esattamente dove siamo adesso.
Questa volta parlammo tutti insieme, sovrapponendo domande che volevano tutte la stessa risposta. Robert ci zittì.
– Fatemi finire. Ci trasferiremo in due tempi. Il primo passaggio avverrà su un qualunque altro livello. Il secondo, sarà verso questo. Torneremo quando saremo sicuri che il GUM abbia accertato che siamo spariti e se ne saranno andati.
– Può funzionare – approvò Mikhael.
– Grazie, ci conto.
– Tutta la preparazione dovrà avvenire senza che gli androidi si accorgano di nulla – disse Andrej.
– Mikhael, conosci una modulazione di segnali elf che possano confondere gli androidi?
– Certo, ma farebbero lo stesso effetto su di noi.
– Allora bisogna distrarli in qualche altro modo.
– A questo avevamo già pensato noi. – disse Andrej – Lo faremo Joaquin e io. Sappiamo come tenerli occupati.
– Bene, allora. Nessuno parli di questa storia. Se dovete comunicare qualcosa, fatelo per iscritto e verremo a discuterne in questa stanza. Andrej, se avete bisogno di collaboratori per distrarre gli androidi, portateli qui e spiegate loro cosa devono fare.
– Lo faremo subito.
Mentre gli altri uscivano dalla stanza, Andrej mi trattenne per un braccio e poi richiuse la porta.
– Mettiamoci d'accordo prima.
– Io mi occupo di Lara. Per Dirma basterà assicurarsi che la coinvolgano in cucina.
– Va bene. Io penserò agli altri.

 

6. UN SALTO NELL'IPERSPAZIO

La prima riunione fu convocata a notte fonda. Erano presenti tutti coloro che erano stati coinvolti nel piano. La stanza insonorizzata era più affollata della volta precedente.
– Vi ho riunito qui per informarvi che abbiamo trovato un modo per rendere inoffensivi gli androidi.
– Come? – domandò Mikhael.
– Che te ne pare dei taser? Gli androidi sono computer, no? Per mandarli in tilt basterà una bella scarica elettrica. Si avvicineranno a loro gli stessi che li hanno tenuti impegnati, in questo modo non desteranno sospetti. Pensi che basterà?
– Non so cosa siano questi vostri taser, ma se il loro scopo è quello di trasmettere una potente scarica elettrica, dovrebbero essere in grado di metterli fuori combattimento. Il mio problema è che non sono ancora convinto che si tratti di androidi. Io ho vissuto per tutti questi anni con loro, senza mai sospettare nulla.
– Dimmi, Mikhael, tutti i ragazzi del tuo mondo sono altrettanto intelligenti, forti e perfetti?
– No.
– E perché i tuoi dovrebbero esserlo? Perché li hai addestrati tu? Non per sminuire il tuo valore d’insegnante, ma non ti sei mai chiesto come mai fossero tutti così ricettivi ai tuoi insegnamenti?
– Non lo so. Mi limitavo a esserne orgoglioso. Pensavo che se tutti gli altri fossero stati liberi come loro, avrebbero potuto raggiungere i medesimi risultati. Davo al GUM la colpa della mediocrità in cui versavano i giovani all'esterno, non che i successi dei miei ragazzi fossero un mio merito.
– Già, è così che ti hanno fregato.
– Sono incredibilmente furbi. Riescono a far lavorare contro di te i tuoi stessi difetti.
– Beh, noi non lo permetteremo.
– Scusa, Robert – intervenni – io temo che se il GUM appartiene al nostro multiverso, la stessa cosa possa capitare anche a noi. Joaquin su Terra-49 ha potuto fare alcune ricerche. Secondo lui qualcosa del genere è già in cammino su quel livello. E se stesse succedendo anche qui? Io vorrei sapere da Mikhael come sono arrivati a quella catastrofe.
– Sull'idea di avere un unico governo mondiale si è discusso molto anche qui. Il modello prospettato è molto accattivante. Significherebbe mai più guerre, accentramento dei migliori cervelli per sviluppare nuove tecnologie che farebbero avanzare l'intera umanità più in fretta, migliore ridistribuzione delle risorse, una vita migliore per tutti – concluse Robert.
– Mikhael, chi elegge il vostro governo unico?
– Nessuno. Un giorno hanno comunicato che erano lì e che da quel momento ci sarebbe stata la pace sul pianeta.
– E come ci siete arrivati?
– È stato un lungo cammino. Il nostro assoggettamento è durato decenni. Sono stati subdoli in modo rivoltante. Hanno iniziato dal denaro. A un certo punto l'hanno sottratto al controllo dei governi con varie tecniche. Quando infine è stato concentrato tutto il potere in una banca unica, hanno iniziato a vessare economicamente le varie nazioni. Erano loro a farlo, ma riuscivano a passare per salvatori quando poi sganciavano un po' di denaro in prestito a tassi altissimi, che dovevamo pagare noi.
– Solo questo? È bastato così poco?
– No. Nel frattempo si erano impadroniti del controllo sull'energia: petrolio, gas e nucleare erano gestiti da loro società. Hanno fatto lo stesso con l'acqua e il cibo, arrivando a rendere sterili interi continenti, per poi venire in nostro soccorso con semi modificati geneticamente che erano gli unici in grado di crescere. Naturalmente le società che ci procuravano quei semi erano di loro proprietà. Un altro passo è stato quello di ingabbiare l'informazione. Scuole, università, televisioni e giornali erano stretti nella loro morsa. Nessuna notizia che non fosse approvata poteva circolare. L'unica cosa su cui hanno faticato a mettere le mani, per un certo periodo, è stato il web, ma poi hanno comprato tutti in blocco e anche quella poca libertà d'informazione è finita. Le loro multinazionali pensavano anche alla nostra salute. O per meglio dire, spacciavano per medicinali vari composti chimici che servivano a far ammalare la gente. Curavano la malattia per cui li prendevi, ma nello stesso tempo te ne provocavano altre dieci. Vaccinazioni a tappeto ci misero in circolo virus che erano come bombe a orologeria e persino nanochip. Nel frattempo avevano disseminato le città del mondo di telecamere. Miliardi di telecamere che controllavano tutto e tutti. E la maggior parte di noi ne era felice, perché continuavano a ripeterci che lo facevano per la nostra sicurezza. Ci bombardavano di notizie atroci, che diffondevano la paura. Se avveniva un crimine, era immediatamente represso grazie al controllo visivo. E la gente applaudiva, chiedendo sempre più telecamere e sempre più controllo. Dalla sorveglianza visiva sono poi passati all'inoculazione di nanochip. Anche questo era sbandierato come un sistema che avrebbe garantito la nostra sicurezza. Nei nanochip erano raccolte tutte le notizie che ci riguardavano, all'inizio solo a livello medico, poi a poco a poco ci aggiunsero altro, finché si arrivò a una crisi tremenda di circolazione del denaro. In giro non se ne trovava più. Così ci dissero che i nostri crediti avrebbero potuto essere facilmente trasferiti sui chip e a quel punto tutti quelli che si erano fino allora rifiutati di farsene impiantare uno si convertirono in massa. Stranamente, ce ne fu per tutti e subito. Ma nessuno ci fece caso. Anzi, ci fu chi si accorse di averne già uno senza averlo mai richiesto. Erano anni che ce li inoculavano senza nemmeno farcelo sapere.
– Ma nessuno si è mai ribellato?
– Facendomi questa stessa domanda capii che ci tenevano buoni artificialmente e in un secondo momento come ci riuscissero.
– E come?
– Con un gigantesco trasmettitore di frequenze radio che rimbalzavano sulla ionosfera e venivano dirette su quei paesi che di volta in volta si ribellavano. Modulando il segnale alla frequenza voluta, potevano costringere la gente a starsene tranquilla, oppure a diventare violenta. Quando pensavano che in un paese ci fosse un problema di sovraffollamento, inventavano una notizia che potesse scatenare un conflitto attraverso una nostra paura, in modo che le opposte fazioni si combattessero. Intervenivano solo dopo che c'era stato un numero sufficiente di vittime.
– E nessuno si è mai ribellato a tutto questo? – insistette Robert, colpito.
– Non era facile accorgersi di quello che capitava. Dovevi andare a cercare notizie completamente scollegate dalle altre e poi mettere tutto insieme. Erano pochi coloro che avevano capito quello che stava succedendo. E il problema era che venivano ridicolizzati in ogni modo, oppure fatti sparire. Dopo che ci hanno costretto a impiantarci il nanochip, nessuno di noi ha potuto più farci niente. Io ho tentato questa fuga ritenendomi al sicuro, e invece, come avete visto, non è valso a nulla. Forse solo a mettere in pericolo anche voi.
– Saperlo prima, ci aiuterà a tenere gli occhi aperti.
– Non sarà sufficiente. Dovrete trovarli, qui, uno a uno, e farli sparire prima che riescano a portare a termine i loro progetti criminali.
– Va bene, Mikhael. Facciamo un passo alla volta. Per ora ci interessa trasferire il Centro. A tutto il resto penseremo dopo.
Mikhael annuì.

 

Mentre Robert e la sua equipe si occupavano del trasferimento, io ero in compagnia di Lara. Aspettavo di udire il segnale sonoro che sarebbe stato diffuso un minuto prima del salto, per estrarre il taser e disattivare la ginoide. Intanto chiacchieravo amabilmente con lei, che quel giorno era curiosa di come fosse un teatro, a quali spettacoli si potesse assistere, che tipi erano gli attori, e mille altre cose che in quel momento mi sembrarono assurde futilità. Ero concentrato per mantenere la massima calma, anche se non era facile. Ogni tanto mi passava per la mente l'immagine della vasca di acido dove avrei dovuto trasportare la ginoide una volta disattivata.
– Vuoi farti un bagno? – mi chiese a un tratto.
Trasalii, ma nello stesso tempo risuonò la sirena antincendio, segnale convenuto per portare a termine, tutti contemporaneamente, il nostro piano. Estrassi fulmineamente il taser, mentre Lara si avventava su di me ancora più velocemente. Riuscii ugualmente a piantarglielo addosso sparando alla massima potenza. Per un attimo avevo temuto che Lara potesse disarmarmi. Mi caricai in spalla la ginoide e mi diressi alla vasca che era stata approntata in laboratorio.
L'ultimo ad arrivare con il suo fardello tecnologico fu il capo-cuoco, cui era andata peggio che a tutti gli altri. Aveva il viso graffiato e un occhio tumefatto. Fu quindi molto comprensibile il suo sospiro di soddisfazione mentre osservava gli effetti dell'acido sull'ultima vittima che affondava velocemente, sciogliendosi in bolle colorate.
La sirena aveva già risuonato in tre note lunghe. Era il segnale che eravamo su un altro livello. Non ce n'eravamo neanche accorti. Robert ci aveva trasferiti sul mondo disabitato, perché era l'unico di cui si conoscessero le coordinate certe.
Mikhael si asciugò le lacrime che non era riuscito a trattenere e seguì noi altri nella sala riunioni al piano di prima accoglienza, dove Robert e Amanda, insieme con l'equipe scientifica, il Colonnello responsabile della Base e alcuni soldati stavano già aspettando.
– Missione compiuta – comunicò Andrej, entrando nella sala.
– Che significa? – chiese il Colonnello.
– Hanno disattivato gli androidi.
– Ma siete impazziti? Potevano servirci per comprendere la loro tecnologia!
– Era necessario. Gli androidi trasmettevano al GUM la nostra posizione.
– E non mi avete interpellato? Questo è inammissibile!
– Se ve l'avessimo comunicato, saremmo ancora lì a discuterne. Non c'era tempo. Abbiamo fatto quello che andava fatto. Adesso ci limiteremo ad aspettare qualche giorno, poi manderemo indietro un paio di esploratori per accertarci che se ne siano andati e riporteremo il Centro dov'era.
– No, professore. Da questo momento gli ordini li do io. Vi sollevo dall'incarico. E voi, portatemi gli androidi che avete disattivato.
– Gli androidi non esistono più, Colonnello. Sono stati sciolti nell'acido – gli comunicò Andrej.
Il Colonnello fu costretto a sedersi. Era paonazzo.
– Voi... voi... siete una cricca di pazzi. Siete tutti agli arresti!
– Avrete bisogno di noi per riportare indietro il Centro – obbiettò Robert.
– Toglietemeli da sotto gli occhi, prima che spari a qualcuno – disse il Colonnello tra i denti.
– Signor Colonnello, dove vuole che li rinchiudiamo? – domandò timidamente uno dei militari.
Il Colonnello tirò il fiato, come volesse urlare, ma poi espirò rumorosamente e lo fissò per qualche istante.
– Portateli tutti ai loro alloggi e chiudeteceli dentro.
La segregazione era un'opzione che nessuno di noi aveva preso in considerazione, tranne Andrej.
Perciò quando sentii così chiara e vicina la sua voce, sobbalzai.
Il giorno precedente aveva fatto un buco nella parete che divideva la sua stanza dalla mia. Da entrambi i lati era nascosto da un poster.
– Non ho avuto il tempo di avvertirti.
– Non importa. Hai avuto una premonizione?
– Non esattamente. Conosco molto bene la mentalità dei militari. Era ovvio che il Colonnello prendesse tutta quest’operazione come un affronto personale. Però non ero sicuro che ci facesse rinchiudere nelle nostre stanze, altrimenti avrei fatto un buco più grande.
– Come l'hai fatto?
– Con un laser.
– Dimmi che ce l'hai ancora.
– No, ho dovuto rimetterlo al suo posto.
– Peccato.
– Joaquin, forse saremo costretti a evadere, per uscire dal Centro, una volta tornati su Terra-1.
– Ci stavo pensando. A quanto pare, sarò io a rimanere nel tuo mondo. Tanto, come dicevi tu, non c'è poi molta differenza.
– Joaquin, farò del mio meglio per farti trovare bene.
– Per il momento pensiamo a come uscire da qui - dissi, allontanandomi dal buco.
La voce di Joaquin-1 mi raggiunse immediatamente.
– La devi smettere di trattarlo così. Andrej non se lo merita.
– Trattarlo come?
– Con freddezza.
– Non mi pare di trattarlo con freddezza.
– Ah no? Non sei sincero nemmeno con te stesso. Perché hai innalzato uno stupido muro tra te e l'unica persona che ti vuole bene davvero?
– Ma non dire idiozie!
– Io provo i tuoi sentimenti, non dimenticarlo. E quelli non rispecchiano minimamente il tuo comportamento.
– Lasciami in pace.

Come aveva giustamente detto Robert, per tornare indietro c'era bisogno di loro. Il Colonnello dovette convincersi inoltre che gli esploratori più validi eravamo Andrej e io, gli unici che avessero visto dove il campo del GUM fosse stato montato. Entrambi assicurammo di poter ritrovare il posto a occhi chiusi, anche se non era del tutto vero. Il salto nell'iperspazio fu effettuato all'alba, sulle coordinate della vallata davanti al Centro. Per realizzarlo non c'era bisogno di navette. Era sufficiente assumere una posizione precisa, all'interno dell'hangar.
Al momento del trasferimento, Andrej mi prese per mano e chiuse gli occhi, mentre io per un istante vidi l'hangar svanire in una nebbia colorata e trasformarsi in una distesa d'erba.
– Ottimo. Il Centro tornerà presto al suo posto. Andiamo a vedere se quelli del GUM se ne sono andati.
– Basterà seguire il sentiero?
– Sono sicuro che la camionetta abbia lasciato delle tracce. Considera che da queste parti non ci arriva nessuno da molto tempo. I rifornimenti arrivano in elicottero.

 

7. ALLA RICERCA DELL'ESERCITO GUM

Lasciammo una bandierina conficcata nel terreno, esattamente nel punto dove avremmo dovuto tornare perché i tecnici ci recuperassero e poi ci incamminammo. Appena usciti dal bosco, seguimmo il sentiero. Rispetto a pochi giorni prima, l'erba mi sembrava più alta e più verde e avevo inoltre l'impressione di respirare meglio, come se l'aria fosse più sottile, più ossigenata. Mi sentivo meglio. Espressi le mie impressioni ad Andrej.
– Anch'io ho la stessa sensazione. Lo trovo strano.
– Secondo te sono sufficienti un paio di giorni per far crescere l'erba in questo modo? Il sentiero s'individua appena.
– No, Joaquin. E nemmeno per far aumentare la quantità di ossigeno nell'atmosfera. Temo che siamo stati trasferiti sul livello sbagliato.
– Cos'è quella? – gli dissi, indicando una costruzione che durante il primo viaggio non avevo notato.
– Non lo so. Non dovrebbe esserci niente nell'arco di centinaia di chilometri intorno. Questa non è Terra-1. Adesso ne abbiamo la prova. Andiamo a vedere.
Avvicinandoci, ci parve chiaro che si trattava di un'abitazione. Davanti a essa era parcheggiato uno strano veicolo, una via di mezzo tra un'automobile e un aereo. Non aveva ruote e dai fianchi sbucavano piccole ali corte. L'erba intorno cresceva rigogliosa, come se fosse parcheggiato là da moltissimo tempo. Avvicinandoci ancora di più, iniziammo a sentire la musica. Era una melodia molto dolce, incredibilmente rilassante. Ci guardammo.
– Bussiamo? – gli chiesi.
– Non abbiamo alternative – mi rispose, dando due colpetti di nocche sullo stipite.
Ci venne ad aprire una donna. Restammo entrambi muti dalla sorpresa.
– Amanda, che diavolo ci fai qui?
– Non mi sembra di aver mai avuto il piacere... Ma entrate, entrate.
Amanda Frank ci fece accomodare nel suo salotto. Era luminoso, semplice, con una nota di colore senape che lo rendeva molto accogliente.
Naturalmente non era la nostra Amanda, ma quella del livello dove eravamo finiti. Le spiegammo la situazione, concentrando al minimo le informazioni, ma nonostante questo il nostro racconto andò per le lunghe.
– Anche noi sappiamo che è possibile viaggiare da una dimensione all'altra, ma questo mondo ha preferito rivolgersi alle stelle. Noi stiamo colonizzando altri mondi. Sono certa che si può trovare il modo di rimandarvi indietro, se volete.
– A questo ci penseranno i nostri tecnici, tra poche ore.
– Allora, che cosa posso fare per voi?
– Ci può raccontare qualcosa di questo mondo, per esempio, se non è troppo disturbo.
– Che cosa volete sapere?
– Abbiamo notato, arrivando qui, che l'aria è più ossigenata della nostra. E poi, là fuori, c'è quella specie di aereo in miniatura...
– L'aereo in miniatura è la mia auto, in effetti.
– Un'auto senza ruote? – mi stupii.
– Sfrutta la tecnologia.
– Quale tecnologia? – chiese Andrej.
– La tecnologia di Darvam. Si basa sul magnetismo e la gravità. Tutto ormai funziona con la tecnologia Darvam. Per questo sentite l'aria più pulita. Non ci sono più emissioni nocive di nessun tipo, qui. Non si usano più combustibili fossili, e questo ci ha salvato.
– Vuoi dire che tutto funziona senza, in tutto il mondo? Ma da quanti secoli ce l'avete?
– Dieci anni.
– Non è possibile. Non può essere arrivata in tutto il mondo in soli dieci anni.
– In effetti è stato possibile perché Darvam, dopo la sua scoperta, l'ha diffusa contemporaneamente in tutto il mondo, distribuendola gratuitamente a tutti i governi e a tutti i privati che gliene hanno fatto richiesta. Così a studiarne le applicazioni non è stato un singolo team nascosto in un isolato laboratorio, ma tutti gli ingegneri e i tecnici del mondo che ne fossero interessati.
– Su Terra-49 Darvam avrebbe fatto una brutta fine.
– Anche qui, a quei tempi. Per questo l'ha distribuita al mondo. Una volta rilasciata, la sua morte sarebbe stata del tutto superflua. Comunque non è stato facile. I poteri forti hanno cercato di boicottarla in ogni modo possibile. Però non si può fermare una cosa del genere. La rivoluzione è scoppiata contemporaneamente in tutto il mondo, abbiamo lottato, ci siamo riappropriati dei nostri diritti. Non è stata una lotta facile, ma abbiamo opposto una resistenza pacifica, che alla fine ci ha portato a un nuovo equilibrio. Quando le forze che detengono il dominio sull'energia, sul cibo, sull'acqua e sulla salute, perdono i loro appigli, il loro potere ne risulta completamente svuotato.
– Capisco – dissi, anche se non riuscivo nemmeno lontanamente a immaginare la portata di quegli eventi così laconicamente descritti.
Andrej continuava intanto a osservare, attraverso la finestra, l'auto parcheggiata in mezzo all'erba. Ne sembrava completamente affascinato.
– Mi piace molto la tua auto. A quanto va? – le domandò.
– Arriva a mach 40.
– Stai scherzando?
– No. Può fare il giro del mondo in 20 minuti.
– È impossibile! Si surriscalderebbe e fonderebbe nell'aria.
– Ma non esiste attrito, perché il campo magnetico l'avvolge completamente. Inoltre, all'interno si resta a gravità 1G per tutto il tempo. È la stessa tecnologia usata per i viaggi spaziali.
– Incredibile!
– Voglio farvi un regalo. Credo che dovremmo diffondere il nostro sapere a tutti gli altri pianeti e a tutti i livelli. In questo libro ci sono tutte le teorie di base e le tecniche di costruzione dei nostri sistemi, da quelle iniziali, artigianali, a quelli più evoluti. Spiega tutto. Però, mi raccomando, seguite le orme di Darvam. Non fatevi ammazzare.
Andrej lo sfogliò subito con grande curiosità, dopo aver ringraziato.
– Mi sento come Cristoforo Colombo – commentai sorridendo.
– Andrej, come vedi l'esistenza nello stesso multiverso di un mondo come questo e uno come quello del GUM?
Andrej sollevò lo sguardo dal libro, a malincuore.
– I nostri scienziati si sbagliano. In ogni livello tutto è possibile. Devono esserci delle variabili che permettono ai vari livelli di svilupparsi con modalità totalmente differenti.
– Il GUM ha preso il potere dieci anni fa, e lo stesso questa tecnologia Darvam. Quanto tempo è che esiste il Centro?
– Dieci anni.
– Cosa è capitato dieci anni fa su Terra-49?
– Dovresti saperlo tu!
– Però non lo so.
– Quando ci vivi in mezzo, non ti accorgi dei cambiamenti. Quando avvengono secondo una logica, non ci fai caso. Le concatenazioni storiche appaiono chiare solo da lontano.
– Credo che tu abbia ragione.
Amanda ci offrì del tè. Era buonissimo.
– Da dove arriva? – le chiesi.
– Lo faccio io.
– Sempre Darvam?
– Tutto è Darvam.
– Insomma, è una divinità.
– Con la tecnologia Darvam si sono cancellate le malattie, la fame, la scarsità d'acqua, l'inquinamento, la radioattività, i limiti di tempo e spazio. Se volessimo, potremmo viaggiare nel tempo, sapete? Qualcuno l'ha fatto, ma non è molto interessante. Il futuro non differisce dal presente e il passato è un orrore. Meglio vivere qui e ora.
– Ci sono altre costruzioni, qui attorno?
– Certamente. Tutto il mondo è abitato, ora che non siamo più dipendenti dalle linee elettriche o telefoniche, dai satelliti, dalla benzina o dai pozzi d'acqua. Il mondo è cambiato. In dieci minuti posso arrivare in qualunque città all'altro capo del mondo. Ora ciascuno vive dove vuole.
– Se potessi scegliere un mondo dove vivere, mi trasferirei qui.
– Beh, mi ha fatto piacere conoscervi. Restate pure quanto volete, ma io purtroppo devo lasciarvi. Mi aspettano al lavoro.
– Dove? – chiese Andrej.
– A Nova Atlantis, la città medica.
– Città medica?
– Sì, sono un medico.
– Sempre Darvam?
Amanda rise.
– Le malattie sono uno squilibrio magnetico, nient'altro. Studiate quel libro. Lo capirete da soli.
Ci salutò, abbracciandoci e facendoci mille auguri per il nostro futuro e quello dei nostri pianeti. Noi la seguimmo con lo sguardo, attraverso la grande finestra.
La sua auto si sollevò nell'aria senza rumore, poi partì così velocemente che non riuscimmo a vedere che lo splendore di una forte luce che solcava il cielo, qualcosa come certe immagini di UFO che giravano sul mio livello. Mi passò per la prima volta nella mente che quelle immagini potessero riferirsi a qualcosa di reale e concreto.
La sosta sul mondo Darvam fu la nostra piccola vacanza. Ci erano state concesse altre due ore, che sfruttammo all'aperto, passeggiando e chiacchierando su quello che avrebbe potuto comportare introdurre la tecnologia Darvam su Terra-1 o Terra-49. Andrej sognava un mondo senza restrizioni. Avrebbe voluto vivere in un luogo di eterna primavera, nella pace più assoluta.
– Vorresti un paradiso, come Mikhael.
– Se si tratta di sognare, aspiro al massimo.
– Ma i sogni non si avverano. Non c'è abbastanza volontà dentro un sogno.
– Volontà?
– Se vuoi ottenere uno scopo, bisogna agire di conseguenza. Progettare, lavorare, volere, agire.
– Mi piacerebbe vederti all'opera con la distribuzione di questa tecnologia Darvam.
– Non sono un ingegnere e nemmeno un fisico. Farei come ha suggerito Amanda. Una distribuzione a tappeto. Il resto verrebbe da sé.
– Temo che i primi a prenderne possesso e a svilupparla sarebbero i militari.
– Ma anche tutti gli altri.
– Prima di prendere una qualunque decisione, consiglio di farne una lettura accurata.
– Mi sembra un'ottima idea.

 

Il nostro ritorno, una volta ripresa la posizione di partenza, fu molto brusco. Non ebbi nemmeno il tempo di vedere sfumare l'erba intorno a noi, che già eravamo di nuovo rinchiusi nell'hangar.
Il Colonnello, Robert e Amanda ci stavano aspettando.
– Allora, se ne sono andati?
– Non lo sappiamo. Non era il livello giusto, Robert. Non ci hai rimandati su Terra-1.
– Di che cosa stai parlando, Andrej? Certo che era Terra-1.
– Posso assicurarti che non lo era.
Un silenzio di tomba accolse la notizia.
– Come fa a dirlo con tanta sicurezza? – domandò il Colonnello.
– Subito oltre il bosco c'era una casa. E dentro c'era un'alter-ego della dottoressa Frank.
Il Colonnello si rivolse a Robert, con un mezzo ghigno.
– Può risalire all'errore, dottore?
– Non c'è stato nessun errore. Erano le coordinate esatte.
– Allora c'è qualcosa che non va nelle sue formule, a quanto pare. Sarà meglio che vada a controllare. Metta tutti al lavoro, subito. Le ricordo che siamo su un livello deserto e che non avremo la possibilità di ricevere rifornimenti, finché siamo qui.
L'aveva presa con molta calma, tutto sommato.
Nel frattempo aveva liberato tutti dalle loro stanze. Il Centro era tornato a una certa normalità.
Dopo alcune ore, Robert convocò una riunione, alla quale ci presentammo tutti. La notizia che non eravamo riusciti a tornare indietro era circolata alla velocità della luce. Tutti erano preoccupati e ansiosi di ascoltare le novità che Robert aveva da comunicare.
– Abbiamo commesso un errore di portanza – ammise Robert, davanti alla piccola folla.
– Si spieghi meglio – lo incitò il Colonnello.
– Spostare l'intero Centro e spostare due soli uomini è diverso, ovviamente. La portanza è diversa. Abbiamo utilizzato una portanza maggiore di quanto dovevamo. Adesso abbiamo ricalibrato il sistema e ci è stato evidente l'errore. Siamo pronti a ripetere il trasferimento.
Andrej e io ci guardammo. Sarebbe di nuovo toccato a noi.
Il Colonnello non fece tardare i suoi ordini in questo senso. Dovevamo essere pronti entro un'ora. Per fortuna avevamo riposato, dopo il nostro ritorno dal mondo Darvam, e le energie non ci mancavano. Andrej preparò nuovamente lo zaino e ricominciammo tutto da capo.
Terra-1 ci accolse con la sua aria pesante, l'orizzonte fumoso e l'erba asfittica. Durante il cammino, non parlammo molto. Andrej sembrava preoccupato.
– Potrebbero essere nei dintorni. Evitiamo di far rumore e di parlare – mi disse.
– Non credi che se ne siano andati?
– Può darsi, ma non ne siamo sicuri, quindi, prudenza.
La prudenza ci salvò dalle sentinelle che erano state lasciate sul luogo dell'accampamento.
La squadra era piccola, sei uomini appena, però eravamo certi che in qualche modo comunicassero con il mondo GUM. Se ci avessero visti, avrebbero potuto dare l'allarme. Non sapevamo che cosa fare. Se li avessimo fatti scomparire, qualcun'altro sarebbe arrivato a cercare di scoprirne i motivi. Bisognava tornare indietro e avvertire del pericolo.
Quanto ci avrebbero messo a stancarsi? E si sarebbero davvero mai stancati?
Tornammo indietro senza che si accorgessero di noi. Ci domandammo però perché nessuno di loro si trovava vicino alla grotta dove il Centro aveva avuto la sua posizione. Sarebbe stato più logico. Se volevano sorprenderci, avrebbero dovuto essere là. Solo un attimo prima del trasferimento ci accorgemmo che infatti c'erano. Non in carne e ossa, ma con un drone telecomandato che riprese tranquillamente tutti i nostri movimenti.
Nell'hangar, la prima reazione di Andrej fu:
– L'hai visto anche tu?
– Certo che l'ho visto.
– Che cosa diavolo era?
– Un drone – risposi.
– Che cos'è un drone? – domandò il Colonnello, materializzatosi accanto a noi.
– Una specie di piccolo elicottero telecomandato, munito di telecamera. Non mi dite che su Terra-1 non ne avete sperimentati.
– Non mi risulta – ammise il Colonnello.
Poi si voltò verso Andrej.
– Allora, sono ancora là. Li avete visti?
– Sì, Colonnello. Il grosso dell'accampamento è stato smantellato, ma hanno lasciato sei uomini di guardia.
– Allora è deciso. Per il momento si resta qui. Fino a esaurimento delle scorte.
– Potremmo spostarci sulle precedenti coordinate, dove abbiamo trasferito per sbaglio Andrej e Joaquin, solo il tempo per rifornirci – propose Robert.
– Non prenda iniziative assurde, dottore. Lei deve eseguire i miei ordini, e solo questi. Si astenga dal pensare, soprattutto. Si dedichi alle sue formule, che al resto ci penso io.
Robert gli fece il saluto militare. Più che altro mi sembrò una parodia sarcastica, ma il Colonnello non se ne risentì, non rilevandolo come un'offesa.
Intanto mi tornò in mente il libro che ci aveva dato Amanda sul mondo Darvam. Mentre uscivamo dall'hangar, chiesi ad Andrej se aveva riflettuto su cosa farne.
– Sono indeciso. Forse dovremmo parlarne con Robert.
– Possiamo fidarci?
– Non lo so. Aspettiamo di tornare su Terra-1, prima di complicarci la situazione. Intanto credo valga la pena di leggerlo tutto. Anche se non sono un fisico, preferisco avere un'idea generale di quello che stiamo facendo.
– Hai letto dell'arma a plasma dinamico?
– Sì, ma non ho capito che cosa significa quando spiega che può diluire il corpo di un uomo.
– Credo significhi che ne resta molto poco.
– Fa venire i brividi.
– Finiamo di leggerlo, prima di parlarne a Robert. Lo stimo, lo apprezzo, ma non so se gli metterei tra le mani la sopravvivenza o la distruzione del mio pianeta.

8. STESSO SVILUPPO, CONSEGUENZE DIVERSE

 

Il mattino seguente decidemmo di fare un giro all'aria aperta. Per questo fummo i primi a incontrare i nuovi ospiti. Davanti alla sala d'accoglienza erano riuniti Amanda, Robert e il Colonnello. Per caso si trovava lì anche Mikhael. Quattro militari circondavano due uomini vestiti di bianco, piuttosto anziani, con barbe e capelli lunghi e canuti. Venivano in pace. O meglio, fummo noi a dover dare assicurazioni che la nostra invasione era pacifica. Quello era il loro mondo, che non era affatto deserto, bensì ridotto piuttosto male dall'ultima guerra mondiale che aveva lasciato in piedi solo qualche sparuta città e pochissimi abitanti, dispersi per il pianeta. Il più alto dei due affermò che vivevano lontani da qualunque città, perché non si fidavano più di nessuno. Volevano vivere in pace gli ultimi decenni della loro vita. Evidentemente erano ottimisti.
Amanda li fece accomodare nella sala di prima accoglienza e Robert spiegò loro perché ci trovavamo lì, con diplomazia e grande cautela, benché non fossero armati. Ma chi ci poteva assicurare che oltre la radura non ci fosse un intero esercito che aspettava solo un segnale per attaccarci in forze?
Ormai non potevamo più fidarci del teorema dei livelli tutti simili, con piccole variabili senza importanza.
Una volta finito di descrivere la nostra situazione, Robert pose ai due anziani qualche domanda.
– Non sappiamo nulla di quello che accade nel resto del mondo. Non cerchiamo contatti. Vogliamo solo essere lasciati in pace.
– Ma come fate per i viveri e i medicinali, come vi procurate quello che vi serve?
– Non ci serve nulla. Siamo riusciti a salvare il nostro veivolo e ci viviamo in pace. Se qualcuno si avvicina, ci trasferiamo altrove. C'è molto spazio deserto da occupare.
– Ma i vostri governi, che cosa stanno facendo? – domandò il Colonnello.
– Non ci sono governi. Solo sopravvissuti. Uomini liberi, piccoli gruppi familiari, sparsi in giro per il mondo.
– Siete tornati alla preistoria – commentò Robert.
– Niente affatto. Ci siamo riappropriati della pace. Non ci serve altro, soprattutto non ci servono governi. Ciascuno sa governarsi da sé.
– Ma se vi ammalate?
– Il nostro veivolo è perfettamente funzionante.
– Non capisco. Cosa c'entra?
– Le apparecchiature ci curano e ci nutrono.
Robert lo osservò con imbarazzo. Continuava a non capire.
Era la seconda volta che ci parlavano del loro veivolo come se fosse la lampada di Aladino, fonte di ogni miracolo, capace di esaudire ogni possibile desiderio.
– Mi perdoni se insisto, ma come vi può curare il vostro veivolo? Come vi può nutrire o vestire?
– È il buono del Darvam.
Andrej e io trasalimmo all'unisono.
– E che ne avete fatto delle vostre armi al plasma? – chiesi, preoccupato.
– Le abbiamo distrutte o seppellite.
– Aspettate un attimo, cos'è questo Darvam? – domandò Robert guardando prima me e poi il vecchio.
– La nostra tecnologia.
– E tu come fai a conoscerla? – mi chiese Robert.
– Me ne ha accennato uno degli androidi, una volta – mentii prontamente.
– Bene. Si tratta di qualcosa che conosciamo?
– Non credo. Ha a che fare con gli elettroni e con il plasma. Non so bene, non sono uno scienziato.
– Me lo può spiegare lei? – disse Robert rivolgendosi al più anziano.
– Mi dispiace. Non so come funziona. Io ero un semplice ragioniere e lui un giardiniere. Ci limitiamo a usare gli strumenti. Niente di più.
– Si può vedere questo veivolo?
I due anziani si alzarono allarmati, con un unico movimento improvviso.
– Certo che no! Ha quasi distrutto il nostro mondo. Volete fare la stessa fine?
– Un attimo, calma! Sedetevi tutti – disse il Colonnello.

Robert finì di leggere il libro che ci aveva regalato Amanda. Gli avevamo fatto giurare che non avrebbe mai informato il Colonnello di esserne entrato in possesso. Ci guardò, con espressione scettica, poi sbottò:
– Non è possibile che la fisica di questi due livelli sia diversa da quella del nostro. Si sbagliano.
– Ma ti rendi conto che in base a questa fisica hanno costruito un sistema tecnologico completo? Non possono sbagliarsi. È più probabile che ci sbagliamo noi.
– Ma non è possibile. Loro sostengono che il neutrone è composto di materia, antimateria e materia oscura; che in realtà la materia oscura è tempo e spazio; che il neutrone decade in protone ed elettrone creando piccoli frammenti di campi magnetici di luce e energia; sostengono che l'elettrone è un plasma; che questa è la legge universale!
– Infatti sfruttano questa energia. Oppure la luce, che è il risultato dell'attrito. Il movimento scaturisce dal riposizionamento tra le cariche negative o positive. Per ottenere il movimento occorre tempo e spazio e quella è la materia oscura. Io lo trovo semplice e logico.
– Ma qui dice che il pianeta non ha un solo nucleo.
– Esatto, oltre a quello ammesso dalla nostra scienza ce n'é un altro. Così ci sono due distinti campi magnetici, grazie ai quali nasce la gravità. Insisto, a me sembra molto logico.
– Non avevi detto che non ne capisci niente di fisica?
– Infatti. Sarà per questo che a me sembra tanto plausibile. E poi, scusa, Robert, non stiamo parlando di formule su cui ragionare fantasiosamente. Abbiamo le prove. Ci sono due livelli che usano la stessa tecnologia, basata su questa teoria.
– Uno l'ha usata meglio dell'altro, però.
– Ecco, noi preferiremmo non fare la stessa fine di questo. Perciò ti abbiamo pregato di non condividere con il Colonnello.
– Usando queste armi, però, potremmo sconfiggere il mondo GUM.
– E far conoscere la tecnologia Darvam anche a loro?
– Non gliela daremo.
– Se la prenderanno.
– Distruggeremo tutti quelli che si avvicineranno, finché non si decideranno a desistere.
– Non ci sono armi qui. Dovrai costruirtele tu.
– Non è difficile. Qui è tutto spiegato benissimo.
– Ma non avevi detto che non è possibile? Che è tutto sbagliato?
– Abbi pazienza, ho bisogno di tempo per resettare.
– Ti spiacerebbe far conoscere ai medici questo sistema, in modo che i tuoi assistenti costruiscano un irradiatore al plasma? Potrebbe tornarci utile.
– Certo. E potremmo installare un sistema per la creazione dell'acqua. Ci farebbe comodo. Potremmo anche creare un sistema per l'energia, così non dovremmo più farci portare il carburante.
– Vedo che hai fatto presto a resettare.
– Andrej, questo è troppo bello per essere vero.
– Eppure è vero. Bisogna solo accettarlo.
– Ci vorrà del tempo. Dovremo costruire dei prototipi, e poi gestire le applicazioni. E intanto il Colonnello vi chiederà di tornare a spiare i GUM su Terra-1. Vorrà che ritorniamo a casa.
– Ci inventeremo qualcosa.
– I due vegliardi si sono trasferiti?
– Sì, a quest'ora dovrebbero essere lontani.
– Bene. Almeno questa è fatta.
– Non è stato difficile convincerli. Non avevano alcuna intenzione di mostrare a un militare il loro velivolo magico.
– Non fatemi perdere altro tempo, adesso. Devo mettere tutti al lavoro.
– Buona fortuna, Robert.
– La fortuna non c'entra. Ci vuole tempo, accidenti.

Così iniziò un tira e molla vergognoso e sfacciato, fatto di contrattempi, rinvii, risparmio energetico, razionamento dei viveri, in un gioco atto a ritardare il trasferimento per lasciare il tempo a Robert di costruire le armi adatte ad affrontare il GUM, lasciando all'oscuro il Colonnello. Ci muovevamo sul filo del rasoio. Se i militari ci avessero scoperto, ce la saremmo vista brutta.
Intanto, Andrej cominciò a essere insofferente. Ormai lo conoscevo abbastanza bene da intuire che aveva bisogno di uscire all'aperto, di farsi una bella camminata nel bosco, di respirare aria non filtrata e di guardare il cielo. Così lo invitai a fare una gita. Lui aderì immediatamente.
Durante la nostra passeggiata, Andrej decise di cambiare direzione.
– Da questa parte, su Terra-1, c'è un laghetto. L'ho visto dall'elicottero, ma non ci sono mai andato. Vediamo se c'è anche qui.
– Geograficamente tutti i livelli mantengono lo stesso aspetto, vero? – gli domandai.
– Pensavo di sì, ma ormai non ne sono più troppo certo. La variabile politica e quella umana potrebbero aver modificato anche l'assetto geografico.
Il suo dubbio si sciolse poco dopo, davanti al luccichio del sole sulla superficie pacifica dell'acqua. All'estremo opposto vedemmo grossi trampolieri che sostavano a pochi passi dalla riva.
– È bellissimo.
Andrej sospirò.
Sotto alcuni rami che toccavano l'acqua, intravidi una macchia rossa.
– C'è qualcosa laggiù.
Mi incamminai per vedere di che cosa si trattasse e Andrej mi seguì.
– Una barca!
Era una squallida barchetta, giusta per due, di quelle che dalle mie parti usavano i ragazzini per andare a pescare. Era tutta scrostata e sembrava abbandonata da tempo. Nonostante la sua misera apparenza, ero entusiasta. Andrej un po' meno. Lo compresi dalla sua espressione.
– Dai, facciamoci un giro.
– Meglio di no – rispose.
– Dai, ci facciamo il giro del lago e poi la rimettiamo a posto. Di chiunque sia, non se ne accorgerà nemmeno.
– Lo sai che razza di armi hanno su questo pianeta.
– Non c'è nessuno, da queste parti. E poi, chi vuoi che ci spari per una barchetta che non può andare da nessuna parte? Mica gliela rubiamo.
Andrej mi costrinse a sfoderare tutte le mie doti diplomatiche, prima di convincersi. Ma era un gioco. Compresi che provava un piacere perverso nel farsi pregare da me. Rideva e rilanciava. Ma alla fine vinsi io. Mettemmo l'imbarcazione a mollo e ci saltammo sopra.
– Naturalmente i remi sono di tua competenza – disse.
– Naturalmente. Tu goditi la gita.
Dopo due minuti dovetti fermarmi e togliermi la camicia, legandola in vita. Il sole era caldo e l'attività fisica mi faceva sudare. Andrej smise di guardarsi intorno per puntare la sua attenzione su di me. Sentivo il calore del suo sguardo, oltre quello del sole. Mi sentivo vivo. Mi sentivo bene.
Mi tenni sempre a poca distanza dalla riva, perché non mi fidavo troppo della tenuta di quella bagnarola. Aveva già iniziato a imbarcare acqua.
– Non vuoi remare un po' anche tu? – gli chiesi, quando eravamo a tre quarti del giro.
Andrej sorrise.
– Ammetti che non ce la fai più. Sei giù di forma, amico mio.
Con gesti lenti e controllati si sbottonò la camicia e infine se la sfilò, legandola in vita. Non l'avevo mai visto a torso nudo. Era uno spettacolo. Smisi di remare. Un fenicottero passò sulle nostre teste, sfiorandoci quasi. Andrej si spostò per prendere il mio posto ai remi, mentre io scivolavo al suo posto. Un altro fenicottero volò a pochi centimetri dalla testa di Andrej. Un suo movimento brusco fece ondeggiare la barchetta. Accadde tutto in pochissimi secondi. Caddi in acqua senza quasi accorgermene. Non ero stato in grado di impedire che l'imbarcazione si ribaltasse. Una volta riconquistata la superficie, respirai rumorosamente e cominciai a nuotare cercando Andrej. Dov'era finito?
Solo in quel momento mi ricordai che una volta mi aveva detto che non sapeva nuotare. Con un tuffo al cuore, cominciai a cercarlo sott'acqua finché non lo vidi. Presi un respiro profondo e m'immersi. Lo afferrai per le braccia, cercando di riportarlo in superficie. Era un peso morto. Lottammo. Rischiammo di annegare entrambi, ma la mia disperazione mi regalò una forza che non sapevo di possedere. Riuscii a trascinarlo in superficie, ma poco dopo mi spinse di nuovo sotto. Saremmo morti entrambi se non mi fossi deciso a un'azione drastica. Lo tramortii con un pugno. Solo allora fui in grado di riportarlo a riva. Ero sfinito. Andrej, steso su di me, respirava a fatica, tossiva e sputava. Ero esausto, ma sapevo che dovevo riprendermi in fretta. Mi girai e lo stesi a faccia in giù, massaggiandogli forte la schiena, finché non vomitò l'acqua del lago che aveva bevuto in abbondanza.
Quando cominciò a respirare meglio, lo voltai.
– Perché cazzo non mi hai ricordato che non sai nuotare?
Andrej non rispose. Tossì di nuovo e poi chiuse gli occhi. Il sole luccicava sulla sua pelle. Ogni goccia era una lucciola che brillava incastrata in mezzo alla foresta scura del suo vello.
– Scusami per quel pugno. Non potevo farne a meno.
– Lo capisco, – mi disse, riaprendo gli occhi – ti devo la vita.
– Figurati, è stato un piacere – risposi, con un sorrisetto ironico.
Andrej sollevò la testa e mi baciò.
Sentii nella mia mente la voce di Joaquin-1 che diceva ridacchiando – Era ora!
E va bene, era ora. Il muro era caduto. Eravamo Andrej e io, un laghetto, un gruppetto di fenicotteri, una barchetta capovolta che galleggiava a dieci metri dalla riva e un sole generoso che avrebbe asciugato presto le nostre divise. Cominciai a spogliarmi, sotto lo sguardo curioso di Andrej.
– Facciamole asciugare – dissi, stendendo la mia sull'erba.
Andrej m’imitò.
Non che fossi carente di fantasia, ma vederlo nudo superò ogni mia aspettativa. Rimasi senza parole, mentre l'emozione mi chiudeva la gola. Il nostro desiderio ben evidente e la lunga astinenza fecero il resto. Il tempo sparì dalla mia consapevolezza. Su quel letto d'erba spessa e morbida, come un buon materasso, ci rotolammo come due bestie in calore.
Quando tornai in me, fui sopraffatto da mille domande. Tutto quello che mi ero tenuto dentro fino a quel momento, inevitabilmente, tracimò. Perché mi ero represso? Perché ero rimasto freddo e indifferente a tutte le sensazioni, le paure, le angosce, le speranze? Gli androidi che avevamo distrutto si erano rivelati più umani di me. Andrej mi aveva capito e più di una volta aveva cercato di scalfire il muro delle mie difese corazzate.
– All'inizio mi sono stupito che tu la prendessi tanto bene. Non era normale. Lo dicevo alla dottoressa Frank. Lo psicologo mi disse che probabilmente ti eri creato un rifugio, un bozzolo in cui te ne stavi rinchiuso in attesa di digerire la situazione. Avresti dovuto essere imbestialito con noi, che senza chiederti il permesso ti avevamo strappato al tuo mondo e alla tua vita, per darti in cambio una prigionia di cui avresti dovuto incolparci giorno e notte. Invece te ne stavi lì, tranquillo, ti rendevi utile, non ti lamentavi mai, non esprimevi mai i tuoi desideri. Lo psicologo era sicuro che da un momento all'altro sarebbe accaduto qualcosa che ti avrebbe strappato alla tua apatia e ti avrebbe riportato a vivere.
– E infatti è accaduto. Andrej, quando mi sono ricordato che non sapevi nuotare, quando ti ho visto affondare come un relitto, mi è venuto un colpo.
– C'è mancato un soffio.
– Non me lo sarei mai perdonato.
– Però sono contento che sia successo. Questo ti ha costretto a fare i conti con te stesso.
– I conti comincio a farli ora. Ma avrò tempo. Sei proprio deciso a lasciare il Centro?
– Ci puoi giurare.
– Allora fuggiremo. Alla prima occasione, ovunque sia.
– Ci sto.

 

Riuscimmo a ritardare il trasferimento per un mese, poi il Colonnello cominciò a sbraitare di boicottaggi, di deferimento alla corte marziale, d’incompetenza e licenziamento dell'intero team e solo a quel punto fummo costretti a eseguire gli ordini. Tornammo su Terra-1 pur sapendo che probabilmente il campo era pieno di droni e che i militari del GUM ci avrebbero avvistato subito. Avevamo stabilito un primo sondaggio della situazione di appena due minuti. Se non avessimo visto droni in volo, saremmo tornati in un secondo momento. Non potevamo rischiare di essere presi prigionieri. Stupidamente, al nostro primo viaggio, nessuno ci aveva pensato.
Ne vedemmo uno soltanto, che probabilmente era lo stesso della nostra visita precedente.
– E va bene, – tuonò il Colonnello – ci andremo a rifornire sul livello dove avete spedito questi due per errore la prima volta.
Andrej e io ci guardammo, ma evitammo di voltarci verso Robert.
Il Colonnello si allontanò con espressione inviperita. Certo non era stato addestrato alla fuga. Doveva sentirsi frustrato. Ma l'attacco, in quel contesto, non era davvero consigliabile. Il GUM aveva carte migliori delle nostre, o così almeno pensava. E noi lo aiutavamo a pensarlo.
Robert si avvicinò a noi.
– E adesso come facciamo?
– Non lo so. Per i viveri non è un problema, ma reperire il carburante su un mondo Darvam temo che sarà difficile.
– Non disperiamo. Sarà rimasto qualche deposito ancora pieno. In fondo hanno la tecnologia soltanto da dieci anni. Lo chiederemo ad Amanda. Dobbiamo riuscire a evitare che il Colonnello o i suoi uomini vedano la tecnologia di quel livello e possano andare alla ricerca delle armi adatte a contrastare il GUM.
– Invece noi le cercheremo e le useremo proprio contro di loro.
– Le userete e le distruggerete. Nessun altro dovrà nemmeno immaginare che esistano.
– Robert, quando diffonderai la tecnologia su Terra-1, la prima applicazione a cui penseranno sarà quella degli armamenti. Lo sai anche tu.
– Seguirò il consiglio che vi ha dato Amanda. Farò come Darvam. La metterò in rete, la invierò a tutti i governi, a tutte le università, farò in modo che nessun paese sia avvantaggiato rispetto agli altri.
– Speriamo bene – sospirò Andrej.

9. APPROVVIGIONAMENTI CON SORPRESE

 

Per fortuna era sempre stato Andrej a procacciarsi le scorte alimentari e a reperire ogni articolo necessario alla sopravvivenza del Centro. Per questo a nessuno parve particolarmente strano che fosse lui a gestire gli approvvigionamenti, anche se lo avrebbe fatto in un mondo diverso dal suo. Naturalmente, come suo collaboratore, chiese che lo accompagnassi. Il Colonnello non fece una piega. Ormai mi avevano accettato anche i militari. Mi sorse il dubbio che nessuno si ricordasse più come fossi finito in mezzo a loro, ma ormai era un dettaglio irrilevante. Allo stesso Mikhael fu permesso di unirsi a noi, poiché non c'era il pericolo che andasse a pubblicizzare l'esistenza del Centro.
Appena trasferiti su Terra-Darvam, ci preoccupammo di andare ad avvertire Amanda, recandoci nella sua casa, costruita a poca distanza dalla grotta. Lei ci accolse con la consueta cortesia, senza tuttavia nascondere la sua sorpresa.
– Siete riusciti a perdervi un'altra volta?
– No, siamo qui di proposito.
Andrej le raccontò in fretta quello che era accaduto.
– I nostri mezzi commerciali a levitazione Darvam stupiranno il vostro Colonnello. Sarà difficile nascondergli la verità.
– Non avete qualche vecchio mezzo tradizionale a ruote ancora funzionante?
– Certamente, ce ne saranno molti, ma per farli arrivare qui con i rifornimenti ci vorrà un po' di tempo, suppongo.
– Non lo troveranno affatto strano. Il Centro di Addestramento su Terra-1 è lontano da tutte le zone abitate. Per ora si sono preoccupati soltanto dei risvolti economici dell'impresa. Si domandano che cosa potranno barattare in cambio dei viveri e del carburante.
– Ho un amico nell'esercito. Lo informerò della situazione e gli chiederò cosa possiamo fare. Lasciatemi la vostra lista e tornate domani.
La giornata era incredibilmente limpida. Il cielo era di un azzurro vibrante. Mikhael sembrava in estasi. Era la prima volta che gli permettevano di uscire all'aperto.
– Non ho mai visto un cielo così, nemmeno quando ero ragazzino.
– È che non lo vedi da molto tempo – commentai.
– Ti ho sentito dire che è stato uno dei miei ragazzi a parlarti di questa tecnologia Darvam.
Mikhael ael si ostinava ancora a chiamare gli androidi "i miei ragazzi".
– Naturalmente ho mentito. Questo è un pianeta Darvam e non volevo che il Colonnello lo sapesse.
– Ma adesso lo scoprirà ugualmente.
– No, se riusciremo a far arrivare i rifornimenti su mezzi tradizionali per Terra-1 – obiettò Andrej.
– Mi piacerebbe leggere quel libro di cui parlavate.
– Adesso ce l'ha Robert. Devi chiedere a lui. Non c'è bisogno che ti raccomandi il più assoluto silenzio su tutta questa storia.
– Vorrei poter fare qualcosa per il mio mondo.
– Temo che ci vorrebbe un miracolo – commentai.
In quel momento arrivammo a ridosso degli ultimi alberi da cui si sbucava nella radura che fronteggiava la grotta. Ci bloccammo stupiti, nascondendoci immediatamente dietro i tronchi. Un piccolo esercito in mimetica fronteggiava l'ingresso del Centro di Addestramento. Erano i GUM.
– Torniamo indietro – sussurrò Andrej.
Ci fermammo solo quando fummo sicuri di non essere uditi.
– Come diavolo hanno fatto a trovarci? – disse Andrej.
– Siamo fottuti – commentò Mikhael.
Io lo guardai.
– Come hai detto che hanno fatto a seguire gli androidi?
Mikhael incrociò il mio sguardo. Vidi le sue pupille dilatarsi.
– Cazzo! Anch'io ho un nanochip!
– Non appena hai messo il naso fuori dalla Base, ti hanno intercettato.
– Torniamo da Amanda. Deve sapere.
Non si trattava più di nascondere qualcosa al Colonnello, bensì di mostrare un pericolo al mondo Darvam. Il GUM ce l'aveva con Terra-1, ma anche con ogni altro pianeta che aveva scoperto i tunnel o i cunicoli di iperspazio. Li aveva chiusi tutti, uno alla volta, impunemente, sfruttando a proprio vantaggio il segreto di cui ciascuno si era circondato.
Nel giro di pochi minuti una serie di velivoli planò silenziosamente davanti alla piccola casa di Amanda.
Il più alto in grado, Gerard Du Pond, che Amanda chiamava semplicemente Decano, dopo aver ascoltato con la massima attenzione il nostro resoconto, si alzò dalla poltrona dov'era sprofondato e iniziò a passeggiare per il soggiorno, con le mani incrociate dietro alla schiena.
– Dunque, ognuno di lor signori giunge da un pianeta diverso. Ma quello che mi interessa di più sei tu, Mikhael. Questo impianto di cui ti hanno dotato è visibile?
– No, purtroppo. Però so che è all'altezza del polso.
– Amanda...
Amanda si alzò e si diresse fuori dalla stanza, per tornare subito dopo, armata di una sorta di torcia. Con quella iniziò a illuminare da vicino il corpo di Mikhael, passando dalla testa alle spalle, poi lungo le braccia, finché, puntata sul polso destro, non vi fu una trasformazione della luce, dall'azzurro al rosso.
– È qui.
– Puoi estrarlo senza pericolo? – domandò il Decano.
– Sì, certo – assicurò Amanda.
L'operazione durò talmente poco che neppure ce ne accorgemmo. Sul polso di Mikhael rimase una piccola punta di rosso, che sparì poco dopo, alla luce di quella sorta di torcia diagnostica e terapeutica.
Tutti i presenti si avvicinarono per studiare, attraverso una lente, il minuscolo chip, deposto su un foglio di carta.
– Distruggilo – ordinò il Decano a uno di loro.
L'uomo uscì dalla casa, posò il foglio sull'erba ed estrasse una piccola arma dalla tasca. Con essa fece sparire il foglio, senza nemmeno un sibilo.
– Adesso non ti potranno più seguire.
– Grazie – disse Mikhael.
– E ora dobbiamo convincere questo esercito GUM a lasciare subito il nostro mondo. Per quanto mi risulta, non sono stati invitati.
Nel giro di pochi minuti, il cielo si riempì di velivoli Darvam.
La battaglia che seguì, di fronte all'ingresso della grotta, fu un'iniziativa tutta GUM. Ogni colpo delle loro armi fu respinto da un muro invisibile, contro cui esplodeva in una sorta di fuoco d'artificio. I colpi Darvam, al contrario, non producevano rumore, solo un orribile fruscio che mi ricordò lo sciogliersi degli androidi nell'acido. Dei soldati GUM, ben presto, non rimasero che piccole pozzanghere assorbite dal terreno. Alla rapida battaglia assistettero il Colonnello e i militari, allertati dall'arrivo dei GUM. Stavano trattando la resa, quando eravamo arrivati in forze. Vedendosi circondati, i GUM si erano immediatamente decisi ad aprire il fuoco.
Il Colonnello fece alcuni passi verso di noi, guardandosi intorno. Era pallido. Per quanto poco lo conoscessi, ebbi l'impressione che fosse molto colpito, anzi, scioccato, da quanto era accaduto sotto i suoi occhi.
– Vi ringrazio, signori, a nome di tutta la Base. Mi scuso per la nostra presenza sul vostro territorio. Non è nostra intenzione trattenerci. Siamo stati costretti a...
– So tutto – lo interruppe il Decano – e so che adesso potete tornare al vostro livello senza altri problemi.
– Me lo auguro – disse il Colonnello.
Improvvisamente Mikhael si avvicinò al Decano.
– Chiedo asilo politico – annunciò.
Il Decano lo osservò, nemmeno troppo sorpreso. Si concesse il tempo di una lunga riflessione, tanto lunga che per un momento temetti che la sua richiesta fosse considerata un'offesa e che il Decano stesse decidendo se sterminarci tutti. Poi annuì, con convinzione.
– Richiesta accolta.
Andrej e io ci guardammo. In fondo ce l'avevamo sotto i piedi un mondo in cui vivere in pace, liberi, per quanto fosse possibile. Compresi che la sua mente era stata attraversata dal medesimo pensiero. Mi sorrise.
– Chiediamo asilo politico – disse Andrej.
Il Decano sollevò gli occhi al cielo.
– Anche voi?
Ci osservò con un duro cipiglio. Poi il suo sguardo si ammorbidì.
– E sia! Accolto. Ma adesso basta. Tutti gli altri devono lasciare questo mondo, subito. Sono stato chiaro, Colonnello?
– Togliamo immediatamente il disturbo - rispose lui, facendo il saluto militare, subito imitato dai suoi uomini.
Dal gruppo che sostava davanti all'ingresso si staccò Robert, che ci raggiunse in fretta.
– Allora, avete deciso di restare qui?
– Sì, amico mio. La rivoluzione Darvam su Terra-1 spetta a te.
– E tu, Joaquin, non pensi al tuo alter-ego? Come faccio a farlo tornare a casa?
– Joaquin-1 è già a casa. Ha trovato un'ottima compagnia e mi ha già detto che sta bene dove sta. Anzi, ti saluta e ti prega di portare quel libro su Terra-49, quando ne avrai il tempo.
– Lo porterò a tutti i livelli che riusciremo a raggiungere, ci puoi contare. E tu Mikhael, goditi la libertà.
– Ma Robert, non sei stato proprio tu a dirmi che la libertà è un'idea astratta?
Robert si mise a ridere.
– Se avrò bisogno di voi, saprò dove trovarvi. Non penserete davvero che faccia tutto il lavoro da solo. Ci sono troppi mondi...