Il dono

   Il mio maestro era intelligente, saggio, illuminato e con una grande barba fluente.
Avevo iniziato quel viaggio con lui, attraverso i boschi, solo per caso.
Mia madre, che lavava i panni alla fonte, l’aveva visto arrancare, affaticato, con un gran sacco caricato sulla schiena, appoggiandosi al bastone nodoso da cui in seguito non l’avevo mai visto separarsi.
– Signore, – aveva osato mia madre – vuole riposarsi un poco e mangiare una scodella di minestra ?
Quell’uomo sembrava davvero sfinito e mia madre si era sentita quasi obbligata a ospitarlo. Quando entrarono nella nostra casetta di legno, io avevo appena finito di pulire il camino. Ero nera di fuliggine, dalla testa ai piedi, e mi sentivo stanca e puzzolente nei vecchi calzoni di mio fratello. Per fortuna avevo avvolto i capelli dentro un vecchissimo cappuccio di mio padre.
Sorpresa da quell’ingresso inaspettato, non l'avevo neppure salutato con l’inchino che mia madre mi aveva insegnato a fare davanti agli sconosciuti in segno di rispetto.
Ma lui non se ne accorse. Si guardò intorno e si andò a sedere sullo sgabello vicino al camino.
Accettò la scodella di minestra dalle mani di mia madre e mangiò in silenzio.
Intanto si guardava intorno e quando ebbe finito si rivolse a mia madre.
– Donna, quale sarà il futuro di questo giovane? Farà il taglialegna come presumo faccia suo padre? O il cacciatore?
Mia madre mi guardò un attimo di sbieco, con quello sguardo che voleva dire “lascia fare a me!”, si schiarì la voce e rispose: – Mio figlio non sarà mai come suo padre o suo fratello. Lui è speciale. È nato nella Notte dei Sussurri, quando la luna compariva in cielo, dietro il Monte Tablish. Le indovine hanno cantato per lui e dichiarato che il suo fato è diverso da quello che avremmo immaginato.
L’uomo si grattò la barba, mi guardò ancora e poi disse a mia madre: – Forse avevano ragione. Io non sono più così giovane come mi piace credere, e ho bisogno di un discepolo. Lui mi pare adatto. Sa cuocere il cibo? Lavare le vesti?
– Ma certo! – rispose speranzosa mia madre.

Non capivo cose le passasse per la testa. Era impazzita? Voleva disfarsi di me? Affidarmi a quello sconosciuto, che poteva essere qualunque cosa, un pazzo, un assassino, un ladro o chissà cos’altro!?
Ma intanto l’uomo si rivolgeva a me: – Conosci le erbe e i fiori? I funghi? Sai riconoscere una fonte pura da una oscurata?

Oscurata? Che stava dicendo?
– Signore, – risposi timidamente – riconosco le erbe buone e quelle cattive e anche i funghi, ma le fonti oscurate non so cosa siano. Qui tutta l’acqua è buona.
– Ma certo, ma certo, tu non sei mai stato lontano da qui. Non puoi sapere che vi sono luoghi impuri dove l’acqua è contaminata. Io ti insegnerò a riconoscerla e ti insegnerò molte altre cose se tu mi seguirai, col permesso di tua madre e se tu lo vorrai.
Io guardai mia madre, senza alcuna espressione, e annunciai che andavo a lavarmi.
Dopo un po’ mia madre apparve alle mie spalle.

– Sei impazzita? – l’assalii, prima che iniziasse a parlare. – Vuoi davvero che vada con quell’uomo? Chi è? Che fa qui? Lui è convinto che io sia un ragazzo, non l’hai sentito? Perché gliel’hai lasciato credere?
Mia madre si fece più vicina e mi disse piano: – Io non lo so. La dea ha voluto questo. Ha scopi diversi dai nostri e io non la capisco. Come posso spiegare a te qualcosa che io non so spiegare a me stessa?
– Bell’idea ha avuto la dea! – sbuffai esasperata. – E adesso cosa dovrei fare secondo te e secondo la dea?
Mia madre non ebbe neppure un solo attimo di esitazione: – Fingiti un ragazzo e va’ con lui. È la dea che l’ha deciso.
Bella decisione. A mia madre non avevo mai disobbedito. E alla sua dea neanche. Potevo iniziare quel giorno?
Fu così che, con gli abiti di mio fratello e il cappuccio ben calato sulla testa, iniziai il mio viaggio col maestro.
Dopo le prime indecisioni, mi proposi di continuare a fingermi un ragazzo. Attraversammo tutta la regione attraverso la foresta, passando dai rari villaggi sulle colline. Lungo la strada egli mi insegnava a riconoscere erbe che non avevo mai notato e me ne indicava le proprietà. Le raccoglievamo in sacchetti di stoffa e li chiudevamo con piccoli nastri colorati. I nostri sacchi erano sempre più gonfi. Nei villaggi in cui ci fermavamo, il maestro ne cedeva una parte in cambio di cibo e di ospitalità.
Una notte, durante un temporale scoppiato all’improvviso, ci rifugiammo all’interno di una grotta. Mentre dormivo, fui svegliata da una strana luce. Sognavo? No, aprii bene gli occhi e vidi un arcobaleno invadere la grotta. La luce sembrava scomposta in mille colori, girava lentamente tutto intorno sulle pareti e si rifletteva sulla volta allargandosi in mille stelle misteriose. Poi vidi il maestro in piedi al centro dell'antro, nella sua tunica bianca, le braccia levate in alto e il bastone illuminato sulla cima da cui partivano sottili raggi di luce.
Dove io mi trovavo, una sporgenza della roccia mi teneva in ombra. Ma all’improvviso un serpente di luce strisciò verso di me, si avvicinò, indietreggiò, si avvicinò di nuovo, per poi scomparire del tutto.
Il maestro si approssimò a me, mentre i bagliori del suo bastone nodoso mi avvolgevano, e mi disse dolcemente: – Figlia, perché non me l’hai detto?
Il mio segreto era durato poco. Se avessi saputo di avere a che fare con un mago non ci avrei neanche provato.
– È stata la dea – dissi. Ma era una giustificazione per discolparmi? – Aveva deciso che dovevo venire con te, uomo o donna che fossi. Neanche mia madre si sapeva spiegare il motivo.
– Forse io lo so. – rispose il maestro, enigmaticamente.
Dopo lunghi anni di viaggio, di insegnamenti e osservazioni, un giorno avvistai da lontano il mare. – No, mia cara, è un grandissimo lago. E proprio nel mezzo sorge un’isola perennemente avvolta dalla nebbia.
Avevo imparato tanto da lui, ma di quel lago non mi aveva mai parlato.
Giungemmo alla riva e di lì a poco, come evocata da misteriosi richiami, giunse una barca condotta da una giovane donna. Ci salutò con il capo e silenziosamente mi fece segno di salire a bordo.
– Andiamo sull’isola? – chiesi al maestro.
– Tu ci andrai, figlia mia, perché le sacerdotesse ti stanno aspettando da molto, molto tempo. Io non posso venire. Nessun altro può. Così ha stabilito la dea. Ma prima di andare, donami qualcosa che mi ricordi di te.

Per un attimo non fui più io, mi sentii come invasa da una forza superiore che mi rendeva più lucida nel pensiero e più amorevole nel cuore. Dopo un commosso abbraccio di commiato gli dissi, con una voce che non era la mia:

– Maestro, il mondo non è una sfera come tu credi. Il mondo è piatto.