Il Cronovisore

 

            "Il «Progresso» è un nome che definisce la qualità di un movimento. Esso infatti indica un movimento dotato di una direzione, un movimento orientato. Si dovrà inoltre aggiungere che la direzione si determina a partire da un punto di approdo, che viene giudicato anticipatamente migliore rispetto al punto di partenza".     

 

Prima Parte

 

            L'insegnante osservò i suoi alunni per essere sicura che stessero seguendo la lezione. Il suo sguardo perlustrò l'aula con un ampio movimento, superò le prime due file di banchi, si spinse alla terza, ma subito ritornò indietro, a Nika Zakharova, e lì si fermò.

– Zakharova, c'è qualcosa che non va?

La bambina le restituì uno sguardo vitreo, quasi sofferente.

– Maestra, quello che non va è questa divisione del tempo storico in avanti Era Volgare e dopo Era Volgare. Perché durante i secoli avanti Era Volgare il tempo va a ritroso? Quest'idea mi fa venire la nausea. Il tempo è un vettore e quindi non può scorrere in due direzioni opposte e contrarie, a meno che non si tratti di due vettori.

Dasha Titova non si stupì. Aveva spesso a che fare con le sue obiezioni.

– Si tratta solo di una convenzione. Sai cosa voglio dire? Visto che sai cos'è un vettore, forse sai anche cosa s'intende per convenzione.

– Quello che so è che il tempo è un vettore, come una freccia che va in una sola direzione, dal passato al futuro. Invece una convenzione è quando tutti si mettono d'accordo su qualcosa – e dopo un attimo aggiunse – anche se è sbagliata.

L'insegnante guardò Nika, sei anni, trecce bionde e occhi limpidi come due laghetti e pensò per l'ennesima volta che quella scuola non era adatta a lei. Benché si trovasse in una classe sperimentale per bambini dotati, Nika Zakharova era ancor più dotata di tutti gli altri. Ne avrebbe parlato di nuovo con suo padre.

            Nonostante il freddo intenso, Dasha Titova aspettò vicino ai cancelli della scuola che arrivasse l'auto con cui il compagno Zakharov veniva a prendere la figlia ogni giorno. Aveva le mani gelate dentro i guanti e i piedi le sembravano due blocchi di marmo, ma era decisa a chiarire quella storia una volta per tutte. Quando finalmente lo vide arrivare, fece quasi fatica a percorrere i pochi passi che la separavano dal finestrino al quale bussò. Il padre della sua alunna girò la manovella per abbassare il cristallo e le domandò allarmato che cosa era successo.

– Nulla, compagno Zakharov, ma devo ribadirti ancora una volta che Nika è una bambina speciale. Ha un'intelligenza superiore, una memoria straordinaria e una curiosità insaziabile. Non può restare con la mia classe, sarebbe come costringere un falò a ridursi in una candelina. Compagno Zakharov, tua figlia deve frequentare una scuola speciale, per giovani molto dotati. Quando presenterai la domanda a quella scuola che ti avevo indicato?

– Non ancora.

– Allora lo farò io. Nika qui è del tutto sprecata. Ha delle potenzialità enormi.

– Hai mai pensato che questo potrebbe influire sulla mia carriera? – obiettò Zakharov.

– Non vedo come. Anche il Partito è felice quando può mettere in risalto le doti particolari di un compagno , perché va a vantaggio di tutta la comunità. E chissà che invece di ostacolarti questo non finisca per avvantaggiarti, un giorno.

– Sei testarda, compagna Titova, ma visto che ci tieni tanto a sbarazzarti di Nika, lo farò io.

– Non ci tengo affatto a sbarazzarmene, io adoro Nika. Fosse mia figlia, ne sarei fiera e orgogliosa, compagno.

– Chi ti dice che io non lo sia? Non sai niente di me. E sai poco anche di Nika. Sono io che la seguo nei suoi studi. A tre anni ha imparato a contare fino a cento e a leggere le lettere dell'alfabeto. A quattro anni leggeva come un bambino di sette. Adesso legge tutto quello che vuole. Le prendo alla biblioteca tutti i libri che le interessano. Non capisco a cosa le serva cambiare scuola, salvo che allontanarla dalla sua famiglia. Io e mia moglie Jana sappiamo bene che non potrò seguirla ancora a lungo, ma avremmo voluto rimandare quel momento. Comunque capisco anche il tuo punto di vista, quindi tenterò di convincere mia moglie e, se lei sarà d'accordo, mi rivolgerò alla scuola di Khimki, come mi hai chiesto. Lo farò io, compagna Titova.

Nell'aria si diffuse il suono della campana che all'interno dell'istituto segnava la fine delle lezioni. Dasha Titova si calmò. In fondo Zakharov non era un padre distratto. Forse aveva sbagliato tutto. Forse aveva ragione lui a tenere la figlia con sé ancora per qualche tempo. Era pur sempre una bimba di soli sei anni.

– Ti chiedo scusa, compagno. Nika in fondo è tua figlia e tu sai certamente cosa è meglio per lei.

– Ma tu ne sei innamorata e capisco che anche tu desideri solo il meglio per lei, perciò seguirò il tuo consiglio.

C'era di nuovo movimento intorno a loro, le voci dei bambini, i richiami delle mamme, il cielo bianco sulle loro teste. Si salutarono con un sorriso complice, mentre Nika arrivava di corsa scivolando per gioco sul ghiaccio, con le guance rosee e l'entusiasmo della riconquistata libertà.

La bambina si accomodò sul sedile e Dasha Titova le chiuse la portiera. Si salutarono con la mano guantata, attraverso il vetro del finestrino, mentre l'auto iniziava già a muoversi lentamente, fendendo la piccola folla che andava diradandosi.

Dasha Titova sospirò. Il giorno in cui Nika fosse sparita dalla sua classe, sarebbe stato un giorno triste per lei, ma quella bambina meritava di meglio.

In auto Nika si rivolse subito al padre.

– Stavate parlando di me?

– Sì, Nika.

– E cosa avete deciso?

– Cosa ti fa pensare che abbiamo deciso qualcosa?

– Ho visto le vostre facce. Che cosa avete deciso?

Nicolaj Zakharov continuò a guardare la strada attraverso il parabrezza.

– La tua insegnante dice che dovresti andare a una scuola migliore di questa. Ma prima di tutto dev'essere d'accordo la mamma.

– E non conta che sia d'accordo io?

– Tu che cosa ne pensi?

– Dov'è questa scuola?

– Lontano.

– E per te non sarebbe un problema accompagnarmi?

– Beh, sì. Dovresti dormire là. Ci vedremmo solo una volta alla settimana.

– Mamma dirà di no.

– Ma tu che ne pensi?

– Che importa? Tanto mamma dirà di no.

Nicolaj Zakharov lasciò cadere l'argomento. Nika non sembrava molto interessata e Jana avrebbe detto di no.

 

            Proprio mentre Dasha Titova e Nicolaj Zakharov discutevano sul futuro di Nika davanti a una scuola di Mosca, a 2100 chilometri di distanza, e più precisamente in quel di Venezia, si consumava un evento fondamentale per un altro bambino suo coetaneo. Ubaldo Ballarin amava due cose, quasi con la medesima intensità: cantare e disegnare. Sua madre invece era molto portata per la mistica e sentiva il bisogno di andare a messa tutte le sere in una chiesa diversa. Non era difficile a Venezia. Purtroppo si trascinava dietro il suo unico figlioletto, che si annoiava molto, soprattutto la domenica, quando c'erano quelle lunghe prediche di cui non capiva nulla. Allora si distraeva facilmente, osservando i quadri antichi appesi alle pareti. Fu così che notò un particolare che sembrava sfuggire a tutti gli altri. Molti di quei ritratti rappresentavano lo stesso uomo che chiamavano Gesù e che dicevano fosse il figlio di Dio. Ubaldo si stupiva che un uomo così importante non avesse trovato ritrattisti più bravi, infatti ogni volta che vedeva un suo ritratto non assomigliava mai al precedente: in uno era biondo, in un altro era bruno, in qualcuno aveva gli occhi scuri, in qualcun altro li aveva azzurri. Non si trattava di un dubbio che gli togliesse il sonno, ma la curiosità lo spinse a chiederne le ragioni a sua madre. Lei, perplessa ma speranzosa per sue oscure ragioni, invece di rispondergli, lo condusse dal parroco. Fu così che in breve tempo e senza che alcuno chiedesse il suo parere, si ritrovò in seminario. In effetti non era stato folgorato da alcuna vocazione, tutto quello che voleva era vedere un vero ritratto di Gesù.

 

 

            La Scuola Statale Residenziale di Livello Superiore Vostok si trovava alla periferia di Khimki, città giovane nata sulle rive del Canale di Mosca, esattamente a nord-ovest della capitale. L'istituto confinava con la foresta di querce che abbracciava per buona parte la città ed era stato costruito a imitazione dei tanti monasteri che costellavano la Grande Madre Russia. Quella verde presenza incombente era l'unica cosa che consolasse Nika dall'essere stata esiliata da casa e confinata in mezzo a estranei che le sembravano ostili e indifferenti. Ma il tempo che passa porta i suoi mutamenti. L'estate arrivò con il suo carico di fango da disgelo e cieli azzurri che si coprivano all'improvviso di nubi imbevute di pioggia. Nello stesso tempo, Nika cominciò a trovare i lati positivi di quella sistemazione. Aveva compagni con cui discutere e giocare, insegnanti che non si stupivano delle sue domande, libri interessanti da studiare e i suoi genitori la venivano a prendere ogni sabato pomeriggio per riportarla a casa. Cominciò a pensare che sarebbe stato tutto più facile se suo padre e sua madre si fossero trasferiti a Khimki. In qualche modo riuscì a insinuare quest'idea nella mente di Nicolaj Zakharov, che l'anno seguente ottenne di farsi trasferire, facendo la sua fortuna, un po' come aveva profetizzato Dasha Titova. Khimki era nata intorno ai Centri di Sviluppo Aerospaziale e tutta la popolazione vi era impiegata, in un modo o nell'altro. Nascevano continuamente importanti industrie dedicate al settore e bastò una piccola intuizione, involontariamente espressa da Nika, per creare l'impresa che nel corso degli anni avrebbe trasformato il compagno Nicolaj Zakharov in uno dei magnati della moderna Federazione Russa.

            Studiando il tempo e la sua sfuggente essenza, Nika s'innamorò della storia del genere umano e di come si era evoluta nel corso degli evi. La sua curiosità insaziabile e la sua incredibile memoria la portarono a espandere i suoi studi in svariate direzioni, l'una intimamente collegata alle altre. Per esempio, scoprì presto che le traduzioni dei testi antichi non erano del tutto aderenti, ma al contrario erano infarcite di errori, forse accidentali, forse voluti. Questo la indusse a studiare anche le lingue antiche, oltre a quelle moderne. A trent'anni Nika era soprattutto un'archeologa e una filologa. Conosceva il greco, il latino, l'ebraico, l'aramaico e altre sette lingue moderne, ma si era laureata anche in fisica e astronomia. Il Tempo era una sua fissazione: anelava comprenderne i meccanismi e studiare le tracce remote che l'umanità vi aveva impresso. Ma era stato per caso che aveva trovato la sua strada. Frugando in un cassetto della scrivania di suo padre alla ricerca di un tagliacarte, aveva trovato dei ritagli di giornale che trattavano di una incredibile invenzione, dovuta a padre Pellegrino Ernetti, che aveva studiato la musica in voga prima dell'anno mille. Padre Pellegrino Ernetti, anch'egli laureato in fisica, era stato docente di prepolifonia al Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia ed era purtroppo scomparso qualche anno prima. Ernetti era consapevole che le onde sonore e visive, una volta emesse, non si distruggono ma si trasformano, restando attive e impresse nell'etere in forma di energia. Partendo da questi presupposti, aveva elaborato un congegno che permetteva di attingere visivamente a quel serbatoio invisibile che era il tempo passato. Con una serie di trasduttori e antenne, composti da metalli non specificati, Ernetti assicurava di poter rilevare tutte le lunghezze d'onda del suono e della radiazione elettromagnetica. Fin lì nulla di straordinario, ma come faceva a vedere il passato? Esattamente su quali lunghezze d'onda? Questo gli articoli non lo dicevano. Inoltre non parlavano della complessa serie di dispositivi atti alla registrazione delle immagini e dei suoni, e del loro filtraggio al fine di selezionare solo quelli voluti. E Nika si era messa in testa di scoprirlo. In fondo era proprio quello che aveva sempre desiderato: possedere un mezzo per scoprire le verità del passato. Se la sua vita aveva uno scopo, era proprio quello. Saputo che l'agognato strumento si trovava negli archivi segreti vaticani, iniziò a muovere le sue pedine.

 

            In seminario Ubaldo non si trovò troppo male, forse anche perché gli permettevano di cantare. E siccome lo faceva piuttosto bene, entrò stabilmente a far parte del coro. Qualche tempo più tardi fu ammesso agli studi di prepolifonia al Conservatorio Benedetto Marcello, il cui direttore era padre Pellegrino Ernetti. Un giorno, per caso, si ritrovarono a conversare, guardando il mare.

– Com'è nata la tua vocazione? – gli chiese padre Pellegrino, che ammirava molto la sua voce.

Quando gli rivolgevano quella domanda, Ubaldo si sentiva sempre in grande imbarazzo, per il semplice motivo che quella vocazione non era ancora nata. Di solito s'inventava qualcosa, anche se la menzogna era un peccato, ma quel giorno si era appena confessato e voleva mantenersi sulla retta via almeno per qualche ora. Quindi gli disse la verità.

– Volevo vedere un vero ritratto di Gesù.

Padre Pellegrino sbarrò leggermente gli occhi.

– Chi te l'ha detto?

– Che cosa?

– Come fai a saperlo?

– Ma in che senso?

– Ma di che cosa stai parlando?

Ubaldo sentì la testa che gli girava.

– Scusi, padre, lei mi ha chiesto come mai sono entrato in seminario e io le ho risposto che volevo vedere il vero volto di Gesù. Possiamo ripartire da qui?

– Quindi è vero. È per questo che sei entrato in seminario?

– Certo, ma lei che cosa aveva capito?

Padre Ernetti gli appoggiò una mano sulla spalla e ridacchiò.

– Ma davvero è solo per questo?

– Sì, anche se oggi ovviamente so che non è possibile.

– Non è detto. Una foto ti andrebbe bene lo stesso?

– Ecco, lo sapevo che mi avrebbe preso in giro. Lo fanno tutti.

– Ma io non sto scherzando, figliolo.

– Avanti, padre, non mi riterrà davvero tanto ingenuo da credere che lei possa avere una foto di Gesù. Non ho più sei anni.

Padre Pellegrino sfoderò un sorriso tra il misterioso e l'ironico, lo prese sotto braccio e se lo trascinò dietro.

Giunti al convento dell'Isola di San Giorgio, dove padre Pellegrino viveva, si diressero subito nella sua stanza. Qui accadde qualcosa che lasciò Ubaldo del tutto frastornato. Padre Pellegrino aprì un armadio, ne sollevò il fondo mobile, ne prelevò una cartella e quando ne sciolse i lacci e l'aprì, apparve una foto, in bianco e nero, leggermente sgranata, ma perfettamente leggibile.

– Ecco – disse padre Pellegrino – questa è la foto di Gesù.

Diviso tra la stima per l'uomo che aveva di fronte e l'incredulità che la foto potesse essere reale, Ubaldo rimase senza parole e con la testa vuota.

– Siediti. Ti racconterò com'è andata, ma devi giurarmi che manterrai il segreto, almeno finché io sarò in vita.

Ubaldo non si lasciò pregare, cadde di peso su una sedia e lo fissò.

– Manterrai il segreto?

– Sì – disse Ubaldo in un soffio.

– Allora partirò dall'inizio. Come puoi immaginare, ho sempre amato la musica e il mio più grande desiderio era di riscoprire quella creata prima della scrittura degli spartiti musicali che conosciamo oggi. Volendo studiare queste musiche dimenticate, ho fatto ricerche per anni. Lo studio della fisica mi ha aiutato in questo. Sapevo che il suono è energia e che l'energia non si consuma, ma si trasforma soltanto. Sapevo che avrei potuto riafferrarla, scoprendo il meccanismo di questa trasformazione. Così mi sono dedicato allo studio di uno strumento che mi permettesse di riportare in vita quelle onde sonore. Naturalmente, non ho fatto tutto da solo. Ho potuto avvalermi della collaborazione di altri fisici, alcuni molto famosi, di cui però non ti farò i nomi. Dopo anni di ricerche e tentativi, arrivai a ottenere quello che desideravo. Fu un momento meraviglioso, te lo assicuro. E con mia grande sorpresa, non ottenni solo di riascoltare quella musica dimenticata, ma mi giunsero anche delle immagini. Insomma, con il mio strumento, che chiamai "Cronovisore", potevo riconvertire le onde sonore e visive del passato per poterle riascoltare e nello stesso tempo vedere di nuovo chi le aveva prodotte. Altri studi mi permisero di elaborare un sistema per scegliere il momento e il luogo su cui sintonizzarmi. Era una scoperta di portata incredibile. Significava poter rivedere gli eventi lontani così come si erano svolti e ascoltare esattamente le parole che erano state pronunciate.

– Vedere il volto di Gesù – disse Ubaldo, posando gli occhi sulla foto che non aveva ancora osato osservare con la dovuta attenzione.

– Esatto. Non è stata la prima cosa che ho fatto, ti confesso, ma è stata una delle prime.

– E come fa a sapere che è vero? Voglio dire, come si può provare che non siano trasmissioni televisive captate per sbaglio?

– Prima di tutto, le immagini erano a colori, mentre la televisione di allora era ancora in bianco e nero...

– Ma la foto è in bianco e nero – l'interruppe Ubaldo.

– Abbiamo scattato la foto delle immagini che apparivano sullo schermo del Cronovisore, ma la pellicola allora in uso era in bianco e nero, purtroppo. E per quanto riguarda la prova che fossero immagini reali, prima di spingermi molto indietro nel tempo, mi sono sintonizzato su eventi di cui ero stato testimone. Ed erano perfettamente aderenti a ciò che ricordavo.

– È una cosa pazzesca.

– Lo so.

– Posso vederlo anch'io?

– Purtroppo l'apparato non è più in mio possesso.

– Che vuol dire?

– Ci arrivo. Grazie al Cronovisore i miei collaboratori ed io abbiamo potuto vedere eventi del passato che ci sono stati tramandati nei secoli, ma ti assicuro che erano quasi irriconoscibili, nel senso che ci sono giunti totalmente distorti, tanto che se fossero resi noti, dovrebbero costringerci a riscrivere i libri di storia. Un altro risvolto, questo abbastanza pericoloso, è che ci è capitato di captare anche i pensieri di coloro che vedevamo. Anche i pensieri sono energia.

– È imbarazzante.

– Lo so. Quando siamo stati sicuri che il Cronovisore fosse uno strumento essenziale per la conoscenza del nostro passato, lo presentammo a Papa Pio XII e al Presidente Segni in una riunione che vollero mantenere privata, ma c'erano altre persone presenti, credo alti dirigenti dello Stato e militari, che io non conoscevo. Per farla breve, dopo aver dato prova del funzionamento del mio apparato e dopo aver risposto a tutte le loro domande, il Papa mi chiese di non divulgarne l'esistenza, in attesa di una sua decisione, che mi giunse dopo qualche mese. Purtroppo, prima di questa richiesta, avevo rilasciato alcune interviste a vari organi di stampa, dunque mi ordinò di smentire se ce ne fosse stato bisogno e in ogni caso di tacere sull'esistenza della mia scoperta e inoltre m'invitò a smontare la macchina e portarla in Vaticano. Adesso è lì, fatta a pezzi e inutilizzabile, nascosta in qualche camera segreta.

– Ma perché?

– Perché è troppo pericolosa. Davvero, terribilmente pericolosa, soprattutto se cadesse nelle mani sbagliate. Ma io, completamente assorbito dal mio entusiasmo scientifico, non ci avevo riflettuto sopra. Il guaio è che noi vediamo sempre il mondo come uno specchio. A me non sarebbe venuta mai in mente l'idea di utilizzarla per danneggiare qualcuno, anzi, ne vedevo solo l'effetto positivo. Ma c'è gente diversa da me nel mondo, gente malvagia, gente che uccide senza problemi, Paesi disposti a qualsiasi cosa pur di sopraffare quelli confinanti per sottrarre le loro risorse. Con il Cronovisore sarebbero stati in possesso di un'arma micidiale. La decisione del Papa è stata saggia.

Ubaldo sospirò.

– Peccato. Mi sarebbe davvero piaciuto vedere il volto di Gesù, ascoltare le sue parole, la sua voce. Com'era?

– La voce?

– Sì, com'era la sua voce?

– Una voce normale, ma sapeva urlare gli ordini per farsi ubbidire. Era la voce di un soldato, anzi, no, di un comandante in capo. Era diverso da come te lo immagini.

– In che senso?

Padre Pellegrino lo fissò per alcuni lunghissimi istanti, come a valutarlo, poi il suo volto si chiuse.

– Basta. Non ti dirò una parola di più.

E nonostante le insistenze di Ubaldo, le confidenze di padre Pellegrino cessarono lì, lasciandolo a macerare nella sua curiosità e nel desiderio inestinguibile che in futuro non avrebbe smesso di perseguitarlo.

Da quel momento la vita di Ubaldo prese un nuovo corso. L'oggetto che desiderava esisteva e sapeva dov'era. Dopo la morte di Ernetti, il suo unico scopo divenne quello di mettere le mani sul Cronovisore.

Per quanto gli fosse noto che la fede smuove le montagne, Ubaldo mise in campo anche una buona dose di volontà, cocciutaggine, determinazione e infinita pazienza, un mix che lo trasportò a Roma, dove ebbe modo di distinguersi fino a ottenere ciò cui aspirava: essere assunto alle dipendenze dello Stato della Città del Vaticano, in qualità di Archivista Capo.

 

            Danil Lukin uscì dal Palazzo Lubjanka e attraversò la grande piazza schivando i pochi passanti. Una donna gli passò accanto. Aveva il capo rasato e una coda di treccioline bionde che partiva dal centro della testa e le ondeggiava sulla schiena. Era ricoperta di tatuaggi. Danil la osservò attentamente. Nonostante il suo incedere risoluto e privo di ancheggiamenti, gli sembrò una donna incredibilmente sensuale.

Il cielo era stranamente terso e di un profondo color azzurro che richiamava alla memoria cieli mediterranei. Danil pensò che gli sarebbe piaciuto andare a vivere sul mare, magari in Francia, in Spagna o in Italia, tutti paesi dov'era stato, impegnato in alcune missioni che purtroppo non gli avevano lasciato modo di godere dei magnifici paesaggi o di apprezzare fino in fondo il buon cibo. Per lui i problemi erano iniziati con un'allergia, che gli provocava attacchi di starnuti impossibili da contenere. Nessuna delle cure tentate gli aveva portato più che sporadici benefici. In quelle condizioni non gli era possibile partecipare attivamente, se non in attività di ascolto o di osservazione da lontano. Infine, aveva dovuto interrompere un'importante missione. Era giunto dunque alla conclusione che non poteva continuare quel lavoro, diventato pericoloso sia per lui che per i colleghi con cui condivideva le missioni. Aveva solo trent'anni, eppure quel giorno Danil aveva consegnato le dimissioni. Ora era un agente non attivo, libero di fare quello che voleva. Si voltò indietro a guardare la Lubjanka, con un po' di malinconia.  L'orologio in cima al palazzo segnava le dodici.

 

            Nika bussò alla porta dello studio. Il professor Igor Borislav Sokolov grugnì un invito a entrare.

– Buongiorno, professore.

La faccia dell'uomo canuto seduto alla sua scrivania, si schiarì, allargandosi in un sorriso luminoso.

– Nika! Mia stella in un firmamento oscuro!

Il professore balzò dalla poltrona con tutta la foga che l'età avanzata gli permetteva, per racchiuderla in un abbraccio affettuoso.

– Mia cara fanciulla, cosa ti porta in questo antro oscuro e polveroso?

Nika si mise a ridere.

– Professore, ho bisogno di te.

– Non è possibile.

– Solo tu puoi compiere il miracolo che mi serve.

Nika gli raccontò della sua scoperta e delle sue intenzioni. Il professore sorrideva. Nika gli mostrò le copie degli articoli che aveva fotocopiato. Dopo averle lette con attenzione, Sokolov la fissò, con un mezzo sorriso.

– Notevole. Ho un aggancio in Vaticano che potrebbe esserti utile. Prova a scrivergli e chissà che lui non possa fornirti qualche informazione valida. Qui ho la sua mail.

Il professor Sokolov digitò qualcosa sulla tastiera e poco dopo la stampante emise un sospiro rassegnato, vomitando un foglio che le pose davanti.

– Ecco qui. È un religioso di larghe vedute, quindi non penso che si stupirà molto delle tue domande. In ogni caso, Nika, cerca di essere diplomatica, sempre che tu sia riuscita a imparare qualcosa dai fatti di Nazaret.

Sokolov le fece l'occhietto, ma Nika comprese che le rimproverava ancora l'irruenza e la testardaggine con cui aveva cercato d'imporre le conseguenze della sua scoperta. In questo modo si era scontrata frontalmente con il muro degli archeologi tradizionalisti e si era inimicata l'apparato religioso al completo. Sperava che in nessun modo la voce fosse giunta fino a Roma.

– E se poi volessi andare a curiosare in Vaticano?

– In quel caso ti preparerò le referenze e c'inventeremo qualche buona scusa. Dietro il paravento dell'Università potrai sicuramente andare a ficcare il naso anche lì. Fammi sapere.

– Grazie, professore.

– Naturalmente mi terrai informato sui tuoi progressi, vero? Sono molto curioso.

– Sarai il primo che informerò, ci puoi contare.

            Sebbene Nika fosse divenuta più cauta, la diplomazia non era proprio nelle sue corde, dunque la mail che padre Ubaldo Ballarin ricevette una mattina, lo stupì, lo incuriosì, lo preoccupò, lo terrorizzò, passando da uno stadio all'altro di queste emozioni ancor prima d'aver finito di leggerla. Poi aprì gli allegati, trovandosi di fronte alcuni vecchissimi articoli di giornale che conosceva a memoria e uno che non aveva mai visto. Quest'ultimo faceva riferimento al fatto che il Cronovisore non era opera del solo Ernetti, citando i nomi dei fisici che avevano fornito una consulenza o una collaborazione al fisico per giungere al magnifico risultato che pure il mondo avrebbe ben presto dimenticato, oltretutto marchiando ingiustamente d'infamia l'ideatore. Ubaldo li lesse con commozione: tra gli altri, Enrico Fermi, il suo collaboratore Ettore Majorana, lo scienziato tedesco Wernher Von Braun, un premio Nobel giapponese e il portoghese De Matos.

Padre Ubaldo si guardò intorno nello studio che occupava ogni giorno. Non ci aveva messo molto per scoprire dov'erano conservati i componenti del Cronovisore, ma spostarli nel suo studio aveva richiesto mesi, oltre all'abbandono della segretezza che avrebbe voluto mantenere. Purtroppo la telecamera che controllava il corridoio del sotterraneo era un ostacolo impossibile da superare, senza la complicità di uno dei gendarmi, Ludovico La Rosa, che era in servizio alla Sala Controllo e che era diventato suo amico. E poi c'erano altri due fisici con i quali aveva osato confessarsi. Ma che c'entrava questa Nika Zakharova in tutto ciò? Perché si era rivolta proprio a lui? Ah, sì, era stato Sokolov a suggerirle la sua mail. Ma era una coincidenza troppo strana. Un brivido gli corse lungo la schiena. E se qualcuno avesse iniziato a sospettare che lui aveva in progetto di rimontare l'apparato? Se quella mail rappresentava solo un'esca per farlo abboccare? In ogni caso le mail erano controllate. Non poteva certo risponderle la verità. Avrebbe negato. Negato tutto. Ubaldo stampò la mail e gli allegati e poi la cancellò dalla posta elettronica. Mise i fogli nella borsa e decise che ci avrebbe riflettuto con calma.

 

            Quando l'agenzia di reclutamento gestita da Alvin Rybakov ricevette la segnalazione, si affrettò a contattare Danil Lukin per offrirgli un contratto. Non gli chiesero neppure di consegnare un curriculum: sapevano già tutto di lui.

Alvin Rybakov lo ricevette di persona. Era una specie di armadio a due ante, con un doppiopetto antracite a righine grigie, molto elegante nonostante la stazza.

Ma quella storia che le informazioni su di lui fossero arrivate alla sua scrivania, a Danil non piacque affatto.

– Come fate a sapere tutte queste cose di me?

– Sono amico di un tuo ex-collega. Ho chiesto a lui se conoscesse qualcuno con le caratteristiche che mi servono. Vedi, Danil, abbiamo una richiesta per un lavoro un po' particolare. Tu sembreresti proprio la persona che fa al caso nostro.

– Di che cosa tratta?

 

            La risposta di padre Ubaldo Ballarin rappresentò una profonda delusione per Nika, ma il suo carattere caparbio le impedì di arrendersi. Decise dunque di andare a ficcare il suo naso direttamente nel luogo dove supponeva trovarsi nascosto il congegno che bramava con tutte le sue forze. Non era stato facile, ma infine le numerose lauree che arricchivano il suo curriculum e una richiesta diretta dell'Università Lomonosov di Mosca, le permise di essere accreditata presso la Biblioteca Vaticana per approfondire i suoi interessi, mantenuti naturalmente sul vago. Fu così che lasciò la madre Russia per trasferirsi a Roma, con la benedizione e i soldi di Nicolaj Zakharov.

Nika aveva la testa rasata, ad eccezione di una lunghissima ciocca di capelli che scaturiva dalla sommità del capo, e il tatuaggio di un serto floreale che partiva dall'orecchio sinistro, lambiva le radici della coda e arrivava infine sulla nuca. Collezionando tatuaggi, Nika non immaginava che forse un giorno avrebbero potuto esserle di ostacolo. Ci pensò in occasione della sua partenza per Roma, in biker di pelle nera, blue jeans stracciati e anfibi. Per l'occasione, Nicolaj le aveva regalato il suo Piper Matrix del 2007, includendo nel pacchetto anche il suo ultimo pilota, Vlad Petukhov, con il suo inseparabile compagno. Vlad, che parlava perfettamente l'italiano, sarebbe stato il suo pilota, la sua guardia del corpo, il suo autista, accompagnatore e infine, intuiva Nika, la spia che avrebbe riferito al padre ogni sua azione. E dal momento che lo pagava lui - profumatamente - più che un'intuizione era una certezza.

– Ma papà, non ho bisogno di Vlad. È il tuo pilota! E poi che me ne faccio di un aereo?

– Dammi retta, l'indipendenza è la cosa più bella che possano offrirti i soldi.

– E avere un aereo a disposizione vuol dire essere indipendenti?

– Sì, Nika. Vuol dire proprio questo.

Discutere con suo padre l'aveva sempre divertita, ma in quel momento Nika era distratta da altro.

– E che tipo è questo Vlad?

– È uno con cui ti troverai bene. Parla poco, esegue gli ordini senza chiedere, è discreto, reagisce a velocità fulminea in caso di pericolo, è fidato e fedele. Il suo unico difetto è Sputnik, il suo animale da compagnia. Ma anche lui è silenzioso e discreto, non ti accorgerai nemmeno della sua presenza.

Nicolaj e Jana la salutarono come sempre, neanche si aspettassero di rivederla prestissimo. Ebbe persino l'impressione che fossero contenti della sua partenza, quasi volessero sbarazzarsi di lei. Ci restò persino un po' male.

 

 

            Era la prima volta che Nika viaggiava su quel piccolo aereo e che aveva a che fare con Vlad. Dopo le presentazioni, lui si era occupato di sistemare i suoi bagagli e poi aveva invitato Nika ad accomodarsi. Lei aveva portato con sé un paio di libri, anche se probabilmente ne avrebbe approfittato per dormire un po', visto che da alcune notti non riposava molto bene a causa dell'eccitazione. Ma a metà del volo, uno scossone più forte degli altri la svegliò.

– Ehi, Vlad, non è che devo dire addio ai miei progetti?

– Tranquilla, c'è una perturbazione, ma tra poco ne saremo fuori.

– Grazie. Posso venire accanto a te?

– Basta che non tocchi niente.

Vlad non le sembrò molto entusiasta, ma a Nika interessava poco. Voleva vedere il panorama delle nuvole da una posizione più favorevole.

– Cosa vai a fare a Roma? – le domandò, dopo che si fu seduta sulla poltroncina accanto a lui, mostrando doti di contorsionista.

– Ricerche.

– Tuo padre mi ha detto che sei un'archeologa. C'è ancora qualcosa da scavare a Roma?

– Non vado a scavare, vado a cercare un oggetto che hanno nascosto in Vaticano.

Vlad la guardò con stupore.

– E loro lo sanno?

– No.

– E come pensi di riuscirci?

– Questo ancora non lo so. Prima di tutto devo esplorare il territorio, poi vedremo.

– Se hai bisogno di aiuto, sfruttami pure. Sono pagato per questo.

– E tu come mai hai accettato di farmi da baby sitter?

– Per soldi, naturalmente e anche...

– Zakharov deve pagarti molto bene.

– ...perché cominciavo ad annoiarmi del...

– E pensi che sarà divertente vivere con una come me?

– Ma tu non lasci mai che uno finisca una frase?

– Sei lento.

– E tu sei troppo svelta. Rilassati.

– Cercherò, ma la mia velocità di crociera è di molto superiore alla media.

– Quindi dovrò abituarmi...

– Se ci riesci.

– ... oppure rispondere a monosillabi.

– Può essere un'idea.

– Ti avviso che ho-portato-con-me-un-compagno-inseparabile.

– E dov'è?

– In fondo, dietro i sedili.

– Cane o gatto?

– Pitone, di due metri e mezzo.

– Cazzo!

– Non ti piacciono i pitoni?

– Mi ci abituerò. Solo, tienilo lontano dal mio letto.

– Non c'è pericolo, passa il suo tempo dentro le tane.

– Che tane?

– Quelle che gli metto nel terrario. Esce di rado a sgranchirsi le spire.

– Capisco.

Durante il resto del volo, si scambiarono informazioni sulle rispettive abitudini e sui loro gusti, fino ad accertare con un certo sollievo che non avevano nulla in comune, eccetto la facilità di imparare le lingue. Anche Vlad ne conosceva diverse. Inoltre erano abbastanza vicini come età: Vlad aveva trent'anni, Nika trentacinque.

Atterrarono a Roma Urbe nel pomeriggio e dopo le solite lungaggini burocratiche, noleggiarono una station wagon, su cui trasferirono i bagagli e la scatola in polistirolo in cui era rintanato il pitone.

Anche se c'era già stata altre volte, per Nika lo spettacolo di Roma al tramonto fu un vero colpo di fulmine. Ora la vedeva con occhi diversi. Non era la tappa mordi e fuggi di qualche convegno, era il luogo dove avrebbe abitato per chissà quanto tempo.

            Per alcune settimane tutto prese a vorticare intorno a lei, dandole l'impressione di trovarsi al centro di una tromba d'aria. Quando infine il vento cessò, Nika e Vlad s'insediarono sull'Aventino.

Con il tacito consenso di Vlad, al quale sembrava non interessare nulla, Nika scelse come sua residenza un grande appartamento su due livelli nel quartiere Aventino, ricavato dai locali di un ex-convento, appena ristrutturato e circondato dal verde. Poiché ciascun livello possedeva un suo ingresso indipendente, Nika e Vlad avrebbero potuto fare vite separate senza disturbarsi l'un l'altro, ma ben presto Nika si rese conto che Vlad si considerava alle sue dipendenze ventiquattr'ore su ventiquattro. Lei lo lasciò fare. Giunsero i suoi libri e le sue attrezzature, insieme con sei casse di kvas, che avevano viaggiato su un furgone attrezzato per i traslochi. Si procurarono mobili, abiti, un'automobile e personale addetto alla casa. Dopo di che, in una bella domenica di primavera, Nika annunciò che il giorno seguente si sarebbe recata in Vaticano.

– Che la festa abbia inizio! – disse Vlad.

Aveva liberato il pitone, che si avvolgeva con intollerabile lentezza intorno alle sue braccia nude, prive di tatuaggi. Vlad era esageratamente dotato di muscoli, ma distribuiti in una scenografia armoniosa, tanto che, vestito, non ci si faceva troppo caso. Aveva un volto regolare, quasi anonimo, capelli corti, ma non troppo, castani e lievemente ondulati e occhi castano dorato dallo sguardo magnetico.

– Avevi detto che non usciva mai dalla tana.

– Lo aiuta a digerire. Gli ho dato da mangiare più di tre giorni fa e ancora niente.

– Come fai a saperlo?

– Non ci sono ancora tracce di escrementi.

– Oh. E che cosa mangia?

– Topi...

– Cazzo! Tienili lontani dai miei libri.

– ...morti. Sarebbe gentile da parte tua farmi finire una frase, ogni tanto.

– Ma come si chiama, quella bestiolina?

– Pitone.

– No, intendevo il nome.

– Lo chiamo Pitone, visto che è un pitone. A cosa gli servirebbe un nome, dal momento che se lo chiami non ti risponde?

Nika si ricordava benissimo che suo padre l'aveva chiamato Sputnik. Osservò Vlad con quello sguardo vitreo che le persone assumono quando stanno riflettendo su qualcosa. Vlad si sentì trapassato da parte a parte e ispezionato minuziosamente fino all'anima.

– Che c'è?

– Niente. Beh, adesso devo decidere cosa mettermi per non allarmare le cariatidi con il mio abbigliamento.

– Senti, Nika, lasciatelo dire, cioè non interrompermi, il problema non è tanto l'abbigliamento, quanto la tua testa. Ma come diavolo ti è venuto in mente di farti quel tatuaggio? Dovrai farti ricrescere i capelli. Non hai esattamente l'aspetto di una mite e rispettabile archeologa.

– Odio quando la gente giudica le persone dall'aspetto e dai suoi abiti.

– Odialo pure, ma intanto risolvi il problema.

– Già fatto. Metterò un turbante.

– Ah, certo. Non ci farà caso nessuno. Passerai del tutto inosservata, ci scommetto.

E questo era il Vlad discreto e silenzioso che conosceva suo padre?

            Il giorno seguente, si fece accompagnare alla Porta Sant'Anna per fare il suo primo ingresso in Vaticano. Portava un rispettabilissimo tailleur pantalone nero, un turbante grigio antracite, scarpe basse e borsa da lavoro in cuoio bordeaux. Alla guardia svizzera dovette presentare la lettera di accoglimento della sua richiesta. Lui la radiografò in un attimo da capo a piedi e poi fissò lo sguardo sul turbante.

– È meglio che lo tenga, mi creda – gli disse Nika.

Il militare probabilmente non capì, ma la fece passare, indicandole la strada. All'Ufficio Ammissioni della Biblioteca, un'impiegata richiese la sua lettera di presentazione e un documento. Nika ricevette in cambio una tessera elettronica, precise indicazioni sul comportamento da seguire e una copia cartacea del regolamento. Per ultimo, si raccomandò che adottasse sempre un abbigliamento consono.

– Non vado bene così? – le domandò Nika.

Lo sguardo della donna si appuntò sul turbante, con espressione indecisa.

– Ah, questo? È consigliabile che lo metta, se vuole che mantenga un aspetto consono.

La donna s'incuriosì, ma non osò indagare e la congedò con un mezzo sorriso. E finalmente Nika raggiunse la portineria, dove le chiesero la tessera, che serviva per la registrazione elettronica del suo ingresso alla Biblioteca.

– Questa è la chiave elettronica del suo armadietto. Può depositare lì la borsa. Le ricordo di tenere spento il cellulare, di non portare con sé strumenti elettronici e

di mantenere il silenzio.

A quel punto Nika decise di dare un'occhiata alla copia del regolamento che teneva ancora in mano. Per fortuna non era solita portare con sé forbici, coltelli, lamette, rasoi, fiammiferi, carta adesiva, nastro adesivo, colla, bottigliette d'inchiostro e correttori liquidi. Ma avrebbe dovuto comunque lasciare il cellulare nella borsa, dal momento che era dotato di apparecchiatura fotografica. Niente foto in Biblioteca. Una buona notizia era che la Biblioteca era dotata di un bar e che si poteva fumare in giardino. Nika infilò il foglio in borsa e andò a depositarla nel suo armadietto, quindi fece il suo primo ingresso nella Sala di Consultazione.

Di nuovo vollero che passasse la tessera per registrare il suo ingresso e solo allora Nika ebbe un deciso moto di fastidio. In fondo non voleva entrare a Fort Knox, ma solo in una biblioteca, che diavolo! Poi dovette scrivere il suo nome su un registro, accanto al numero del suo armadietto, quindi le fu chiesto di scegliere il posto dove sedersi e poi di tornare a scriverlo accanto al suo nome. Nika si trattenne dallo sbuffargli in faccia, ma una volta adempiuto ai riti della burocrazia, dopo aver firmato, giurato che aveva le mani pulite e che non avrebbe usato penne o matite, finalmente posò sulla scrivania il tomo che si era scelto. A quel punto, la prima cosa di cui sentì veramente la necessità fu di fumarsi una sigaretta.

Alle quattro di quel pomeriggio, Nika uscì dalla Porta Sant'Anna, non prima d'aver mostrato il suo tesserino alla guardia svizzera in servizio, che non era più la stessa che l'aveva fatta entrare al mattino. Ad attenderla poco lontano c'era Vlad, che accese il motore non appena la vide dallo specchietto retrovisore e che ingranò la marcia ancor prima che Nika chiudesse la portiera.

– Tutto bene?

– Sì, tutto bene, – rispose Nika, sfilandosi il turbante – credo che mi abbiano schedata e ripresa sotto ogni angolazione. Ci sono telecamere ovunque.

– Naturale, visto come va il mondo.

– Come va il mondo, Vlad?

– Male.

– Quindi te ne preoccupi, dopo tutto.

– No. Non me ne frega niente.

– Ah, volevo ben dire.

– Dove ti porto?

– A casa. Ho solo voglia di mettermi comoda e di scolarmi una bottiglia di kvas.

– Eseguo. Ma dopo una giornata in mezzo ai libri ci starebbe meglio una bella vodka, non credi?

– Ho sempre preferito mantenermi sobria, Vlad.

– Il kvas lo bevono i bambini.

– Vuol dire che io sono rimasta una bambina.

Il cielo era pieno di nuvole pesanti che annunciavano pioggia, ma in quella città non sempre agli annunci seguivano gli eventi. Bisognava tener conto di un venticello che spesso spazzava con delicatezza cielo e terra e che sembrava telecomandato. Il traffico sul Lungotevere era sempre intenso, rallentato dai semafori e da fiumi di gente che attraversava la strada, così Nika poté godersi lo spettacolo della folla in movimento, dei ponti, dei bei palazzi d'epoca, delle piazze e del lungo viale alberato. Passarono sopra Ponte Sublicio e invertirono la direzione di marcia sul Lungotevere Aventino. Erano quasi a casa.

– Metto la macchina in box o vuoi uscire stasera?

– No, mettila pure a ninna.

– Tu in fondo non fai molta vita mondana.

– Ti risultava il contrario?

– Tuo padre non mi ha parlato di te. Sono io che mi sono fatto strane idee vedendo il tuo aspetto. Ti immaginavo a rave, feste punk e acide house.

– Per via dei tatuaggi?

– Già.

– I tatuaggi sono il mio unico hobby.

– Me ne sono accorto. Hai una bella collezione.

Nika ne era orgogliosa.

– Puoi uscire tu, se ne hai voglia. Io devo studiare, quindi ti puoi considerare in libera uscita.

– Il giorno in cui ne sentirò la necessità te lo chiederò.

– Senti, Vlad, mettiamo in chiaro una cosa. So guidare, anche se non ho un gran senso dell'orientamento, parlo correntemente la lingua locale, non ho bisogno che tu mi stia appiccicato addosso ventiquattr'ore su ventiquattro. Fai la tua vita, trovati una ragazza, esci, vai al cinema, fai quello che ti pare. Quando avrò bisogno di te, ti chiamerò.

– Invece sono stato assunto da tuo padre proprio per starti addosso non stop. Non farmi licenziare, per favore.

Nika sospirò. Quella storia cominciava a pesarle.

 

            Padre Ubaldo passò a salutare Ludovico La Rosa prima di tornarsene a casa. Il suo amico era di turno nel pomeriggio, per quella settimana. Entrò nella Sala di Controllo in punta di piedi, sperando di sorprenderlo.

– Ciao, Ubaldo – lo salutò il gendarme senza neanche voltarsi.

– Non c'è una volta che ti trovi distratto – commentò, vedendolo attento a osservare i tanti monitor che aveva davanti.

– Ti ho visto uscire dallo studio. Ci avrei scommesso che passavi da me. Come va? Novità?

– Niente. Ah, sì, ho ricominciato a fumare.

– Sì, ho visto. Male, malissimo. Quanto sei stato senza, questa volta?

– Un mese.

– Sempre meno.

– Credo sia ora che ci rinunci.

– Hai provato con la sigaretta elettronica?

– Per favore, sii serio.

Ludovico ghignò.

– E tu, novità?

– Niente. A parte una tipa stravagante in biblioteca, oggi.

– Stravagante?

– In un primo momento l'avevo scambiata per un indiano, ma poi ho visto le curve. Portava un turbante, sai, come quelli degli indiani.

– Sarà una nuova moda. Da dove arriva?

– Non lo so, devo informarmi. Comunque avete qualcosa in comune.

– Cioè?

– Fuma parecchio.

– Mi hai incuriosito. Domani vado a vedere e ti saprò dire da dove arriva.

– Non ti disturbare per me, lo sai che ho altri interessi.

– Infatti, non è per te che mi disturbo, Ludovico, sono solo curioso.

Il gendarme sollevò le sopracciglia mimando un'espressione scandalizzata.

– Questa conversazione non è mai avvenuta.

Ubaldo ridacchiò.

– Che fai stasera?

– Mi vedo con due amici alla Casetta della Madonna dei Monti.

– Me ne parli spesso. Devo farci un salto una di queste sere.

– Quando vuoi, possiamo andarci insieme – gli propose Ubaldo.

– Ti farò sapere quando avrò un impellente bisogno di sbronzarmi.

Ubaldo sorrise e lo salutò. Ludovico tornò ai suoi monitor, che lo avrebbero impegnato ancora per un paio d'ore.

Guadagnata l'uscita, un conturbante tramonto travolse padre Ubaldo. Ci si era abbastanza abituato, ma mai del tutto. Ogni tanto ne capitava uno come quello, con l'oro fuso che colava dai bordi panciuti delle nuvole grigie, gonfie di pioggia, che sarebbero andate a sfogarsi verso il mare, dove il vento le stava trascinando. Ma forse era meglio rimandare la passeggiata che aveva in programma, per dirigersi dritto verso il suo rifugio, il convento di Sant'Onofrio, dove viveva ormai stabilmente da almeno un anno. Al refettorio si mangiava bene e le suore che tenevano in piedi la struttura non erano dure e acide come quelle del suo precedente asilo. Dopo cena doveva incontrare i suoi amici ricercatori. L'ultima volta che li aveva visti, erano entusiasti dei loro progressi. Ubaldo li aveva conosciuti a un convegno sul Computer Quantistico di Chuang e Gottesman. Quando aveva scoperto che stavano lavorando a un congegno che chiamavano Timeshift gli si erano drizzate le orecchie. Anche lui si era immerso nella fisica, dopo l'incontro con padre Ernetti, ritenendo che un giorno, se fosse riuscito a mettere le mani sul Cronovisore, avrebbe dovuto possedere le conoscenze specifiche per rimetterlo in funzione. Ma dal momento in cui ciò che sognava era infine accaduto, aveva vissuto una frustrazione dietro l'altra. I pezzi dell'apparecchio forse non c'erano tutti, o era lui che non riusciva ancora a rimetterlo insieme. Nello stesso tempo, seguiva i progressi di Teodoro Sabri e Kirill Teffi, i due ricercatori della IRN che stavano studiando quel dispositivo imperniato sulla fisica quantistica per trasferire la materia attraverso lo spazio. C'erano numerosi studi in proposito, tutti entusiasmanti. Di progressi ne avvenivano continuamente. I due ricercatori collaboravano con il Centro giapponese Kek di Tsukuba e con il Centro TML di Ginevra. Saltuariamente s'incontravano con i loro colleghi per uno scambio informativo. Ubaldo credeva che fossero a buon punto e gli sarebbe piaciuto raggiungere il suo obiettivo per fornire un contributo fondamentale. Il Timeshift insieme al Cronovisore avrebbero potuto costituire la più grande rivoluzione per l'umanità, almeno in teoria. Peccato che la teoria fosse vastissima, ma in pratica si era riusciti a malapena a trasferire un fotone.

Le prime gocce di pioggia lo sorpresero a pochi metri dal portone. Aveva fatto bene a prendere la strada più breve. Non che la pioggia lo spaventasse, ma da qualche tempo si raffreddava facilmente. Al primo colpo d'aria gli veniva mal di gola, a ogni cambio di stagione si buscava un raffreddore, il primo virus influenzale in circolazione lo bersagliava immediatamente. Gli avevano detto che il suo sistema immunitario si stava indebolendo perché passava tutte le sue giornate al chiuso, senza vedere mai la luce del sole. Ma ecco che non appena metteva il naso fuori gli arrivava addosso una scarica di pioggia, oppure se lo trascinava il vento. Era davvero troppo giovane per essere ridotto così.  

Dopo cena osservò il cielo dalla finestra. Non solo erano sparite le nuvole, ma una luna smagliante offuscava la luce tremante delle stelle. Si vestì in borghese e uscì dal portoncino laterale per raggiungere più presto Piazza della Rovere, dove avrebbe preso un autobus fino al luogo dell'appuntamento, in via Nazionale.

In tasca aveva un libro, ma una volta seduto vicino al finestrino preferì guardare le strade che scorrevano tra le luci e le ombre fitte che intessevano una rete di mistero tra un semaforo e l'altro. Stranamente gli tornò in mente la sconosciuta con il turbante. Il mistero, di qualunque genere fosse, l'aveva sempre affascinato. Solo da pochi anni si era reso conto che uno dei più fitti era la sua vita. Un giorno si era svegliato e si era domandato, semplicemente, perché sono qui? Era ancora a Venezia, ancora alle prese con gli esami di teologia, e all'improvviso tutto gli era sembrato fuori posto, soprattutto lui. Quella non era la sua vita, non era quello che avrebbe dovuto essere. Ma quale vita, allora? Quello era stato l'esatto momento in cui aveva capito che quella domanda fondamentale era la prima che avrebbe dovuto porsi. Quale vita voglio? Che cosa voglio fare? Quali sono i miei reali desideri? Non quelli immediati, semplici, facilmente esaudibili, ma quelli a più ampio respiro, quelli che ti portano lontano, verso il futuro. Pensò di abbandonare tutto, quel giorno, di ricominciare tutto da capo, da un'altra parte, in un altro modo, ma poi gli tornò in mente il Cronovisore. Ci ripensò. Forse non era la vita che voleva, ma per raggiungere il Cronovisore non vedeva altre strade che quella. Così si ammantò di falso entusiasmo, dissimulò fervore in una fede che era sempre più tiepida, se mai c'era stata, e deviò i pensieri dalle necessità più naturali, tutto pur di raggiungere il suo scopo. Con uno strattone più violento degli altri, il 64 frenò fischiando e si fermò. Ubaldo si accorse appena in tempo che quella era la sua fermata di via Nazionale. Si alzò di scatto e guadagnò i gradini della porta che si era aperta pompando aria compressa. Sul marciapiedi Teodoro e Kirill lo stavano già aspettando.

Con una breve passeggiata raggiunsero La Casetta della Madonna dei Monti, nella piazza omonima, al centro della quale svettava allegramente la Fontana dei Catecumini. Rampicanti sui muri, pochi tavolini stretti gli uni agli altri e ancora aperto un ombrellone che li aveva riparati dal sole del mattino e dalla pioggia della sera. Gioele si accorse subito del loro arrivo e si presentò con un piatto di stuzzichini che aveva tenuto da parte dopo la telefonata di Teodoro.

– Va', che v'è annata bene. Da bere che vi porto? Rosso o bianco?

– Rosso. Rosso per tutti, vero?

– Allora, Ubaldo, come proseguono i tuoi sforzi?

– Gli sforzi proseguono bene, sono i risultati che latitano.

Kirill allungò subito la mano ad afferrare un tramezzino mignon dall'aspetto invitante.

Teodoro si mise a ridere.

– Dai, aspetta il vino, sei il solito aspirapolvere.

– Cerco consolazione. Mi ci vorrebbe ben altro, magari una bella bottiglia di vodka, ma di quella giusta.

– E il vostro viaggio in Giappone è andato bene?

– Sai, sembra impossibile, ma con tutta la squadra che hanno e i loro super poteri, noi due siamo più avanti di loro. Italiani e russi non li batte nessuno, soprattutto quando lavorano insieme. C'è quel feeling che ci dà una marcia in più.

– Sì, va bene, ma che progressi avete ottenuto?

– Piccole cose, per il momento, ma sai come funziona, fai tanti minuscoli passettini che sembrano non condurre a niente e invece all'improvviso, grazie a quelli, sei catapultato con un balzo in avanti dove non speravi di arrivare.

Ubaldo voleva i particolari, ma l'arrivo di Gioele con quattro bicchieri di vino e uno sgabello per sé, cambiò l'atmosfera e gli argomenti di conversazione.

 

            Nika non era mai stata una dormigliona, ma da quando si trovava in quella casa dormiva ancora meno. Le ore in cui si sentiva più attiva erano quelle durante le quali il resto della gente dormiva. Si alzò alle cinque, dopo appena quattro ore di sonno, bevve un tè nero e tornò nello studio. Appena si fu seduta alla sua scrivania, guardò la disposizione degli oggetti. Non era la prima volta che aveva l'impressione che ci fosse qualcosa di diverso da come l'aveva lasciata, ma non ne era sicura. La sua memoria visiva cominciava a perdere colpi? Le sembrava di essere troppo giovane per il declino. Le altre volte aveva dato la responsabilità a Teresa, che quando spolverava le spostava tutto. Aveva dovuto pregarla di non fare le pulizie nel suo studio, ma di limitarsi a lavare i pavimenti, quando aveva scoperto che usava un panno bagnato per togliere la polvere dal computer e dalle sue apparecchiature elettroniche, rischiando nel migliore dei casi di provocare un corto circuito o, nel peggiore, di restare fulminata. D'accordo che era assicurata, ma le sarebbe dispiaciuto avere un cadavere arrostito in casa. Non sopportava la puzza di carne bruciata.

Però Teresa non c'entrava. Non faceva le pulizie di notte. Dunque, o lei si sbagliava, o c'era un altro colpevole.

Accese insieme il computer e la prima sigaretta della giornata e tornò ai suoi appunti. Aveva tre ore a disposizione, prima di prepararsi per una nuova immersione in Biblioteca.

 

            Erano da poco trascorse le otto, quando padre Ubaldo uscì per recarsi al suo studio. Se non si sbagliava, avrebbe potuto incontrare la donna col turbante in Biblioteca. Ci sarebbe passato a metà mattina per approfittare del bar e fumarsi una sigaretta nel cortile. Mentre entrava dall'ingresso del Perugino, salutando i gendarmi di turno, si domandò come mai quella straniera lo intrigasse tanto, sempre che fosse una straniera. Sarà stato per come Ludovico gliel'aveva presentata, una stravagante? Le persone originali l'avevano sempre attratto, anche quelle che la maggioranza, che si riteneva normale, giudicava pazze, perché per lui una certa forma di follia era solo un modo di vedere le cose da un'angolazione diversa. Ci sono infatti persone che, osservando cose o eventi da una prospettiva inusuale, arrivano a dimostrare che ciò che hai sempre creduto vero in realtà è falso, e viceversa. Una di quelle persone era stata padre Pellegrino, al quale doveva la sua attuale posizione e il suo obiettivo. La speranza di ricostruire il Cronovisore era sempre viva in lui, anche se cominciava a dubitare di poterci riuscire da solo. Chi l'aveva smontato in mille pezzi, per impedire che venisse ricostruito, aveva fatto un ottimo lavoro. Forse era stato lo stesso padre Pellegrino. Ma aveva, sempre più forte, l'impressione che mancasse qualcosa. Il problema più grave era che lui non poteva far entrare nessuno nel suo studio, quindi nessuno lo poteva aiutare. Varcò il portone, passò la tessera magnetica per registrare il suo ingresso e si diresse subito al suo studio.

            Nello stesso momento, Nika mostrò la tessera alla guardia svizzera ferma all'ingresso di Porta Sant'Anna, poi si voltò a guardare l'auto ancora ferma. Vlad fece un cenno di saluto e ripartì. Come conseguenza di quel suo comportamento, Nika si sentiva più controllata che protetta e per un attimo ciò la infastidì. Non era stata una buona idea quella di suo padre. Gli dispiaceva far licenziare Vlad, ma Nicolaj Zakharov poteva sicuramente trovargli un altro incarico. A lei non serviva un cane da guardia. Gli avrebbe telefonato quel giorno stesso. Poi varcò il portone della Biblioteca e non ci pensò più. La scelta del volume da consultare fu molto lunga, più accurata e mirata del giorno precedente. Riuscì a mettere le mani su un piccolo opuscolo anonimo, pieno di interessanti appunti di fisica delle onde sonore e di strani disegni che l'avevano subito incuriosita. Per evitare che qualcuno le chiedesse se aveva le mani pulite, come fosse una ragazzina dell'asilo, quel giorno indossò i guanti di filo.  A mano a mano che sfogliava le pagine del manoscritto, Nika si convinse sempre più come l'autore di quegli appunti avesse condiviso lo studio di Ernetti, o che fosse arrivato indipendentemente da lui allo stesso risultato. Infatti, in uno degli ultimi schemi c'era l'idea di fondo del congegno: da una parte c'era una figura identificata come "testimonio sotto esame", seguita da due vettori che portavano a una "sonda per l'eccitazione", denominata SLD. Subito sotto di essi vi erano sei quadrati evidenziati come "onda generata". Dall'SLD i due vettori si diramavano in direzioni diverse: uno portava al "Generatore di segnali", a frequenze acustiche e microonde, sotto di esso un altro componente era detto T.C. e sotto di esso, una spirale, "Richiamo dell'onda generata = magnetrini prodotti tramite induzione da un solenoide sincronizzato". Sul lato destro del disegno, in alto, c'era un apparato chiamato "Analizzatore a quattro ingressi", collegato da un vettore al T.C. e dall'altro all'ADSP, elaboratore generale per l'afflusso dei dati analogici e digitali, interfaccia da o verso altri apparecchi. L'idea di fondo c'era, sulla carta, ma come realizzarla? Nika s'immerse nelle spiegazioni delle pagine successive dimenticando il resto del mondo. 

            Anche padre Ubaldo era così immerso nei suoi tentativi da aver dimenticato che ora fosse. Fu un borbottio del suo stomaco che gli ricordò, intorno all'una, che non aveva interrotto il suo lavoro neppure per il solito caffè di metà mattina. Sospirò, lasciò quello che stava facendo e decise di rimediare subito. Passando dalla Biblioteca, vide la donna con il turbante. La cosa lo fece sorridere. Nella Sala di consultazione non c'erano ormai che tre studiosi, due uomini e una donna. Lanciò uno sguardo al registro e trasalì leggendo il nome della studiosa, Nika Zakharova. Che diavolo ci faceva là? Poi andò al bar, dove si fece servire un bicchier d'acqua. Dimenticarsi persino di bere era davvero incredibile. Quindi padre Ubaldo tornò verso l'ingresso della Sala, accorgendosi che la donna si era allontanata dalla scrivania per dirigersi verso il cortile. Padre Ubaldo restò indeciso per un attimo, dondolando sui due piedi. Andare a pranzo o andare in cortile a fumare una sigaretta con la signora Zakharova? La pendenza del dondolio lo spinse verso il cortile. Quando la raggiunse all'aria aperta, le si avvicinò con una sigaretta in mano, domandandole se aveva da accendere. Nika gli sorrise, porgendogli il suo accendino.

– Certo. Prego, accenda pure.

Ubaldo la ringraziò guardandola negli occhi e poi si fece forza.

– Dal suo accento direi che è russa. O mi sbaglio?

Nika osservò l'uomo aspirare con voluttà la sigaretta tra le labbra rese invisibili dalla folta barba e dai baffi spioventi.

– No, ha proprio indovinato. E dal suo accento direi che lei non è romano.

– No, ha ragione. Sono nato a Venezia.

– Ah, Venezia! La città di padre Pellegrino Ernetti.

Per poco Ubaldo non si strozzò con il fumo.

– Esatto.

– Conosco i suoi studi sulla prepolifonia. Era un genio. Un grande fisico.

– Sì, è vero, era anche un grande fisico. Io l'ho conosciuto, molti anni fa – gli sfuggì.

– L'ha conosciuto? Incredibile! Ha potuto vedere i risultati dei suoi studi? Voglio dire, quel congegno che ha inventato per sentire la musica antica?

– Sssst. La prego, non dica più niente. Andiamo fuori. Qui anche le mura hanno orecchie – concluse sottovoce.

Nika non se lo fece ripetere due volte. Spense la sigaretta e aspettò che il religioso facesse altrettanto. Poi lo seguì. Passò dall'armadietto a prelevare la sua borsa e lo raggiunse fuori dal portone. Là si guardarono, ancora senza parlare, e iniziarono a incamminarsi, fianco a fianco.

– Io sono padre Ubaldo Ballarin – disse lui, tendendole la mano, quasi senza fermarsi.

Nika si adombrò immediatamente, memore della mail che aveva ricevuto da lui in risposta alla sua, non molto tempo prima.

– E io sono Nika Zakharova – rispose lei. – Mi può dire perché ha risposto alla mia mail in quel modo? Mi ha scritto di non conoscere nessun padre Ernetti e che il congegno di cui favoleggiavano quegli articoli era una stupida invenzione giornalistica. Com'è che l'ha definita? Una bufala metropolitana?

– Non qui, la prego. E soprattutto eviti di fare il suo nome.

Nika si zittì, ma guardandosi intorno si domandò se quell'uomo fosse sano di mente. Intorno a loro non c'era nessuno che potesse sentirli.

– Immagino che lei non abbia pranzato.

– No, non ancora.

– Allora venga con me.

A dieci minuti di cammino c'era una trattoria molto frequentata a quell'ora. Ubaldo domandò se era libero un tavolo in giardino, di quelli per fumatori incalliti. La cameriera rise e gli fece cenno di accomodarsi. Non era ancora giunta la stagione in cui i clienti venivano serviti all'aperto, ma per lui facevano sempre un'eccezione. Da una porta a vetri sul retro passarono in una veranda coperta e riparata sui tre lati da folte siepi di bosso. Ubaldo si sedette a un tavolo appoggiato al muro e si accese una sigaretta. Nika notò che aveva un accendino funzionante, ma non disse nulla. Intanto la cameriera, che li aveva seguiti, sistemò una tovaglia di carta sul tavolino, e su quella posò tovaglioli, posate e bicchieri, dopo di che sparì all'interno.

– Beh, adesso siamo soli e lontani dai muri che hanno orecchie. Può dirmi, padre Ubaldo, perché non si deve nominare padre Pellegrino?

– Ecco, Nika, non è che sia proprio disdicevole nominarlo. Il fatto è che io, non so come dire... ma si fidi di me. Meglio non nominarlo all'interno delle mura.

– Ho notato che ci sono moltissime telecamere. Mi sta dicendo che ci sono altrettanti sensori per spiare ciò che si dice?

– Ecco, sì, diciamo che è proprio così, anche se non dovrei dirglielo.

– Capisco. Cioè, non capisco, ma non ha importanza. Può almeno raccontarmi dei suoi incontri con padre Ernetti? Adesso non ci sente nessuno.

– Sì, che posso e mi fa piacere. Era un uomo davvero incredibile. Amava la musica sopra ogni altra cosa.

– Quella parte della sua storia la conosco. Mi dica della macchina che ha inventato per sentire la musica che veniva suonata prima dell'esistenza delle note scritte, il Cronovisore.

– Non ho mai potuto vederlo. Era già stato distrutto quando ho conosciuto padre Pellegrino e lui ne era molto soddisfatto. Diceva di aver compiuto un gigantesco errore di valutazione, costruendolo. Era un congegno molto dannoso, micidiale, diceva lui.

– Certo, nelle mani sbagliate. Ma in quelle giuste sarebbe stato un vantaggio per tutta l'umanità.

– Quando si tratta del Cronovisore, mani giuste e mani sbagliate si equivalgono. Meglio che non esista neppure la tentazione di usarlo.

– Ma gli articoli che le ho mandato sostenevano che esiste ancora, che è stato smontato e che si trova proprio in Vaticano.

L'arrivo della cameriera con i piatti e un taccuino, li interruppe. Dopo le ordinazioni, Ubaldo tornò a concentrarsi su Nika.

– Lei di che cosa si occupa nella vita?

– Sono un'archeologa – rispose Nika, limitandosi a quella scarna definizione con cui si era già presentata nella mail, ma che sfiorava a malapena i suoi veri interessi.

– E perché il turbante? È una nuova moda?

Nika ebbe la certezza che padre Ubaldo volesse sviare la conversazione.

– No. Mi serve per rendermi consona all'ambiente della Biblioteca, al pari del mio tailleur.

– Ha i capelli viola? O rosa?

Piuttosto frustrata, Nika decise che era il momento di tornare sé stessa. Portò una mano al turbante e se lo sfilò, facendo ricadere la lunga coda bionda sul seno sinistro.

Padre Ubaldo trasalì.

– Per le brache della Sistina!

– Che cosa ne dice? Se mi presentassi alla Biblioteca così, al naturale, mi farebbero entrare?

– Non credo che riuscirebbe nemmeno a valicare la Porta Sant'Anna.

– Era quello che immaginavo.

– Non ha l'aspetto consueto di un'archeologa, forse di una cantante rock maledetta, pronta per subire un esorcismo.

– Già. Ma adesso, per tranquillizzarla, sarò costretta a raccontarle un po' di me.

            Il pranzo si protrasse a lungo, condito con le vicissitudini di entrambi. Qualcosa nelle similitudini delle loro esperienze creò una specie di complicità, un terreno condiviso su cui costruire un'intesa, serena e folle allo stesso tempo. Dopo il caffè, Ubaldo e Nika decisero di darsi del tu, pratica che facilitava la conversazione ed era più vicina agli usi russi.

– Credo che adesso dovremmo tornare in Biblioteca. Io dovrei essere in servizio per un paio d'ore ancora.

– E io vorrei mostrarti l'opuscolo che stavo leggendo. Penso che t'interesserà. Sono sicura che ha molto a che vedere con il Cronovisore.

– In che senso?

– Tratta di una macchina simile. Dai grafici sembrerebbe avere lo stesso scopo.

– Ma è pazzesco! Ti ricordi per caso il numero di registrazione?

– Sì, è 11/11 del settore Manoscritti Fisica.

– Non è possibile. Come ha fatto a sfuggirmi? Lo prenderò domani, se tu hai finito.

– Mi manca poco. In fondo al volumetto c'è una tavola che vorrei discutere con te. Le regole non lo permettono in Sala Consultazione, ma me lo ricordo benissimo e posso rifartene un disegno, anche adesso.

Ubaldo s'incuriosì.

– Hai carta e penna?

– Naturalmente.

Ricomposto il disegno, Nika glielo mostrò.

– Hai ragione. Se quelli non sono gli appunti scomparsi di padre Pellegrino, sono stati annotati da qualche suo collaboratore. Non c'è dubbio.

– Sulla copertina c'è la sigla "E.M." che potrebbe significare Ettore Majorana, l'allievo di Enrico Fermi.

– Il fisico scomparso di cui non si seppe più nulla.

– Qualche voce c'è, ma non ci sono prove certe. Pare che si sia dileguato volontariamente per non partecipare ulteriormente a certi progetti cui era contrario. Ma secondo uno di quegli articoli partecipò invece alle ricerche di Ernetti. L'hai letto, no?

– Sì, e lo stesso padre Pellegrino mi disse che con lui avevano collaborato alcuni altri fisici di fama mondiale, ma non volle mai dirmi chi fossero. Probabilmente quelli che riportava uno degli articoli che mi hai mandato.

– Beh, sicuramente erano tutti bravissimi, ma appartengono al passato. Adesso ci sei tu, che potresti scoprire dove hanno nascosto i pezzi di quella macchina e hai davanti a te una folle che è venuta apposta dalla Russia con l'intenzione di ricostruirla. Aiutami!

– Sì, è proprio vero. Sei folle.

– Lo so, lo so, ma aiutami.

Ubaldo provò la netta sensazione di trovarsi di fronte a una follia che somigliava molto alla sua. Nonostante l'aspetto inquietante di Nika, quello che lesse nei suoi occhi imploranti lo conquistò. Eppure la guardò a lungo, valutando bene i rischi cui andava incontro, prima di decidersi a confessarle il suo segreto.

– L'ho già trovato. E sono mesi che sto tentando di rimetterlo insieme.

Nika rabbrividì di piacere.

– Ma è meraviglioso! Io potrei aiutarti.

– Il problema non è tanto trovare chi possa aiutarmi. Io stesso ho due amici che potrebbero farlo. Il problema è che stiamo parlando di un congegno che non dev'essere ricostruito e di cui non si dovrebbe nemmeno ammettere l'esistenza. Inoltre nessuno può entrare nei sotterranei dove lavoro. E per colmo di sventura, non ho ottenuto nemmeno l'autorizzazione a studiarlo. Quello che sto facendo è illegale. Se mi scoprono, mi buttano in una cella dei sotterranei e buttano le chiavi.

– Tutto questo è superato. Noi vogliamo la stessa cosa, ricostruirla e rimetterla in funzione. Facciamolo fuori da lì, se non c'è un'alternativa.

– Che vuoi dire?

– Porta i pezzi del Cronovisore fuori dalle mura e rimontiamolo altrove, noi due e i tuoi amici.

– Ssst. Non dire una cosa del genere. Non sai chi ci possa ascoltare.

– Questa è paranoia, Ubaldo. Te ne rendi conto?

– Chiamala prudenza. Sei tu che non ti rendi conto del pericolo che correremmo. Anzi, che correrei io.

– Non esagerare i pericoli. Pensaci, Ubaldo. A casa mia c'è un'infinità di spazio, ho attrezzature all'avanguardia e se ne servissero altre potrei procurarmele in un attimo. Ho fondi a sufficienza.

Ubaldo comprese per la prima volta in vita sua cosa significasse l'espressione "indurre in tentazione".

– Ci penserò.

Ma stava già pianificando il modo, i tempi, le opportunità e le possibili complicità da mettere in campo.

– Vivi da sola qui a Roma?

– No, ho un rompiscatole incollato alle costole. Un'idea di mio padre. Nelle sue intenzioni dovrebbe essere una specie di guardia del corpo.

– Allora bisogna trovare un locale da affittare. Non mi piace l'idea che altri possano sapere che cosa faremo.

Nika comprese con sollievo che i tempi di decisione di Ubaldo erano veloci come i suoi.

– Forse hai ragione. È più prudente. Dobbiamo cercare in una zona che sia facilmente raggiungibile sia da noi che dai tuoi amici.

– Non corriamo troppo, Nika. Lasciami il tempo di parlare con loro e di decidere con calma che cosa fare.

– Va bene, Ubaldo. Non c'è fretta – disse Nika, raccogliendo i capelli in cima alla testa e rimettendosi il turbante.

– Andiamo.

Mentre tornavano verso la Biblioteca, Nika rimuginò sull'intera conversazione.

– Perché hai voluto conoscermi?

– Ci siamo conosciuti per caso.

– No, avevi un accendino anche tu.

– Ah, intendi quello sciocco espediente per scambiare due chiacchiere con te?

– Esatto. Perché hai voluto conoscermi?

– Per via del turbante. Era un elemento stravagante e io sono sempre attirato dalle persone stravaganti.

– Chiariamo una cosa. Nella nostra collaborazione non ci sarà spazio per niente altro che il Cronovisore. Io sono atea. Non tentare di convertirmi alla tua religione.

– Figurati, ancora non mi ci sono convertito nemmeno io.

Nika si stupì.

– Anche tu sei stravagante.

– Lo so, ma per il momento non se n'è ancora accorto nessuno. Cerchiamo di non divulgare la notizia. E a proposito, entriamo separatamente. Non è bene che ci vedano insieme. Tu vai pure, io mi fermo a comprare le sigarette, ma prima scambiamoci il numero di cellulare. Non dobbiamo perderci.

– Stai tranquillo. Non succederà.

            Nika finì di leggere il manoscritto, fotografando con la memoria tutti gli schemi disegnati con cura dal misterioso compilatore. Infine lo restituì e uscì di nuovo all'aria aperta. Era ancora stupita dalla incredibile fortuna che le aveva permesso di conoscere padre Ubaldo Ballarin di persona. E lo doveva al suo stupido turbante. Che gli uomini fossero strani le era chiaro da tempo, eppure non aveva ancora smesso di stupirsi delle loro manifestazioni. In altre circostanze, avrebbe definito Ubaldo uno svitato. Un religioso senza fede, un uomo che si era dedicato alla fisica solo per rimettere in funzione un'apparecchiatura che forse non aveva mai davvero funzionato, senza neppure un quadro approssimativo del suo disegno. Comunque non più svitato di lei, che aveva abbandonato tutto per cercare quella stessa apparecchiatura al solo scopo di provare che la maggior parte della Storia scritta sui libri era un falso, tanto quella antica che quella più recente, per non parlare del buco di tre o quattrocento anni del Medioevo, inventati di sana pianta, come avevano teorizzato Fomenko e Nosovskij.

Fuori Porta Sant'Anna l'attendeva Vlad, con il motore acceso.

– Com'è andata la giornata?

– Bene. E la tua?

– Niente di che. Hai scoperto qualcosa?

– Ho scoperto che se fai domande non apprezzano e che oltre alle telecamere ci sono sensori vocali. Tutto quello che si dice viene ascoltato.

– E allora? Vuoi rinunciare?

– Per il momento approfitto dell'opportunità di leggere testi rarissimi. Sono molto fortunata.

Vlad la osservò un attimo, senza parlare.

Una volta a casa, Nika chiamò suo padre.

– Riprenditi Vlad. Non mi serve qui.

– Nika, per favore. È importante che ci sia qualcuno a difenderti.

– Ma da che cosa? Questo è un paese pacifico. Corro gli stessi rischi che avrei corso restando a Khimki.

– E va bene, sei la solita testa dura, allora devo proprio dirtelo. Ho ricevuto delle minacce. Sono stato felice che tu ti sia allontanata, ma non sono sicuro che non possano raggiungerti anche lì. Per questo è importante che tu abbia qualcuno che ti protegga.

Nika precipitò dalle nuvole dignitosamente.

– Hai ricevuto minacce che riguardano me?

– No, riguardano me, ma hanno minacciato di fare del male anche a te se non faccio esattamente quello che vogliono. Per questo ho assunto quell'uomo.

A Nika fu chiaro che non si trattava di quel Vlad che sentiva nominare da anni.

– E posso sapere dove l'hai trovato?

– In un'agenzia di guardie del corpo che mi ha consigliato un amico. Trovandosi in una situazione simile, si è rivolto a loro per farsi proteggere. Sono uomini preparati, si può stare tranquilli.

– D'accordo. Immagino che tu non voglia parlarmi dei problemi che ti affliggono, ma non sono più una ragazzina e mi preoccupo per te.

– Lo capisco, ma non sono cose di cui parlare al telefono.

– Certo. Posso tornare a casa per un paio di giorni, così ne parliamo faccia a faccia.

– No. Resta dove sei e non temere. Sto facendo tutto il necessario.

– Non ne dubito, ma io voglio tornare per discuterne con te.

– Niet! – soffiato al telefono con quel tono definitivo che Nika conosceva bene, quello che suo padre usava quando considerava chiusa una discussione, perché la sua decisione era irremovibile.

A Nika non restò che arrendersi.

– Va bene papà, come vuoi. Tienimi informata e saluta la mamma.

Dunque Vlad non era esattamente la persona che le avevano fatto credere, il pilota che accompagnava da alcuni anni suo padre nei voli per affari. Ma non le importava chi fosse in realtà, le importava che non le fosse d'intralcio. E soprattutto non voleva tenerlo informato dei suoi progetti e dei suoi progressi. Lo voleva fuori dai piedi, sia che le minacce fossero autentiche, sia che si trattasse solo di un bluff per tenere in scacco suo padre.

 

            Teodoro e Kirill si stupirono di vedere Ubaldo due sere di seguito. Erano tornati da poco nell'abitazione in cui coabitavano. Kirill fece entrare Ubaldo e poco dopo Teodoro uscì dalla doccia, presentandosi in accappatoio, richiamato dalla sua voce. Mentre si asciugava i capelli con una salvietta, gli domandò:

– Che ci fai da queste parti? Già ti manchiamo?

– Ho un progetto. Ho conosciuto una donna, oggi.

– Lo sapevo che prima o poi avresti scoperto il potere dell'amore sensuale – disse Kirill.

– Ma no. È russa e si occupa di fisica, meccanica ondulatoria e cimatica.

– Allora vorresti presentarla a me? Lo sai che sono impegnato con Nadia.

– Ma no, ma no, lasciatemi finire.

– D'accordo. Ti ascoltiamo.

– Questa donna conosce il Cronovisore. È venuta a Roma allo scopo di trovarlo e rimetterlo in funzione.

– Allora è una spia russa. Attenzione! Che cosa le hai rivelato? Niente di compromettente, spero.

– Ma no, è un'archeologa che...

– Avevi detto che si occupa di fisica – lo interruppe Kirill.

– Un momento. Si chiama Nika Zakharova, per caso? – s'intromise Teodoro.

– Sì, è proprio lei. Ma come fai a conoscerla?

– In effetti, la conosciamo entrambi. L'abbiamo incontrata allo stesso convegno dove ci siamo conosciuti noi. Ti ricordi che tempo fa ti abbiamo detto di aver già sentito parlare di un congegno audiovisivo temporale? Ce ne parlò proprio lei, in quell'occasione. Trovava che la nostra ricerca avesse delle notevoli attinenze con quello strumento di cui stava cercando le tracce.

– Bene, allora non pensate che sia una spia russa?

– Non scherziamo. La caratura del personaggio esige il massimo rispetto. Nel campo dell'archeologia ha fatto scoperte incredibili. Roba da riscrivere i libri di Storia. Naturalmente viene osteggiata da tutto l'apparato accademico mondiale. Sai come funziona, pur di mantenere le poltrone e lo status quo, non si fanno scrupolo di farla passare per una svitata.

Ubaldo non se ne stupì, dopo aver visto sotto il suo turbante.

– Hanno gioco facile, immagino. Il suo aspetto non è esattamente quello che si addice a una seria studiosa mummificata. È strano che anch'io non l'abbia notata a quel convegno. Ma come mai tu segui i suoi lavori?

– Mi piace. Mi distrae. In fondo non si vive di sola fisica.

– Giusto, Teodoro, ma abbiamo interrotto Ubaldo sul più bello. Di quale progetto ci volevi parlare?

– Di un lavoro di squadra per ricostruire il Cronovisore. Noi e Nika, tutti insieme.

– Ma come? Hai sempre detto di non poter far entrare nessuno nella tua Sezione!

– È vero, non posso portare dentro nessuno, ma potrei sempre portare fuori qualcosa.

– Stai scherzando? Se qualcuno dovesse anche solo sospettare che tu possa fare una cosa simile, ti impalerebbero come ai tempi dell'Inquisizione.

– Lo so, ma che rischio c'è, in fondo? Sono io che ho il compito di controllare gli altri dipendenti. Nessuno controlla me, tranne i gendarmi della Sala Controllo, e lì ho un amico. Porterei fuori un pezzo alla volta e solo quando c'è lui in servizio. Porto sempre una borsa con me e tutti sono abituati a vederla. Invece i componenti troppo voluminosi potremmo ricostruirli fuori, prendendo le misure esatte. Il mio amico non farà caso a me e mai e poi mai dubiterebbe che io trasporti fuori qualcosa.

– Rubare, si chiama così, Ubaldo – disse Teodoro.

– Sì, meglio usare i termini esatti – aggiunse Kirill.

– Vi sento entusiasti. Grazie, amici miei.

– Senti, Ubaldo, ti rendi conto che è una follia?

– Follia è tenere sotto chiave e fatto a pezzi un congegno straordinario, frutto dell'ingegno e della genialità di uno scienziato che l'umanità non si meritava. Ma quell'uomo è nato, è vissuto e ha ottenuto questo risultato fantastico, ricevendone in cambio solo critiche immeritate, denigrazione, umiliazioni, sbeffeggiamenti. Voglio rivalutarlo agli occhi del mondo. Pur di far sparire il Cronovisore dalla mente di quei pochi che ne erano venuti a conoscenza, non si sono fermati nemmeno davanti alla distruzione morale di un uomo di gran valore. Gli era stato ordinato di tacere e lui ha obbedito, ma ha subito un'atroce ingiustizia. Il mondo deve sapere.

– Il mondo sarebbe meglio lasciarlo all'oscuro, non credi?

– Voglio vederlo in funzione, allora, va bene? Voglio vedere quello che ha visto Ernetti.

– Cioè il vero volto di Yeshua?

– Quella è la prima cosa.

– E Nika Zakharova che cosa vuole vedere?

– Lei è fermamente decisa a vedere gli eventi storici che non sono narrati dalle cronache. Lei li chiama gli anelli mancanti della storia. E a voi non servirebbe sapere dove e quando spostare la materia con il Timeshift?

– Quando per materia intenderemo un essere umano? Certo, sì, ma questo accadrà tra due o tre generazioni. Non siamo così avanti.

– Sì, è una soluzione del futuro, nel senso che probabilmente non avrà mai un presente – commentò Kirill, con ironia.

– Invece io sono convinto che ci riuscirete e allora uno strumento simile vi sarà assolutamente necessario.

– Fondamentale, direi.

– Allora, mi aiutate o no?

Teodoro e Kirill si guardarono, indecisi, poi guardarono Ubaldo.

– Siamo troppo impegnati con il nostro progetto per avere il tempo di imbarcarci anche nel tuo – disse Kirill.

– È la vostra ultima parola?

– Se avrai bisogno di una consulenza, ogni tanto, sai dove trovarci – disse Teodoro, al quale sarebbe piaciuto invece partecipare.

– Grazie, Teodoro.

 

            Nika non dovette aspettare molto per avere una risposta da Ubaldo. Già la mattina seguente apparve sul suo cellulare il messaggio in cui le confermava l'avvio del progetto. Le dava appuntamento al bar Moretto in via di Porta Angelica, alle 17,00 di quel pomeriggio.

Mentre l'accompagnava alla Porta Sant'Anna, Nika riferì a Vlad che non aveva bisogno di lui per tornare a casa. Vlad aggrottò la fronte.

– Qualunque cosa tu voglia fare, io posso accompagnarti.

– Voglio stare da sola, Vlad. Ti dispiace? Non c'è bisogno che tu mi stia sempre alle costole. Voglio fare una passeggiata all'interno della Città, che non ho ancora visto. Quando avrò finito, farò una passeggiata sul Lungotevere fino a casa.

– Tuo padre mi ha dato ordini precisi. Devo proteggerti giorno e notte. Mi dispiace se ti senti oppressa dalla mia presenza, ma è necessaria per la tua sicurezza.

– Non oggi. Non voglio che mi passi a prendere, sono stata chiara?

Vlad si voltò a guardare la sua espressione risoluta. Ma anche lui era ostinato. Non poteva permettersi di lasciarla libera. Si limitò a tacere.

Fermandosi davanti Porta Sant'Anna, Vlad le augurò una buona giornata. Nika scese dalla macchina senza rispondergli e non si voltò a guardarlo ripartire. Cominciava a odiarlo. E non credeva minimamente che i criminali che stavano ricattando suo padre potessero spingersi fino a lei.

Alla ricerca del volume da leggere, Nika constatò l'assenza del manoscritto 11/11, segno che Ubaldo era già all'opera. In quel settore non trovò più nulla d'interessante. Si domandò se a lui fosse permesso fotocopiare il testo. Gliel'avrebbe domandato. Era importante averlo sottomano una volta che si fossero organizzati, anche per applicare certe intuizioni ad apparati più tecnologici, trasformazione che avrebbe reso il Cronovisore ancora più efficiente. Ma questa era un'idea che avrebbe discusso con Ubaldo.

            Nel suo studio al piano sotterraneo, Ubaldo aveva iniziato a leggere il manoscritto e a studiarne i disegni, concordando con Nika che doveva trattarsi esattamente dei progetti per la costruzione dell'apparecchiatura che aveva davanti agli occhi, in parte rimontata e in parte ancora in pezzi da assemblare. Scoprì che una sezione della macchina era stata correttamente montata, mentre un'altra non aveva alcun senso. Ma ormai non aveva più importanza. Avrebbe di nuovo smontato tutto e trasferito le parti in un luogo ancora da decidere. A metà mattina andò al bar, passando davanti alla Sala di Consultazione per accertarsi della presenza di Nika. Quando vide il suo turbante svettare alla solita scrivania, provò una sensazione di vago piacere. Era contento di sapere che c'era. Andò a fumare una sigaretta nel cortile grande e poi tornò al lavoro, iniziando a smontare i componenti dell'apparecchiatura. Poco dopo il cambio turno in Sala di Controllo, andò a salutare Ludovico. Era sempre impegnato a fissare i suoi monitor, ma quel giorno non aveva le orecchie strette nella morsa degli auricolari. Dopo aver fatto due chiacchiere, Ubaldo gli comunicò che aveva scambiato due parole con la straniera dal turbante.

– Anch'io mi sono informato, è un'archeologa russa di dubbia fama. Non capisco come abbia fatto a ottenere l'autorizzazione.

– Per fortuna qui si valutano gli studiosi in base alle competenze e non ai pettegolezzi.

– Quindi a te ha fatto una buona impressione.

– Assolutamente.

– Allora smetterò di preoccuparmi.

– Di che cosa ti preoccupavi? Che potesse sconvolgere l'ordine dei volumi in Biblioteca?

– Sai, non si sa mai con i portatori sani di follia. Ti ricordi quel professore norvegese che si mise a piegare le pagine di un atlante di non so quale secolo?

– Ah, ma era ubriaco.

– Appunto, ci sono troppe variabili da considerare e troppe cose che potrebbero andare storte. E non vorrei che accadessero quando sono in servizio io.

– Rilassati, Ludovico. Quella donna ha la testa a posto.

– La testa magari no, visto che la nasconde sotto quel cappello, ma è probabile che in quel modo protegga il suo prezioso cervello dai pericolosi influssi esterni della barbarie incombente.

Ubaldo scoppiò a ridere. Avevano parlato spesso dell'impressione di vivere in un mondo in decomposizione, di una nuova era barbarica che stava spazzando via tutti i valori della cultura precedente, senza offrirne di nuovi. Su quell'argomento si capivano al volo.

Ludovico lo salutò con una mano, senza voltarsi.

 

            Nika scoprì il polso quel tanto che le consentisse di guardare l'orologio, poi chiuse il pesante tomo che stava consultando. Dal movimento intorno a lei aveva già capito che si era fatto tardi. La Biblioteca Vaticana stava per chiudere. Sollevò lo sguardo all'alto soffitto affrescato, beandosi per un momento di tanta bellezza, controllò che il turbante fosse a posto e si alzò, accogliendo il volume tra le sue braccia come fosse un cucciolo, per riconsegnarlo prima di uscire dalla Sala di Consultazione. Raggiunta la portineria, svuotò l'armadietto dove aveva dovuto lasciare in deposito la sua borsa, quindi passò la tessera all'addetto per registrare l'uscita. Appena fuori, si accese una sigaretta, poi si guardò intorno e si diresse verso la via di Porta Angelica, a passo misurato. Molti la guardavano con curiosità. Non le era mai importato di passare inosservata, anzi, c'era molto esibizionismo nella sua ostentazione dei tatuaggi che le ricoprivano il corpo. Ma in quel momento e in quel luogo, per l'attività che stava per intraprendere, occorreva mantenere un profilo basso, diventare invisibile, trasformarsi in un fantasma. Forse sarebbe bastata una parrucca, ma non bionda. Non vedeva molte bionde in circolazione. Se ne sarebbe procurata una castana, di lunghezza sufficiente a coprirle il tatuaggio sul collo. E avrebbe adottato un abbigliamento casual, neutro, con quei colori smorti che tanto andavano di moda, grigio, tortora, beige, nero: di che deprimersi nel giro di pochi giorni, ma sarebbe stato utile per confondersi in quello svilente anonimato.

Ubaldo la stava già aspettando davanti al bar Moretto. Presero un caffè e poi uscirono accendendosi una sigaretta.

– Facciamo una passeggiata? – propose Ubaldo.

– Sì, meglio. Allontaniamoci da questa zona.

– Ti volevo parlare proprio di questo. Sarebbe più prudente non farci vedere insieme. Per i prossimi incontri dovremmo scegliere luoghi più lontani e appartati. Non mi fraintendere, però. Non ti sto facendo proposte oscene.

Nika reagì pensando che quelli che esordivano così, di solito poi le saltavano addosso. Non subito, ma prima o poi ci provavano.

– Bisogna trovare subito un locale per il nostro progetto.

– A questo proposito ho una notizia buona e due cattive. Poco fa i miei amici mi hanno informato di averne trovato uno adatto, proprio alle spalle del laboratorio dove lavorano.

– Magnifico! E dov'è?

– Beh, questa è una delle notizie cattive: si trova alla periferia della città, vicino al raccordo anulare.

– Che in termini di tempo si traduce in?

– Almeno tre quarti d'ora da qui.

– Cazzo! – sussurrò a denti stretti.

– Come?

– Niente. Non farci caso. D'accordo, per me va bene.

– Anche per me.

– E l'altra notizia cattiva?

– I miei amici sono disponibili per qualche consulenza, ma non hanno tempo per impegnarsi nel nostro progetto.

– Non è proprio cattiva, diciamo una via di mezzo.

– Già. Vedremo. Oggi ho consultato il manoscritto 11/11. Avevi ragione tu. Non so chi l'abbia scritto, ma è sicuramente il progetto del Cronovisore.

Nika notò che un passante si era voltato a guardarli.

– Sai Ubaldo, credo sia meglio che gli troviamo un nome diverso per definirlo quando siamo in pubblico.

– Chi vuoi che ci faccia caso?

– Non si sa mai. Usare parole poco note può incuriosire. Ma se senti frullatore o lavatrice, o semplicemente macchina, nessuno lo nota.

– Va bene, faremo come dici tu. Macchina va bene?

– Benissimo. Quando si può vedere questo locale?

– Lo chiederò ai ragazzi.

– Puoi farlo subito? Ci saranno sicuramente dei tempi burocratici per ottenere la locazione. E sono tempi morti. Prima lo facciamo e prima iniziamo a lavorare.

Ubaldo sorrise, avvertendo nell'incitazione di Nika la stessa sua impazienza. Afferrò il cellulare che aveva in tasca e chiamò Teodoro, il quale rispose solo dopo il terzo tentativo.

Nika ascoltò la conversazione, concedendosi il piacere di uno sguardo oltre il parapetto del Ponte Sant'Angelo. L'acqua scorreva tranquilla, leopardata nei toni del giallo ocra, del marrone fango e del verde petrolio. In lontananza s'intravedeva la cupola di San Pietro, nascosta in parte dagli alberi e in parte da antiche rovine.

– Possiamo andare subito – disse Ubaldo – ma dobbiamo tornare indietro per prendere l'autobus.

– No, prendiamo un taxi.

– Ma ci costerà un patrimonio!

– Ci penso io. Penserò io a tutte le spese che dovremo sostenere. Non devi preoccuparti del versante economico.

– Questa è un'ottima notizia. Ma dobbiamo tornare indietro lo stesso.

Nika rise, lasciando il parapetto a malincuore. Castel Sant'Angelo avrebbe dovuto aspettare. Tornando sui loro passi, a Nika parve d'intravedere la figura massiccia di Vlad, con la sua giacca di pelle nera, che si confondeva dietro una piccola folla ferma all'inizio del ponte. Cercò di aguzzare la vista, ma non lo vide più, convincendosi che quell'impressione fosse dovuta al ricordo della conversazione avuta con lui quel mattino.

Sul Lungotevere presero un taxi. Nika estrasse il tablet dalla borsa per seguire su Google Maps il percorso fino alla IRN. Avere un'idea della sua posizione nello spazio la faceva sentire più a proprio agio, dal momento che il senso dell'orientamento non figurava tra le sue doti.

– Ho già iniziato a smontare la macchina – le disse Ubaldo.

– Molto bene. Quanto ti ci vorrà per finire?

– Penso che bastino un paio di giorni, ma ci vorrà molto di più per trasferire all'esterno i componenti.

– Non vedo l'ora di cominciare.

– Non dirlo a me, è più di un anno che ci provo e stavo quasi per rinunciare. Certo, se avessi scovato io quel manoscritto, forse oggi sarei a buon punto. Ma toglimi una curiosità, come hai fatto a trovarlo?

– Mi ha attirato la sua sottigliezza. Sembrava volesse nascondersi. Io sono portata per natura a trovare le cose che si vogliono nascondere. È questo che mi ha portato fino a qui.

– Teodoro mi ha detto che segue i tuoi studi. Dice che hai fatto scoperte notevoli.

– Teodoro è il tuo amico fisico?

– Sì, lui e Kirill.

– Kirill? Kirill Teffi, per caso?

– Esatto. Li hai conosciuti.

– Ma sì, mi ricordo perfettamente. Eravamo a un convegno dove hanno presentato il Computer Quantistico di Chuang e Gottesman. E in quell'occasione mi hanno parlato del progetto Timeshift.

– Se lo ricordano anche loro. E a quel convegno c'ero anch'io.

– Peccato non esserci incontrati quella volta.

– Già, ma dimmi, quali scoperte hai fatto di recente?

Nika lo fissò per un attimo, cercando di valutare se quello che stava per dirgli avrebbe potuto turbarlo. Propendendo per una risposta positiva, decise di parlargli d'altro, andando a pescare nella memoria un lavoro precedente.

– Ho collaborato a un progetto sulla collina sacra di Visoko, in Bosnia. C'era un grande affollamento, da quelle parti. Ben cinque istituti indipendenti stavano facendo ricerche nella zona, contemporaneamente.

– Non la conosco.

– È quella che chiamano fantasiosamente la Piramide del Sole.

– Ah, sì, ne ho sentito parlare. Beh, ormai è noto che ci sono piramidi ovunque nel mondo.

– Sì, ma questa è una collina naturale, modificata dall'uomo. Si sono trovati reperti databili a 24.800 anni fa, e possiede alcune caratteristiche incredibili, che hanno fatto chiudere a riccio la comunità degli archeologi convenzionali. Prima di tutto contestano l'età dei ritrovamenti, anche se ormai gli studi effettuati sui materiali da diversi team indipendenti ne attestano l'esattezza. E poi sono scettici sull'emissione anomala di un fascio di onde elettromagnetiche che si misura proprio in cima, con una frequenza costante attorno ai 28.300 Hz. A dire il vero sono presenti anche emissioni di ultrasuoni, infrasuoni e bassissime frequenze. Io sono andata lì a collaborare con il team che ha eseguito le misurazioni. Le nostre apparecchiature l'hanno dimostrato, e i dati sono stati analizzati da tre istituti indipendenti.

– E a che cosa potevano servire?

– Io invece mi sono chiesta che cosa li producesse e soprattutto chi avesse potuto fare una cosa del genere 24.800 anni fa.

– Beh, anche.

– Quello che si è scoperto è che il segnale ha origine a 2440 metri di profondità, ma non esattamente sulla perpendicolare dell'apice, è spostato di 410 metri in direzione 248° Ovest, ed è prodotto da una piastra di metallo in forma di parabola con un diametro di 800 metri, costruito forse in ferro, o argento, o addirittura oro, questo non si sa. La potenza del segnale è più di 10 kW, come una potente stazione televisiva. La direttrice del segnale fa in modo che si concentri esattamente nel vertice virtuale della collina e di lì poi si allarghi in forma di cono. Una cosa stranissima.

– Molto interessante, ma lo scopo?

– Chi lo può dire? Ognuno può darsi le sue spiegazioni viaggiando di fantasia. L'unica cosa certa è che si misura un segnale simile anche sul Monte Rtanj, in Serbia. Ma scommetto che si potrebbe ritrovarlo su altre montagne sacre del pianeta. Vorrei avere il tempo di scoprirlo. E la sai la cosa davvero più strana? I segnali radio a 28.300 Hz sono quelli che vengono usati dai militari russi, ma anche americani, per comunicare con i loro sommergibili.

– Devo ammettere che è un campo di studi molto interessante.

– In questo mondo le cose più interessanti finiscono per essere sempre segreti militari, lo sapevi?

– Già. E tu lo sai che esiste una pistola a infrasuoni che provoca ictus ai bersagli colpiti?

– Come fai a saperlo? Dovrebbe essere un segreto militare – disse Nika, mettendosi a ridere. – In realtà può causare anche attacchi cardiaci. Non so qui da voi, ma da noi a volte qualche testimone di processi imbarazzanti muore prima di arrivare in tribunale. Credo che fare il testimone faccia male al cuore.

– Anche qui da noi se ne sentono di tutti i colori. Lasciamo perdere.

– Ma sì, meglio così. Occupiamoci di cose più importanti, come la nostra macchina. 

            La IRN si trovava in via Cineto Romano. Era una struttura antisismica a un solo piano, in mattoni gialli con le tapparelle verdi, come pure la cancellata, il cui ingresso era controllato da una telecamera. All'interno dello stesso complesso esistevano altre strutture simili che venivano affittate. Gli spazi del parcheggio interno avrebbero consentito il movimento di tir, ma erano sovradimensionati rispetto all'uso che se ne faceva. Era là che Teodoro e Kirill avevano trovato un locale sfitto, di dimensioni più ampie rispetto alle loro esigenze, ma perfetto come posizione, proprio alle spalle della IRN. Questa vicinanza avrebbe consentito loro di collaborare al progetto di Ubaldo, quando se ne fosse presentata la necessità, senza sprecare tempo in lunghi spostamenti.

Arrivarono in perfetto orario per l'appuntamento che avevano fissato con i due amici di Ubaldo. Il taxi si fermò davanti al cancello. Nika chiese all'autista di aspettare, assicurandogli che sarebbero stati di ritorno in breve tempo. Poi le voci di Kirill e Teodoro attirarono la sua attenzione.

Ubaldo osservò Kirill avvolgere Nika in un abbraccio da orso, con grandi pacche delle sue manone pelose, come fosse una vecchia amica che non vedeva da tempo, chiamandola "sorella del mio paese". Teodoro invece le strinse semplicemente la mano, frenato da una sorta di improvvisa timidezza.

Tutti insieme raggiunsero la costruzione dove avrebbero potuto stabilire il loro laboratorio. Sulla porta d'ingresso era appeso il cartello affittasi con i numeri di telefono e il nome dell'agenzia. Nika lo fotografò con il suo cellulare.

– Nika, vieni di qua.

Nika si avvicinò a Teodoro e, imitandolo, avvicinò il naso al vetro. C'era una tapparella sollevata a metà da cui si riusciva a spiare all'interno. Il locale open space era molto vasto, sorretto da una serie di colonne, senza muri divisori. Chiunque decidesse di occuparlo avrebbe potuto dividere lo spazio secondo le proprie esigenze. Nika e Teodoro staccarono dal vetro le mani con cui si erano fatti scudo dalla luce radente del tramonto, per evitarne il riflesso.

– Va benissimo, ma doterei le finestre di vetri smerigliati in modo che dall'esterno non si possa vedere cosa facciamo.

– Perfettamente d'accordo – si affrettò a dire Teodoro, battendo sul tempo Ubaldo, che assentì col capo.

– Allora penserò io ad affittare il locale e a trovare un'impresa per i lavori. Farò anche installare un sistema di sicurezza.

– Mi pare giusto – disse Kirill.

– Ci vorranno mesi – commentò Ubaldo, sospirando.

– Non credo proprio. Tu tieniti pronto.

– Io sono pronto da una vita.

– Lo so, Ubaldo, ma questa è la volta buona.

Tornando in strada, si accorsero che il taxi era sparito, senza farsi pagare la corsa. Nika guardò Ubaldo.

– Ma che modi sono?

– Non guardarmi così. Non è colpa mia.

– Beh, ragazzi, ci potreste dare un passaggio?

– Noi siamo venuti in moto, mi dispiace.

– Allora chiameremo un altro taxi.

In quel momento, come materializzatasi dal nulla, si fermò davanti a loro un'Audi A4 nera.

– Vlad?! – disse Nika, stupita.

Tutti guardarono il finestrino abbassarsi lentamente. L'uomo seduto al volante li salutò con la mano.

– Vlad!

– Dove vi accompagno?

– Vlad, che ci fai qui?

– Il mio lavoro. Su, salite.

– Come hai fatto a trovarmi?

– Segreti del mestiere. Allora, chi ha bisogno di un passaggio?

Ubaldo guardò Nika, come a chiederle il permesso, poi aprì la portiera posteriore, salendo a bordo. Nika salutò i ragazzi e occupò il sedile accanto a Vlad. L'auto partì silenziosamente, sul tappeto di aghi di pino che coprivano la strada dissestata dalle loro nodose radici, seguita dallo sguardo perplesso di Teodoro e Kirill.

– Ti avevo chiesto di lasciarmi in pace.

– Non posso, mi dispiace. E ti pregherei di parlarne in privato.

– Io non ne voglio parlare, voglio solo che tu smetta di seguirmi.

– Va bene – tagliò corto Vlad.

Nika era arrabbiatissima, con Vlad, con suo padre, con i delinquenti che lo stavano minacciando, con il mondo intero. Si sfilò il turbante e lo lanciò sul sedile posteriore, schivando per un pelo la faccia di Ubaldo, poi emise una specie di ruggito.

Attraverso lo specchietto retrovisore, Ubaldo osservò bene una parte del viso di Vlad. Aveva uno sguardo sereno, con un'espressione da martire. Restò in silenzio per tutta la strada, finché non arrivarono sul Lungotevere. Là, arrivati vicino al suo domicilio, ritrovò la voce per ricordare la sua presenza.

– Per favore, potete farmi scendere qui?

Vlad mise la freccia e accostò.

– Buona serata, signori, e grazie per il passaggio.

– Ci sentiamo, Ubaldo.

Vlad non fiatò. Ubaldo scese e richiuse la portiera, salendo sul marciapiede, dove per qualche istante rimase fermo a guardare l'auto che si allontanava.

 

            La cucina era molto grande. La parete a vetri affacciava direttamente sul giardino. Era una serata magnifica, con il cielo nitido e l'odore intenso dei fiori che sbocciavano di notte. Nika non sapeva come si chiamassero quei fiori, ma li adorava. Beveva il suo kvas direttamente dalla bottiglia, seduta a gambe incrociate su un'ampia poltrona da giardino e intanto ripensava al senso di frustrazione e di stizza che l'aveva colta quando Vlad era apparso davanti alla IRN. Proprio in quel momento, Vlad entrò in cucina a prendersi una birra e Nika sentì il rumore del tappo che saltava dalla bottiglia. Aspettò di capire se sarebbe tornato indietro o se l'avrebbe raggiunta in giardino. Quando sentì i suoi passi avvicinarsi, s'irrigidì.

Vlad, che snobbava la poltrona accanto alla sua, aveva afferrato uno sgabello in cucina e con quello apparve nel suo campo visivo. Si sedette davanti a lei, all'altro capo del tavolino, posando la bottiglia dopo averne bevuto un sorso. Poi la fissò per qualche istante, prima di parlare.

– Vuoi qualche spiegazione?

– Ti sei deciso a darmene qualcuna?

– Una persona curiosa come te, non può accettare una situazione fastidiosa se non ne capisce il motivo e la natura, e soprattutto se non l'accetta consapevolmente. È così?

– Non ti facevo tanto perspicace – disse Nika, calcando il tono ironico.

– Vedi, Nika, tuo padre era convinto che nasconderti la verità potesse lasciarti libera di fare quello che volevi senza preoccupazioni. Aveva assegnato a me il compito di preoccuparmi. Ma a quanto pare ti conosce poco, non sa quanto sei testarda e cocciuta.

– Testarda e cocciuta sono sinonimi.

– Per non dire pignola.

– Hai chiarito a sufficienza. Vai avanti.

– Il pericolo che corri è reale. Temiamo che la banda criminale che ha preso di mira tuo padre abbia ramificazioni e complici in molti paesi occidentali. Finché non si sarà chiarita la situazione, cioè finché non sarà stata spazzata via la banda, tu sarai in pericolo e io devo essere la tua ombra.

– Che cosa vogliono da mio padre?

– Di preciso non lo so, ma credo sia una storia di segreti industriali.

– E chi sono?

– Se lo sapessimo con certezza sarebbero già spariti.

– Immagino. Ma se non sai chi sono, come fai a riconoscerli? E se non li riconosci, come puoi proteggermi?

– Sono addestrato ad analizzare i possibili pericoli molto velocemente. E inoltre non sono solo.

– Che vuoi dire?

– Se mi servono informazioni, posso averle in tempo reale.

– Per esempio, se frequento qualcuno, tu ti informi per sapere chi è?

– Esatto.

– Questo dovrebbe farmi stare tranquilla?

– Direi di sì.

– Sei una specie di agente del FSB?

– Sì, una specie.

– È tuo il pitone?

Vlad sorrise dentro di sé. Nika aveva capito anche quello.

– Faceva parte della copertura: avrei dovuto impersonare Vlad Petukhov, però mi ci sono affezionato, quindi adesso è mio.

– E tu invece chi sei?

– Continua a chiamarmi Vlad. Va bene così.

– Il pitone di Vlad si chiama Sputnik.

– Peggio per lui.

Nika scoppiò a ridere.

– Non voglio sapere cosa combini con i tuoi amici, ma io devo tenerti d'occhio, quindi sarò sempre a poca distanza da te. Spero che questo possa avvenire con il tuo consenso.

Nika sospirò.

– Non mi piace, ma cercherò di sopportarlo.

– Bene – disse Vlad, finendo di scolarsi la bottiglia.

– Ma stai lontano dal mio computer.

– L'ho acceso solo una volta, per essere sicuro che qualcuno non lo controllasse da remoto.

– E ha superato l'esame?

– Sì, è pulito.

Nika guardò la sua faccia immobile, quasi priva di espressione. Forse era allenato a non mostrarne. Ma anche quella sembrava una copertura.

– Che ci facevi in quella zona industriale, se posso chiederlo?

–Voglio affittare una piccola struttura in quel complesso. Pensi che sia un posto sicuro?

– Te lo farò sapere domani mattina.

– Grazie. Aspetterò il tuo nulla osta prima di chiamare l'agenzia.

– Sei una ragazza molto ragionevole, in fondo. Buonanotte.

Vlad si alzò, afferrò lo sgabello e lo riportò in cucina, ritirandosi nelle sue stanze.

Nika se lo immaginò davanti allo schermo a guardare un documentario del National Geographic. Era l'unica cosa che Vlad guardava in tv, preferibilmente se mostrava animali selvatici nel loro ambiente naturale. Ma in realtà Vlad continuò a osservarla dalla sua finestra, finché Nika non rientrò in casa. Poi controllò di nuovo tutti gli allarmi e solo quando fu sicuro che fosse tutto a posto, se ne andò a dormire.

 

 

            Ubaldo arrivò per primo davanti ai cancelli di via Cineto Romano. Aveva con sé un borsone da palestra, contenente i primi componenti della macchina. Poco dopo, l'Audi nera di Nika si fermò a pochi passi da lui. La donna, in jeans stracciati e maglietta arcobaleno, scese dall'auto sventolando allegramente un mazzo di chiavi. Aveva i capelli lunghi, castani, che le ondeggiavano intorno al viso in modo sbarazzino. Nika aveva indossato per la prima volta la parrucca che doveva conferirle un aspetto più anonimo, ma Ubaldo non fece alcun commento in proposito.

Dopo aver parcheggiato, Vlad scese dall'auto e si avvicinò a loro, pur restando a una certa distanza.

– Beh, che ne dici di entrare?

– Poi mi spiegherai come sei riuscita a far completare tutti i lavori in due settimane.

– La tua ingenuità mi commuove. Come vuoi che abbia fatto? Pagando.

– Già, che stupido. Non ci avevo pensato.

– Ho fatto anche portare un armadio blindato, come mi hai chiesto.

– Grazie. Sapere che i disegni e i progetti resteranno al sicuro mi fa respirare meglio.

Il fatto che presto avrebbero trasferito tutti i dati sui computer non sembrava gli fosse venuto in mente. Nika si astenne dal ricordarglielo.

Dal portone della IRN uscirono Teodoro e Kirill, che li raggiunsero a passo veloce.

– Buongiorno a tutti! Si comincia – disse Nika, usando le chiavi per entrare.

Vlad rimase fuori, di fianco alla porta dove era stata fissata una targa di ottone con la scritta 11/11. Il locale d'ingresso era profondo un paio di metri e largo quanto l'intera struttura, che era stata divisa in due parti, una blindata, l'altra libera, adattabile a soggiorno e dormitorio, in caso di bisogno. Sulla destra c'era la porta blindata che introduceva al laboratorio, e accanto a questa era stata aggiunta un'apparecchiatura per il riconoscimento della retina. Nika s'impegnò nella registrazione dei dati che avrebbero permesso ai suoi tre compagni di entrare a loro piacimento. Una volta completata l'operazione, passarono alle prove pratiche. Quindi, Nika distribuì le chiavi del portone. Kirill ridacchiò.

– Chiavi? Mi sembra un sistema alquanto antiquato. Mi stupisco di te, Nika.

– Dimentichi che sono un'archeologa. Sono affezionata alle vecchie cose.

Teodoro si aggirò tra le scrivanie, osservando i computer e le attrezzature fatte istallare da Nika, tanto per cominciare.

– Mi sembra che ci sia più del minimo indispensabile – commentò.

– Potremo procurarci il necessario man mano che il lavoro lo richieda.

Su un grande bancone centrale Ubaldo svuotò con cura la sua borsa.

– Quanti viaggi pensi di dover fare? – gli domandò Kirill.

– Molti. Non ho quantificato.

Nika mostrò la stampante 3D che si era procurata.

– Con questa ricostruiremo anche i componenti più grandi e tutto ciò di cui avremo bisogno. Basterà che Ubaldo li fotografi da ogni parte, misurandoli con precisione. I componenti più piccoli li copieremo e poi Ubaldo li potrà riportare al loro posto. Avete studiato il manoscritto 11/11?

Ubaldo ne aveva procurato le fotocopie per tutti.

– Sì, ma non è di grandissimo aiuto. Mancano proprio i dati più essenziali.

– Lo so, ma una volta montata la macchina faremo le prove su ogni campo dello spettro. Se ci sono riusciti loro, ce la faremo anche noi.

Nika si voltò a osservare Ubaldo.

– Sei più silenzioso del solito.

– Sono emozionato. Aspetto questo momento da una vita. Dobbiamo festeggiare!

– Hai ragione. Stasera vi porto tutti a cena in un posto fantastico – disse Nika.

– Dove?

– Alla Casina Valadier.

– Niente di meno! E immagino che tu abbia prenotato per tempo – disse Kirill.

– Di questo non dovete preoccuparvi. Badate piuttosto a presentarvi in giacca e cravatta, sennò ci sbattono fuori.

Kirill mugolò.

– Non sopporto quei postacci.

– La prossima volta scegli tu.

– Sei una dittatrice, ragazza. Questo atteggiamento non va bene.

– Se decido di offrirvi una cena, voglio anche decidere dove portarvi. Vi sembra così sbagliato?

– Lascialo perdere, Nika. Se non gli va, se ne può restare a casa a mangiare surgelati – disse Teodoro.

– Lo preferisco, infatti – concluse Kirill con durezza.

– Come vuoi. Invece noi ci vediamo alla Casina Valadier alle otto. Ubaldo, ti passo a prendere?

– Grazie, mi farebbe comodo.

– Bene, qui abbiamo finito. Ubaldo, se vuoi, puoi riporre i componenti nell'armadio blindato.

Kirill fu il primo a uscire. Aveva un'espressione corrucciata e le sue sopracciglia folte si univano sotto la fronte. Teodoro gli assestò una gomitata, per fargli capire che doveva smetterla, ma lui si allontanò, infastidito.

– Cominciamo bene – disse Teodoro.

– Spero che gli passi presto. Non pensavo proprio di offenderlo invitandolo a cena. Ma credo di capire che cosa ha pensato, che il mio è il classico atteggiamento arrogante di quelli che impongono il loro volere solo perché hanno i soldi.

– Può darsi, ma il suo sembra il capriccio di un ragazzino scemo. E non credo sia tu a farci la figura peggiore.

            Quella sera Kirill andò a ubriacarsi alla Casetta della Madonna dei Monti. Gioele gli portò una bottiglia di Beluga al tavolino dove si era seduto, gliene versò una dose nello shot e stava per tornare all'interno del locale, quando Kirill lo bloccò.

– Lasciala qui.

Gioele si stupì.

– Che intenzione hai, stasera?

– Semplicemente quella di scolarmela tutta, quindi lasciala qui.

– E poi chi ti ci riporta a casa? Dov'è Teodoro?

– Mi hai preso per un ragazzino che ha bisogno di essere accompagnato? Quando ero al mio paese questa mi bastava giusto per iniziare la serata. Vai tranquillo, non c'è bisogno che ti preoccupi per me.

Gioele invece era parecchio preoccupato, tanto che quando il piccolo locale si svuotò, andò fuori a sedersi con lui. C'era rimasto solo un altro cliente, a un tavolino poco lontano, che leggeva un libro in compagnia di un Porto. La Vodka di Kirill era quasi finita.

– Bella serata – disse Gioele, guardandosi intorno.

– Sì, una meraviglia – commentò con sarcasmo.

– Problemi sul lavoro?

– No, non c'è nessun problema.

– Stai bene?

– Benissimo.

– Ubaldo e Teodoro stanno bene?

– Sì, io sto bene, loro stanno bene, stiamo tutti bene, Gioele. Perché non la pianti?

– Scusa, ma siete sempre venuti qui tutti insieme. Mi sembra strano vederti da solo. E poi, di solito, uno che vuole sbronzarsi ha qualche problema. Chiedere è lecito, no? Ma se non ne vuoi parlare, fai come preferisci. Ti capisco.

– Parlare? Ce ne sarebbero di cose da dire, altroché! Per esempio...

Gioele dovette pentirsi di averlo chiesto, perché dopo un'ora era ancora lì a raccogliere le confidenze di Kirill che non smetteva più di parlare. Di solito a quell'ora chiudeva, ma nemmeno l'altro cliente sembrava intenzionato a mollare la sedia e continuava a voltare una pagina dopo l'altra centellinando il suo Porto.

Kirill finì invece la bottiglia e sembrava più sobrio di lui.

– Beh, adesso dovrei chiudere bottega, Kirill. Mi ha fatto piacere parlare con te.

In realtà aveva parlato solo Kirill, ma sono cose che non si dicono a un cliente che è quasi un amico, quando si capisce che aveva bisogno di sfogarsi. Gioele si alzò e iniziò a impilare le sedie e i tavolini. Il cliente con il libro fece sparire il vino e si alzò a sua volta, allontanandosi dopo avergli augurato la buonanotte. Kirill pagò la bottiglia e gli disse:

– Mi raccomando, tu non sai niente. Se Ubaldo e Teodoro venissero a sapere che ti ho parlato di quella storia, mi ucciderebbero.

– Non ti preoccupare, sarò muto come un pesce.

Kirill girò sui tacchi e andò a prendere l'autobus per tornare a casa, mentre Gioele pensava che al giorno d'oggi non c'era da fidarsi nemmeno dei preti. E dire che Ubaldo gli sembrava così una brava persona.

           

            Vlad si stava godendo la veduta notturna di Roma dal Pincio, seduto al bar del primo piano, nella Casina Valadier, quando apparve sul suo cellulare il messaggio che Nika stava per uscire dal ristorante. A malincuore lasciò la sua poltroncina e lo spettacolo delle luci che illuminavano i monumenti della città, quindi scese di sotto a prendere la macchina, parcheggiata in Piazza Bucarest. Poco dopo Nika e i suoi due compagni lo raggiunsero. Vlad ebbe l'impressione che fossero troppo taciturni. O forse tacevano per evitare che lui ascoltasse i loro discorsi. Mise in moto e imboccò deciso la discesa, ma presto fu costretto a infrangere il silenzio dell'abitacolo.

– Dove vi porto? – domandò, con la serietà e il tono professionale di un taxista.

A Nika venne da ridere, ma cercò di mantenere un certo contegno mentre Teodoro in risposta forniva il suo indirizzo. Vlad lo comunicò al navigatore con voce monocorde e continuò a guidare fino al Lungotevere San Paolo e poi, all'altezza dell'Università Roma Tre, imboccò via Libetta, fermandosi davanti a un palazzo di sei piani.

– Grazie del passaggio – disse Teodoro, senza tuttavia decidersi a scendere dal veicolo.

– Vedrai che gli sarà già passata – disse Ubaldo, immaginando il motivo della sua titubanza.

– Sono affari suoi. Ricordatevi che se avete bisogno di una mano io sarò disponibile.

– Grazie, Teodoro. Ti terremo aggiornato.

– È stata davvero una bella serata – disse stringendo una spalla di Nika in segno di saluto, prima di scendere.

Vlad ripartì senza chiedere ulteriori istruzioni. Sapeva già dove lasciare Ubaldo.

 

            Il monitor di destra, puntato sull'ingresso del bar, mostrò il passaggio di padre Ubaldo. Ludovico La Rosa attese di vederlo uscire nel cortile grande dove sapeva che sarebbe andato a fumarsi la sigaretta di metà mattina, quindi lasciò la poltroncina girevole e abbandonò la sua postazione nella Sala di Controllo. Poco dopo gli arrivò alle spalle con passo felpato.

– Stai fumando di meno.

Ubaldo trasalì.

– Mi conti le sigarette, adesso?

– Qualcosa devo pur inventarmi per scacciare la noia.

– Che ci fai qui? Tu non abbandoni mai il tuo posto.

– Solo un minuto. Ci vediamo stasera?

– Va bene. Al solito posto alle nove?

– Aggiudicato.

Ludovico ritornò in fretta alla sua poltroncina. Ubaldo pensò che doveva smettere di sentirsi in colpa davanti a lui. In fondo non stava commettendo un crimine efferato, non stava danneggiando nessuno, stava soltanto sottraendo qualche vecchio componente polveroso, e forse ormai inservibile, a un sotterraneo dov'era abbandonato. Stava facendo un'utile pulizia, come un robivecchi che svuoti una cantina. Un'opera meritoria, dunque. Ubaldo spense la sigaretta schiacciandola sotto la punta della scarpa e ritornò nel suo studio pensando che la sua linea di minor resistenza era diventata un vortice. Chi entra in un vortice non ne esce più. Questa è la pietosa verità. Non c'è nessun'altra forza uguale e contraria che possa contrastarlo. L'unico modo di affrontarlo è cedergli, lasciarsi andare risparmiando energia propria, per utilizzare quella stessa che ti trascina sul suo percorso a spirale. Il suo personale vortice aveva un nome, si chiamava Nika. Ludovico gli aveva detto che dalle sue parti – lui era originario della solare Trinacria – Nika suonava come "piccola". Poteva dunque ritenersi quasi un tenero vezzeggiativo. Il problema era associarlo alla figura della donna in questione. Infiniti aggettivi si potevano adattare a lei, eccetto che piccola. Aveva dimostrato una sicurezza e una determinazione che all'inizio della loro collaborazione, iniziata in fondo soltanto tre settimane prima, gli erano parse inquietanti, ma poi, con l'andar del tempo, anche rassicuranti. Con lei ci si sentiva in buone mani, capaci di sostenerti anche nella più folle delle follie. La sera precedente, seduti a un elegante tavolo della Casina Valadier, avevano discusso del loro progetto, delineandone i passi principali. Teodoro era rimasto affascinato dalla puntigliosità del programma esposto dalla "piccola". Le era bastato leggere il manoscritto 11/11 per aver già chiaro in mente cosa dovevano fare. Non ci sarebbe stato alcun bisogno di portare fuori tutti i componenti, ma le occorreva vedere le basi su cui erano collocate in origine le valvole per capire come ricomporre gli schemi trasferendoli su schede elettroniche a circuito stampato. A questo scopo sarebbe stata utile la stampante 3D che si era procurata. Chip e Wi-Fi avrebbero sostituito i congegni antidiluviani; gli schermi a tubo catodico sarebbero stati sostituiti da monitor al plasma. Come giustamente avevano già sottolineato, non era quello il problema, bensì scoprire su quali frequenze agire. Teodoro era talmente entusiasta del progetto che si era offerto di passare al laboratorio tutte le sere, sia per seguirne i progressi che per dare una mano. Nika aveva stabilito anche il suo compito, che adesso era di fotografare tutto il materiale e portare fuori soltanto le piastre dov'erano collocate in origine valvole e transistor. Dunque non doveva sentirsi in colpa. Li avrebbe restituiti presto ai loro polverosi scaffali, una volta esaurito il loro scopo.

            Alle nove esatte padre Ubaldo si fermò sotto la lastra di marmo incassata nel muro che gli ricordava di trovarsi a Piazza della Rovere. Il traffico era intenso, non solo sulla via, ma anche nel locale Divinpeccato dove sarebbe entrato a momenti. Dalla porta d'ingresso salutò Loretta, che stava spillando boccali di birra dietro il bancone. Lei fece un cenno per fargli capire che si stava liberando un tavolo e Ubaldo la ringraziò con la mano, tornando a guardare nella direzione da cui sarebbe arrivato Ludovico. Poco dopo lo vide infatti sbucare dall'angolo, proprio mentre due clienti uscivano dal locale, risalendo i tre gradini di travertino. Loretta si affrettò al tavolino in fondo alla saletta, che si era appena liberato, lo sgombrò dai bicchieri e lo ripulì con uno strofinaccio, poi tornò dietro il bancone mentre loro si sedevano, ordinando un bicchiere di Aleatico. Ludovico si agitò sulla sedia, guardandosi intorno senza parlare. Ubaldo ebbe l'impressione che fosse preoccupato per qualcosa e che stesse aspettando il momento giusto per confidarsi. Loretta arrivò con i due bicchieri di vino rosso, accompagnati da un piattino di biscotti della casa, tipici romani, una specialità di pastafrolla al semolino. Loretta sapeva che a Ubaldo piacevano molto e glieli serviva ogni volta che li avevano. Ubaldo infatti la ringraziò con entusiasmo, buttandosi sul primo della serata. Ludovico invece iniziò a sorseggiare il vino, osservando Ubaldo in modo strano, come se si stesse interrogando su di lui, finché Ubaldo non cominciò a sentirsi in imbarazzo.

– Sputa il rospo – gli disse infine, fissandolo bene negli occhi.

Ludovico posò il bicchiere sul tavolino e si sporse in avanti, sussurrando:

– Che diavolo stai combinando con la russa e con il tuo amico Teodoro?

Ubaldo sbiancò.

– Che vuoi dire?

– Esattamente quello che ho detto. Che cosa stai combinando e soprattutto che cosa stai trafugando dal tuo buco sotterraneo? Lo sai che avrei già dovuto arrestarti? Lo sai in quali guai ti sei cacciato? Lo sai come mi sento? Possibile che tu, proprio tu, mi stia facendo questo?

Ubaldo subì accuse e domande tentando di aguzzare l'udito in mezzo ai rumori della sala. Ludovico le aveva formulate a voce tanto bassa che temeva di averle fraintese. Come poteva sapere? Non era possibile. Aveva sicuramente capito male.

– Mi dispiace, non riesco a sentirti.

– Ne parliamo fuori.

Ludovico tracannò il resto del vino come fosse coca-cola e andò alla cassa, dove Loretta gli presentò il conto stupita. Qualcosa doveva essere andato storto tra i due amici e siccome entrambi le piacevano molto, gli fece un gran sorriso di consolazione, che cadde nel vuoto senza rompersi. Ludovico stava già salendo le scale per uscire in strada. Le sfuggì il gesto veloce di Ubaldo che si metteva in tasca i restanti biscotti, ma l'osservò finire l'Aleatico con un certo contegno, prima di passare anche lui alla cassa e salutare con evidente imbarazzo. Immaginò che stesse correndo dietro all'amico per chiarire le loro divergenze e fare pace.

In effetti, una volta uscito, Ubaldo vide Ludovico molto più avanti e lo rincorse faticosamente a passo veloce, raggiungendolo solo quando aveva già attraversato la strada e si era seduto su una panchina della grande isola pedonale dove c'era la fermata degli autobus. Accanto alla panchina di marmo, a un metro circa, c'era un ceppo d'albero che avevano abbattuto di recente e che gli sembrò l'emblema di quello che l'aspettava. Ai suoi piedi giacevano alcuni sampietrini divelti dalla pavimentazione, come in attesa di una rivolta popolare. Strani pensieri gli correvano nella testa, ma uno s'impose tra tutti, Ludovico aveva il potere di rovinarlo. Aveva fatto finta di non capire, ma una certezza dentro di lui lo stava ammonendo che aveva capito benissimo e che doveva trovare la lucidità e l'intelligenza per salvarsi. Si sedette sul ceppo e guardò Ludovico.

– Non sto combinando niente di strano. Vogliamo provare a fare un esperimento.

Ludovico gli restituì uno sguardo duro.

– Non me ne frega niente dei tuoi esperimenti. Quello che m'interessa è che non esca più nemmeno uno spillo dal tuo ufficio.

– Al contrario, riporterò tutto dov'era.

– Me lo giuri?

– Te l'assicuro. Rimetterò tutto dove l'ho trovato. Sarà solo un po' meno impolverato. Puoi stare tranquillo.

Ludovico sembrò rilassarsi leggermente.

– Ma adesso devi dirmi come hai fatto ad accorgertene.

Ludovico accennò un diniego col capo.

– Non mi sono accorto di niente, ma destino ha voluto che ieri sera mi trovassi alla Casetta della Madonna dei Monti, quel locale di cui mi hai parlato. Il gestore chiamava per nome un altro cliente, un certo Kirill, e sapendo che quello era il nome di uno dei tuoi amici, mi sono messo ad ascoltare. E sai una cosa? Per quanto si sia vantato di reggere la vodka come fosse acqua, gli ha devastato i freni inibitori, soprattutto quelli della lingua. Vi ha sputtanati tutti, voi e il vostro progetto di ricostruire il Cronovisore.

– Per le brache della Sistina!

– Già. Così ti puoi immaginare come mi sono sentito quando il tuo Kirill ha raccontato al gestore che proprio tu stavi rubando il congegno un pezzo alla volta, sotto il naso di tutti. E soprattutto sotto il mio.

– Volevo dirtelo, credimi, ma siccome in ogni caso avrei riportato tutto indietro, mi è sembrato inutile. Sapevo che ti saresti preoccupato.

– No, non mi sono preoccupato, mi sono chiesto quando avrei dovuto arrestarti, se subito, o dopo che avessi ricostruito il congegno. Già mi sembrava di averti concesso fin troppo, quando ti hanno negato l'autorizzazione a studiare quel vecchio strumento fatto a pezzi e io ho finto di non vedere che te lo portavi nello studio nonostante questo. Mi è costato, ma ho voluto favorirti. Pensavo che fossi un amico. Ho capito che invece ti serviva tenermi buono, per non rischiare che facessi un controllo della tua borsa, come si fa a campione, di tanto in tanto.

– Non è così, lo sai, e se lo pensi davvero sei ingiusto. Quando ho deciso di ricostruire quel congegno, te ne ho parlato francamente. Ricordi?

– Per forza, come avresti potuto senza di me che chiudevo gli occhi davanti ai monitor proprio nel momento in cui passavi per il corridoio con gli scatoloni che ti portavi nello studio?

– Hai ragione, ho approfittato della nostra amicizia, ma questo non significa che quest'amicizia sia falsa. Anzi. Se non fossi stato convinto che la nostra amicizia è vera e profonda, non mi sarei mai azzardato a chiedere la tua complicità. Non mi sarei fidato, altrimenti. E vedi che avevo ragione? Tu non mi hai arrestato, hai preferito parlarmi sinceramente, cosa che un falso amico non avrebbe fatto.

– Mi fai girare la testa con i tuoi ragionamenti. Sei un bastardo!

– Va bene, come vuoi. Adesso decidi come andrà a finire. Mi arresti subito o aspetti che riporti i componenti nel sotterraneo?

– Voglio sapere che cosa pensa di fare la russa con quella macchina una volta che l'avrete ricostruita.

– Vuole soltanto vedere alcune scene del passato, per riscrivere i libri di Storia.

– Soltanto?! E i tuoi amici del Timeshift che cosa vogliono farci?

– Ah, loro niente. Collaboreranno soltanto qualora ce ne fosse bisogno.

– Ma sicuramente vorranno utilizzarla anche loro, ti pare?

– Sì, certo, sarebbe giusto.

– E tu puoi garantire che quello che vedranno non influirà in alcun modo sul nostro presente o magari sul futuro?

– Come potrebbe? Sarebbe come guardare un film. Nient'altro.

– Non ne sarei così sicuro.

Ludovico fece rotolare un sampietrino con la punta della scarpa, poi lo guardò di nuovo.

– E se anch'io volessi vedere qualcosa?

Ubaldo abbandonò il ceppo per sedersi accanto a lui. La panchina era all'ombra di un altro albero ben vivo e vegeto, le cui fronde smorzavano la luce artificiale di un lampione che pioveva da più in alto.

– Ma certo, lo trovo molto giusto. Che cosa vorresti vedere?

– Questo te lo dirò a suo tempo, se davvero avrete successo.

– Beh, tu comincia a pensarci, perché non ho alcun dubbio sulla riuscita dell'esperimento. Nika Zakharova è davvero in gamba.

– Come lo sai?

– Me lo sento.

– Beh, se sei diventato pure un sensitivo, mi sa che non ti riconosco più. Stai cambiando. E non sono sicuro che questo cambiamento mi piaccia.

– Tutti cambiamo continuamente. Per questo la convivenza degli esseri umani è tanto difficile e i rapporti così fragili. Ci vuole pazienza, comprensione e...

– Fiducia. Soprattutto fiducia, e tu l'hai minata.

– Mi dispiace, Ludovico. Non volevo.

Istintivamente, Ubaldo gli appoggiò una mano sulla coscia, sporgendosi verso di lui. Ludovico ne rimase turbato e quel turbamento trasparì nella sua voce.

– Ti credo. Ti voglio credere.

– Ti ringrazio.

 

            Fu con un atteggiamento fatalista che Nika apprese dei pettegolezzi di Kirill che avrebbero potuto compromettere il loro progetto. 

– Però non è accaduto. Fortuna ha voluto che ad ascoltarlo ci fosse proprio il tuo amico. È un segno del destino benevolo che sta accompagnando la nostra impresa.

– Tu sei un'ottimista.

– Sono razionale. Non mi preoccupo mai di quello che avrebbe potuto accadere, ma non è accaduto. Sarebbe uno spreco di energie.

– In fondo hai ragione tu. Però io ho corso un bel rischio.

– No, dal momento che in quel bar non c'era nessun altro ad ascoltare. E se mi dici che Gioele non è un pettegolo, puoi dormire sonni sereni. Piuttosto, da questo momento, eviteremo di tenere al corrente Kirill dei nostri affari, visto che non è capace di tenere la bocca chiusa.

– Devo avvertire anche Teodoro.

– Certamente. Anzi, lo faremo insieme, visto che tra poco sarà qui.

In attesa che arrivasse, Nika caricò nel computer le foto che Ubaldo aveva scattato quel giorno. Per evitare inutili perdite di tempo, aveva fotografato i componenti vicino a una vecchia riga di legno che si era procurato. In questo modo non avevano nemmeno bisogno di annotarne le misure.

– Ottimo lavoro. Sono perfettamente leggibili.

– Posso iniziare a riportare questi reperti archeologici nel loro sito cimiteriale?

– Sì, non ci servono più. Sto ricostruendo virtualmente il congegno, così potremo valutare come trasformarlo con la tecnologia che abbiamo oggi a disposizione.

Ubaldo si fermò alle sue spalle per osservare il monitor.

– Sembra più facile di quello che appariva.

– A quei tempi era tutto più complicato e ingombrante. Ricorda che il primo computer occupava lo spazio di un intero palazzo.

–  Già, in pochi anni abbiamo fatto passi da gigante. Ai tempi di Ernetti facevano le foto in bianco e nero.

– Anche i televisori erano in bianco e nero.

– Ma le immagini che videro erano a colori.

– Come a colori?! Con questi componenti non potevano vedere immagini a colori.

– Sei sicura?

– Sì, sono abbastanza sicura.

– Allora mi ha mentito.

– Sei sicuro di ricordarti bene?

– Mi sembra di sì. Disse che purtroppo aveva fotografato l'immagine in bianco e nero, ma nel video appariva a colori.

– Perché mentirti? Cos'altro ti disse?

– Ricordo di avergli chiesto che tipo di voce avesse.

– Di chi stai parlando?

– Del motivo per cui ho voluto arrivare fino a questo.

– Yeshua?

– Sì. Mi mostrò la foto e io gli domandai che voce avesse. Ernetti mi rispose che aveva una voce normale, ma che sapeva dare ordini, come un militare. Mi sembra che io volessi saperne di più, ma lui smise di parlarmene e cambiò discorso.

– Dove l'aveva captato? In quale luogo?

– Non lo so. Non me ne parlò.

Nika gli sembrò disturbata da questa notizia.

– Sicuramente Ernetti lo cercò a Nazaret – disse Ubaldo.

– Lo escludo.

– Ma è il luogo più ovvio.

– Mi dispiace, Ubaldo, ma non c'è niente di ovvio nelle conoscenze che abbiamo dell'antichità.

– Ma almeno su Gesù di Nazaret qualcosa di certo si sa.

– No. Non si sa. Nazaret non esisteva ai tempi di Yeshua.

– Che stai dicendo?

Ubaldo era completamente spiazzato. Nika sospirò.

– Siediti. Ti racconto perché sono diventata una pecora nera per l'establishment accademico del mio paese e non solo.

Ubbidendole Ubaldo si sedette, intuendo che avrebbe appreso qualcosa che non gli sarebbe stato facile digerire. Intanto la porta del laboratorio si aprì per lasciar entrare Teodoro.

– Salve, gente! Che cosa mi sono perso?

– Ciao, Teodoro. Siediti anche tu. Stavo per raccontare a Ubaldo della mia ultima campagna di scavi.

– Quella di Nazaret?

– La conosci? – si stupì Ubaldo.

– Sì, ho letto tutte le relazioni. Non ti ho detto niente per non turbarti, ma forse c'è un buon motivo per cui Nika ha deciso di metterti al corrente.

– Lo capirò quando mi spiegherete di che cosa si tratta.

– Hai ragione. Arriviamo al dunque. Cercherò di fartela breve, Ubaldo. Studiando i vangeli, non mi quadravano i luoghi in cui si svolgono i fatti riportati. Io c'ero stata e non mi sembrava di riconoscere niente, come se parlassero di altri luoghi. Capisci? Così la mia curiosità mi ha spinto ad approfondire questo mistero.

Nika cercò sul suo iPad un'immagine e quando la trovò, spostò il tablet davanti agli occhi di Ubaldo.

– Seguimi su questa mappa.

Quindi digitò qualcosa sulla tastiera del computer e continuò:

– Ci sarebbero diversi passi che mettono in crisi le tesi accettate, ma questo è quello che mi sembra più evidente. In Luca, 4,16-28/31, si legge: "Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, come solito, di sabato nella Sinagoga e si alzò a leggere... all'udire queste cose, tutti nella Sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte – Nika calcò sul temine monte – sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò. Poi discese a Cafarnao". Ora, qui si parla di una città posta su una montagna, dunque come può riferirsi a Nazaret, che è pianeggiante e oltretutto dista 45 chilometri da Cafarnao? In tutta la Palestina, l'unica città situata su un monte è Gàmala, che sovrasta proprio Cafarnao. Non è finita: in Matteo 8,1/15, leggiamo "Quando Gesù fu sceso dal monte, molta folla lo seguiva... Entrato in Cafarnao..." E sempre in Matteo 4,13/15 "Lasciata Nazaret, venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare – intende il lago di Tiberiade – nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, al di là del Giordano". Beh, per recarsi da Nazaret a Cafarnao non bisogna attraversare il Giordano, ma se si parte da Gàmala, in quel caso sì. Mi segui?

Ubaldo la fissò per un attimo, assentendo.

– Bene. Lo stesso accade in Matteo 19,1, dove dice "Terminati questi discorsi, Gesù partì dalla Galilea e andò nel territorio della Giudea, al di là del Giordano". Per recarsi dalla Galilea alla Giudea, che sono entrambe ad ovest del Giordano, non si deve attraversare il fiume. Lo vedi?

– Sì, è chiaro.

– Ci sarebbero molti altri passi, ma in sostanza il punto è che Gesù abitava in una città posta sul monte e l'unica città con le giuste caratteristiche era Gàmala. Nazaret è situata in una valle lievemente ondulata al di qua del Giordano, mentre Gàmala era al di là del Giordano, rispetto alla Galilea, dunque nella posizione giusta. Inoltre, Nazaret è totalmente sconosciuta alla storia sino al IV secolo dopo Cristo. Lo sai che cosa ci abbiamo trovato, di veramente databile al I secolo? Qualche buco nella roccia, che potremmo definire cripta tombale. Nient'altro. Lì avrebbe dovuto esistere una città, con la sua sinagoga, le sue attività produttive, qualcosa che avrebbe dovuto giustificare lo stanziamento di una numerosa popolazione. Invece niente. Non ci sono resti. Tutte queste cose invece si trovavano a Gàmala. Del resto nessuna Nazaret viene mai citata né dallo storico ebreo Giuseppe Flavio, che pure scrisse fiumi di cronache, né nell'Antico Testamento, e nemmeno nel Talmud. Inoltre, io mi domando, come mai nessuno pensò di fare un pellegrinaggio nella città dove aveva vissuto Gesù, a cominciare dagli apostoli? Strano, no? Nessuno ci ha mai pensato, nessuno ne ha sentito la necessità, nessun santo, nessun profeta, discepolo o credente. Neppure Paolo nelle sue lettere la nomina mai. La spiegazione è semplice. Nazaret non esisteva, è stata costruita molto tempo dopo, intorno al III secolo. E a questo punto mi viene il sospetto che l'abbiano costruita apposta, per far combaciare l'invenzione teologica con la realtà territoriale.

– Ma perché?

– Per nascondere la sua vera natura, quella di Nazireo. Come certo saprai, nei vangeli non si trova mai l'espressione Gesù di Nazaret, ma Gesù il Nazoreo, o il Nazoreno, oppure il Nazareno.

– Che significa Nazireo? – domandò Teodoro, che stava seguendo con grande interesse.

– Il termine deriva dall'aramaico Nazir, in ebraico Nozrim, cioè Nazireo. Il Nazireo era un fedele ebreo che si consacrava a Dio vincolandosi per tutta la durata del voto a non bere bevande inebrianti, a non tagliarsi i capelli e la barba, e a mantenersi casto. In pratica Gesù apparteneva a una setta essena.

– Sì, qualcosa sapevo già, ma che Nazaret non esistesse neppure, questo è davvero pazzesco. E c'è dell'altro? – domandò Ubaldo.

– Beh, per esempio che era un rivoluzionario, ma nel vero senso della parola, un combattente per la libertà dal giogo dell'impero romano, che nemmeno gli ebrei potevano vedere tanto di buon occhio, soprattutto quelli che con i romani facevano affari o quelli che tentavano un accordo per non essere schiacciati completamente e spazzati via. Ricordiamoci che Yeshua manda all'aria i banchetti del mercato davanti al tempio e che nelle sue discussioni nella sinagoga urla più volte ai rabbini "guai a voi!".  Dunque non era tanto morbido come ce lo vorrebbero far credere, non era un figlio dei fiori che una dozzina di militari andarono ad arrestare. A prenderlo mandarono ben 600 soldati romani. Che ne dite? Tanto innocuo non doveva essere.

– Qualche domanda me l'ero posta anch'io, non credere. Ci sono un sacco di cose che non quadrano, sia nei vangeli che nella Bibbia.

– Già, e ci sono un mare di traduzioni sbagliate. Anzi, volutamente modificate, per piegarle ai dettami della teologia che si è sviluppata nei secoli.

– Lo so, mi piacerebbe discuterne con te, una volta. Intanto abbiamo appurato che di certo non punteremo su Nazaret. Ma adesso, per non annoiare Teodoro, suggerirei di cambiare argomento e di metterlo al corrente di quello che ha combinato Kirill.

– Kirill? Che ha fatto?

 

            Vlad si fermò a un semaforo rosso, si schiarì la voce e guardò Nika.

– Adesso basta. Devi prenderti almeno un giorno di riposo. Tuo padre mi ha raccomandato di badare a te e se ti vedesse in questo momento mi prenderebbe a sberle.

– Che vuoi dire? – disse Nika, guardando fuori dal finestrino, tra l'infastidito e lo svogliato.

– Voglio dire che è un mese che stai lavorando senza soste a quella macchina infernale, senza prenderti nemmeno un momento di riposo. Mangi poco, dormi ancora meno, passi la notte a rimuginare sui tuoi programmi, dimagrisci a vista d'occhio, sei pallida e tirata. No, mi correggo, tuo padre mi sparerebbe.

Vlad fu grato di essere riuscito a finire il suo pistolotto senza essere interrotto neppure una volta, ma questo, a ben pensarci, era un brutto segno, la dimostrazione evidente della stanchezza di Nika.

– Domani è domenica. Ti ordino un giorno di riposo totale.

– Sei arrivato tardi, Vlad. Abbiamo già votato questa mozione.

– Bene. Ne sono felice. Anche i tuoi amici allora sono umani.

Nika sorrise.

– L'unico voto contrario è stato il mio.

– Non so perché, ma questo non mi stupisce.

– Che c'è per cena?

– Niente.

– Come niente?

– Ho deciso di stupirti. Stasera ti porto in un posto che...

– Non ho voglia di uscire.

– Dovrai farlo. Stasera comando io.

– Chi ti dà il diritto di...

– Nika, stasera comando io.

Per la prima volta da che era iniziata la loro convivenza forzata, Vlad alzò leggermente la voce. Il suo tono imperioso non si limitò a stupirla, ma fu anche in grado di convincerla. Perché no? Perché non lasciare per una volta che a dirigere la sua vita fosse un altro? Non era forse riposante lasciarsi andare, lasciarsi guidare, affidarsi a qualcuno? Un po' come tornare bambina, deporre le armi, arrendersi. Sì, riposarsi.

– Va bene, Vlad. Stupiscimi.

Ma anche Vlad si meravigliò della facilità con cui aveva vinto il round. Quella testa matta doveva essere davvero agli sgoccioli di energia. Aveva bisogno di ricaricarsi e lui aveva scoperto dove. C'era un unico ristorante russo in tutta la città, anzi era un club privato, dove occorreva iscriversi per entrare. Era nato come associazione culturale e da qualche anno raccoglieva attorno a sé la nutrita comunità non solo russa, ma di tutto l'est Europa. Mentre aspettava nella saletta d'attesa del laboratorio, dove passava annoiandosi la maggior parte del tempo, gli era venuta un'improvvisa voglia di adjarian khachapuri. Così aveva cercato su internet dove trovarlo.

            Una volta a casa, si erano rintanati nelle loro stanze per prepararsi. Vlad aveva impiegato i suoi venti minuti canonici e poi si era apprestato alla solita attesa, poiché già sapeva che a Nika occorreva giusto il doppio del tempo e qualche volta di più. Ma allo scadere dell'ora decise che era giunto il momento di andare a vedere che cosa stava combinando. Passò dallo studio, sospettando di trovarla al computer, ma la stanza era deserta. Entrò in soggiorno, sbirciò in cucina. Tornò indietro, arrivò alla sua camera da letto, bussò alla porta, ma Nika non rispose. Per qualche minuto aspettò ancora, ma poi, pensando che avesse cambiato idea, tornò a bussare a quella porta, senza ricevere risposta. Allora l'aprì, con delicatezza. Il letto era vuoto. Doveva essere ancora in bagno. Che diavolo stava combinando? Vlad restò indeciso ancora per qualche secondo, poi decise di bussare alla porta del bagno.

– Nika, non sei ancora pronta?

Nessuna risposta. Fu allora che cominciò seriamente a preoccuparsi. Afferrò la maniglia e spalancò la porta. Nika non c'era. Corse indietro, chiamandola a gran voce, entrando in tutte le stanze, anche in quelle del suo livello, ma Nika era sparita. L'idea che qualcuno l'avesse rapita cominciò a farsi strada nella sua mente. Istintivamente impugnò la pistola. Come avevano fatto senza far scattare gli allarmi che aveva disseminato per casa? Dal giardino? Soltanto se c'era la portafinestra della cucina aperta. Possibile che fosse uscito di casa senza chiuderla? E se l'avesse aperta Nika? Corse a controllare e con un tuffo al cuore la trovò proprio aperta. Vlad si precipitò in giardino, guardandosi intorno febbrilmente, e poi girò intorno alle poltrone, dove finalmente la vide. Nika vi era rannicchiata, addormentata, avvolta in un elegante abito di seta, con i sandali dorati, la parrucca castana e una piccola borsa a tracolla, piena di catenelle e di strass.

Vlad fece un respiro profondo, si rilassò, fece scorrere l'adrenalina che gli si era accumulata nel corpo. La guardò infine con tenerezza. Povera bambina, così stanca da addormentarsi non appena si era rilassata. La osservò per qualche momento, poi prese una decisione. Un'ora dopo suonarono al cancello. Vlad ritirò il pacco e pagò, aggiungendo una grossa mancia.

Svegliare Nika non fu difficile, gli bastò sfiorarle una guancia. Lei saltò su come una molla.

– Sono pronta – disse con voce impastata.

– Abbiamo un cambio di programma. Basterà che arrivi al tavolo di cucina.

Nika rispose con uno sguardo smarrito, poi, voltandosi, poté ammirare attraverso le vetrate il tavolo apparecchiato, con i piatti da portata già distribuiti sulla tovaglia color pesca. Sospirò. Quindi, a passi lenti, entrò in cucina, sfilandosi la parrucca, che abbandonò su una mensola insieme alla borsetta. Quando si sedette a tavola, Vlad rigirò una bottiglia di vino nel ghiaccio del secchiello e le domandò se preferisse il suo solito kvas.

– No, stasera mi sento veramente a casa. Mesci, oste della malora.

Vlad rise.

– Come ti è venuta questa idea?

– Vedendoti dormire in giardino. Ho capito che sei davvero troppo stanca per andartene in giro. Allora ho pensato di portare un po' di Russia qui.

– Bellissima idea. Grazie, Vlad o comunque ti chiami.

– Vlad va benissimo.

– Sì, lo so. E tu lo sai che dopo che avrò bevuto mi dovrai portare in braccio fino in camera?

– Affrontiamo un problema alla volta. Da dove vuoi cominciare?

– Da un brindisi, direi.

– Approvo.

 

            Nello stesso momento Ubaldo e Ludovico brindavano alla loro amicizia con un calice di Triskelé. Il piattino di cubetti di formaggio stagionato, che Loretta aveva servito insieme al vino, era già quasi vuoto. Il Divinpeccato quella sera non era affollato come al solito, forse per via del derby Roma-Lazio, e loro si erano aggiudicati un tavolino d'angolo, isolato dietro una colonna, a cui erano appesi come trofei vecchi arnesi da cucina in rame e legno.

– Quando mi porterai nel tuo antro segreto? – domandò Ludovico.

Con un certo imbarazzo Ubaldo gli rispose:

– Il laboratorio non è mio, in realtà. Ha fatto tutto Nika. E non so se permetterà che io ci porti qualcuno in visita. Ma posso chiedere – aggiunse, riconoscendo la

delusione nell'espressione del suo viso.

– Sa almeno che esisto? Nika, intendo.

– Certo. Le ho parlato di te. Sa che solo grazie a te abbiamo potuto dare il via a questo progetto.

– Magari è una persona che sa dimostrare gratitudine.

– Nika è molto intelligente e ha un buon carattere.

– Ti piace?

– In che senso?

– Hai capito – disse Ludovico, mettendosi in bocca un pezzetto di formaggio.

– Ah, in quel senso. Non ci ho mai pensato. Ha un fascino strano. È coperta di tatuaggi. Dovresti vederla. Sai perché in Biblioteca si presenta con il turbante?

– Avrà i capelli viola, o blu. No, fucsia.

– Sbagliato. Ha il capo completamente rasato, tranne per un ciuffo in mezzo alla testa. E anche quella è piena di tatuaggi. Te la immagini la faccia dell'uscere se si presentasse al naturale?

Ludovico scoppiò a ridere.

– Gli verrebbe un colpo.

Ubaldo afferrò il calice e lo svuotò, poi si mise a ridere anche lui.

Loretta si avvicinò a ritirare i bicchieri.

– Altri due, per favore.

– Arrivano subito – rispose lei, compiaciuta che quella sera fossero tanto allegri.

– Hai pensato a cosa ti piacerebbe vedere con il Cronovisore? – gli disse, abbassando la voce con quella prudenza che nemmeno un'ubriacatura poteva sopprimere.

– Sì, e c'è da diventare matti. Ci sono talmente tante cose! Ma questa possibilità mi spaventa anche, non te lo nascondo. C'è una cosa, però, che mi martella in testa da qualche giorno. È un episodio che riguarda un mio parente.

– Un parente?

– Sì, un mistero che nessuno ha saputo mai spiegare.

Ludovico tacque, mentre Loretta posava davanti a loro altri due bicchieri di vino rosso. Ubaldo notò che lo sguardo del suo amico si era perduto lontano, tra i suoi ricordi, e aspettò con calma che ritornasse al presente.

Quando Ludovico si riscosse, tornò a concentrare lo sguardo su di lui.

– Dicevi?

– No, tu dicevi. Stavi parlando di un mistero che riguarda un tuo parente.

– Sì, già.

– Cosa è successo, dove e quando?

Ludovico spostò lo sguardo sul bicchiere che aveva davanti, lo sollevò e bevve un lungo sorso di vino. Poi cominciò a scuotere la testa.

– No, è una sciocchezza, ci sono cose che m'intrigano molto di più, come per esempio vedere la costruzione dell'Arca di Noè. Sarà vera quella storia? Oppure la regina di Saba, o la costruzione delle piramidi. Insomma, ce ne sono di cose!

Ubaldo non si lasciò dirottare.

– Cosa è successo al tuo parente?

Ludovico lo fissò negli occhi un momento, poi, tornando ad afferrare il calice, disse:

– È scomparso. Smaterializzato in un secondo.

E lo svuotò d'un fiato.

– Sarebbe un'indagine investigativa. Non avevo pensato a questa possibilità. Per le brache della Sistina!

Ubaldo sbarrò gli occhi. Nella sua mente si spalancò un intero universo di possibilità, alcune delle quali talmente tremende che finalmente lo condussero a capire i motivi di padre Pellegrino. Doveva essere stato fulminato da un'identica illuminazione quando aveva dato ragione al Papa. Se quel congegno fosse caduto nelle mani sbagliate, sarebbe stato un disastro, di più, una tragedia, un'apocalisse. Si sentì impallidire. Gli mancò il fiato. Infine, il gemito che gli sfuggì spaventò Ludovico.

– Che ti succede?

– Dobbiamo fermare tutto. Subito!

– Che ti prende?

– Ma che avevo nella testa? Dio mio! Come ho fatto a non pensarci prima? È proprio vero, non c'è niente di più pericoloso di un'idea, quando è l'unica che abbiamo in testa. Sono stato un pazzo, uno scellerato, un invasato. E tu che sei mio amico, perché non mi hai fatto rinchiudere? Quest'ordigno è più letale di una bomba atomica, e tu, tu, non mi hai fermato, non mi hai detto niente. Come hai potuto?

Ludovico guardò il bicchiere vuoto di Ubaldo, poi il suo, poi tornò a fissare Ubaldo, con un leggero ghigno.

– Sia chiaro: il Triskelé non lo prendiamo più. Ci fa male.

 

            Il lunedì mattina, scendendo dall'Audi davanti al portone dell'11/11, Nika si sorprese di trovare Teodoro che l'aspettava.

– Che ci fai qui? È successo qualcosa?

– Kirill se n'è andato.

– Andato dove? – gli domandò stupita.

– A casa. Ha detto che aveva nostalgia di Nadia e della Russia.

– Ma che diavolo succede? Ieri sera Ubaldo mi ha mandato un messaggio che diceva di bloccare tutto. Che non dobbiamo assolutamente ricomporre la macchina.

– Sarà colpa del caldo? Ad alcuni fa un brutto effetto.

– Chi lo sa? Forse è per questo che Kirill si è preso una vacanza.

– No, non si tratta di una vacanza. Ci ha mollati. Mi ha lasciato le chiavi di casa e mi ha detto di dirvi addio da parte sua. Aveva dato le dimissioni una settimana fa, senza accennarmi niente.

– Mi dispiace, Teodoro – gli disse Nika, dandogli una pacca sulla spalla.

– A me no. Era diventato insopportabile.

– Il Timeshift ne soffrirà?

Con un'alzata di spalle Teodoro rispose: – Chi lo può dire? Ultimamente ho avuto l'impressione che mi remasse contro. Magari se ne gioverà. A questo proposito, vorrei un tuo parere su una cosa. Hai due minuti per me?

– Ma che domande fai? Certo, entriamo.

Vlad li seguì, si accertò che si chiudessero nel laboratorio e poi si rifugiò nella sala d'attesa che era diventata la sua dimora stabile. La chiamava "il suo salotto".

Con il passare dei giorni, le mensole di uno scaffale si stavano riempiendo di libri; sopra un mobile basso aveva trovato collocazione una macchinetta per il caffè espresso in cialde; di fianco alla porta, che teneva sempre aperta, aveva sistemato un frigobar; c'era anche una tv che però accendeva raramente.  Per completare l'impressione di casa, Nika aveva arredato un angolo con una bella pianta artificiale e aveva fatto appendere alcune stampe alle pareti. Le tonalità dominanti erano il giallo e il rosso. Accanto al suo salotto c'era il dormitorio di emergenza. In realtà era una stanza completamente vuota, ad eccezione di un armadio che conteneva quattro o cinque futon, lenzuola, coperte e cuscini che per il momento non erano mai stati utilizzati.

Una volta entrato, si sedette sul divano e accese il suo portatile. Ottenuta la connessione a internet, entrò nella posta elettronica e comunicò la novità su Kirill Teffi.

Nel pomeriggio arrivò anche Ubaldo. Era in borghese: indossava blue jeans e una polo blu scuro. Sembrava stremato. Vlad lo osservò scuotendo la testa. Arrivare fin lì servendosi dei mezzi pubblici doveva essere sfiancante, con quel caldo. Quando Ubaldo raggiunse la porta blindata, Vlad s'introdusse in un orecchio il microauricolare.

Nika accolse Ubaldo con la giusta dose d'irritazione.

– Si può sapere perché vuoi fermare tutto? Sei impazzito?

– No, sono rinsavito, piuttosto. Questo progetto è pura follia. Ho valutato finalmente tutte le conseguenze che potremmo scatenare mettendo in funzione questo congegno. Dobbiamo bloccare tutto. Dobbiamo distruggere tutto il materiale, cancellare tutti i dati dal computer, far sparire ogni cosa e in fretta.

Nika afferrò nervosamente le sottili treccioline che le pendevano dal lato sinistro del viso e le lanciò con un gesto secco dietro le spalle. Il suo sguardo divenne di ghiaccio, mentre sprofondava in quello di Ubaldo, che deglutì a vuoto.

– Se vuoi tirarti indietro sei libero di farlo, ma per il resto, questo progetto è mio. Non ha più niente a che fare con quel ridicolo macchinario costruito da Ernetti, che ti ha pure mentito. Anche se l'avessi ricostruito esattamente com'era, non avrebbe mai potuto funzionare, te lo assicuro. E Teodoro è d'accordo con me.

– Vi sbagliate. Che motivo avrebbe avuto il Papa di ordinare a Ernetti di smontare il Cronovisore e di seppellire i suoi componenti nei sotterranei degli archivi segreti?

Nika incrociò le braccia e sbuffò.

– Ti ricordi quando abbiamo parlato delle armi soniche?

– Sì, ma che c'entra?

Ubaldo era spiazzato.

– Così com'è descritta nei progetti, quella macchina è un concentratore di raggi sonici. Potrebbe costituire un ordigno molto pericoloso. In qualche modo i collaboratori del Papa l'avevano capito. Forse è accaduto un incidente, durante la dimostrazione, qualcosa di cui Ernetti non dev'essersi nemmeno accorto. Certe emissioni d'onda, a precise frequenze, sarebbero capaci persino di aprire un varco nel tessuto spazio-temporale. Ed è questo che dev'essere accaduto, è questo che dava a Ernetti l'impressione di vedere immagini a colori del passato.

Ubaldo crollò su una sedia, con lo sguardo perso nel vuoto.

– Sei sicura?

– Abbastanza.

– Quando l'hai scoperto?

– È un po' che ci penso. Con i dati che abbiamo non possiamo ottenere niente che assomigli a un Cronovisore. Però potremmo fare decisi passi avanti con il Timeshift.

Ubaldo saltò sulla sedia.

– Che dici?

– Anziché un fotone, potremmo spostare qualcosa di più voluminoso, che so, un pitone.

Al di là del muro Vlad trasalì.

– E poi? Come lo riportereste indietro?

– Un passo alla volta. Non avere fretta. Tra due o tre generazioni si scoprirà.

Nika scoppiò a ridere davanti alla sua espressione stralunata.

 – La nostra collaborazione finisce qui. Il Cronovisore si è rivelato una bufala. È così che dite a Roma, no? Mi dispiace che il tuo sogno sia svanito, Ubaldo, ma forse è ora che tu cominci a pensare ad altro.

– Ad altro? Così su due piedi potrei pensare solo a buttarmi giù da un ponte. Ti rendi conto che ho basato tutta la mia vita su questo sogno?

– Posso dirtelo, Ubaldo? A me più che un sogno sembra una malattia, anche piuttosto brutta, da curare. Una fissazione. C'è gente che c'è finita in manicomio.

– Qui da noi non esistono più.

– Allora è per questo che sei ancora a piede libero – commentò ridendo.

– Scherza, tu. Ma io mi sento morire.

– Ti chiamo un taxi. Vattene a casa e fatti una bella dormita. Sembri distrutto.

– Lo sono. E tu sei perfida e fredda come il ghiaccio. Mi sono sbagliato su di te.

– Non esagerare, Ubaldo. Ti ho detto che mi dispiace. Se non te l'ho comunicato prima è stato perché sapevo perfettamente quanto tu ci tenessi e ho aspettato di essere davvero sicura prima di darti questa delusione. Te lo ripeto, mi dispiace, ma non posso farci niente. Devi fartene una ragione. Con il tempo saprai accettarlo.

Vlad lo seguì con lo sguardo finché non lo vide salire su un taxi, poi andò a riferire.

 

            La panchina era un'isola illuminata artificialmente in un mondo d'ombra. Dopo il resoconto avvilito di Ubaldo, Ludovico si sporse in avanti, appoggiando i gomiti sulle cosce. Osservava una lucertola che si muoveva a scatti davanti a loro, schivando i radi fili d'erba. Ascoltava e rimuginava. Si stava convincendo sempre più di aver trovato la spiegazione. E quella, a ben guardare, non era neppure una lucertola.

– Mi dispiace per la tua indagine ­– commentò infine Ubaldo.

Ludovico sganciò lo sguardo dal piccolo rettile e riappoggiò le spalle alle stecche di legno screpolato della panchina. Stava per aprire bocca, quando Ubaldo riprese:

– E se Nika mi ha mentito? Se l'ha fatto perché vuole tutto il merito di questa scoperta? Quando sarà su tutti i giornali e ne parleranno tutte le televisioni, lei sarà l'unica star, le assegneranno il premio Nobel, diventerà più famosa di...

– No – lo interruppe finalmente Ludovico.

– Che ne sai?

– Adesso ho capito. La tua amica ha ragione. Finalmente so come è scomparso mio nonno.

– Tuo nonno? Quel tuo parente scomparso era tuo nonno?

– Sì, proprio lui.

– Perché non me l'hai detto subito?

Ludovico si strinse nelle spalle.

– Non mi piace parlarne, tutto qui.

– Ma adesso ti dispiacerebbe dirmi cosa hai capito? Perché dici che Nika ha ragione?

Improvvisamente Ludovico si alzò dalla panchina.

– Vieni con me.

Era un ordine perentorio. Ubaldo non si sentì né di contraddirlo né di chiedergli la destinazione. Lo seguì, aumentando il passo per stargli dietro. Senza spiegazioni, ma con falcate sicure, il suo amico lo stava conducendo verso la soluzione di quel mistero. Ubaldo pensò che tra i suoi conoscenti non ce n'era uno normale. Non più.

Dopo una lunga camminata sopportata in silenzio, Ubaldo stava per chiedere a Ludovico di fermarsi un attimo, perché non ce la faceva più, quando lui si bloccò davanti a un portone massiccio. Cercò un nome sulle targhette di ottone e premette un pulsante. Un attimo dopo, senza indugio, la serratura scattò. Ubaldo notò subito con disperazione che non c'era ascensore.

– Che piano? – mormorò.

– Terzo.

– Ma insomma, dove mi stai portando?

– Dall'unico testimone che ha visto tutto. Anche lui sarà contento di avere una spiegazione, finalmente, dopo tutti questi anni.

Mentre raggiungevano il pianerottolo del terzo piano, una porta si aprì. Li accolse una signora bionda, non più giovanissima, ma con un portamento da regina. L'impressione era accentuata dal colletto bianco della polo alzato sulla nuca e da una lunga gonna nera che lasciava scoperti solo i piedi.

– Buonasera Eleonora. Come sta Leopoldo? È ancora sveglio? Lo posso disturbare?

– Ma scherzi? Lo sai che gli fa sempre piacere vederti. Anzi, proprio ieri mi ha chiesto di te. Ti avrei telefonato. Entrate, entrate. Hai portato un amico – constatò.

Ludovico fece le presentazioni e poi finalmente Ubaldo poté stringere la mano a questo misterioso Leopoldo, di cui l'amico non gli aveva mai parlato. Quindi si sedettero su un divano con grande soddisfazione di Ubaldo, che per la stanchezza e il caldo non ragionava più. Eleonora li raggiunse a tempo di record con due bicchieri giganti di acqua fresca. Ubaldo ne accettò uno con immensa gratitudine e dopo esserselo scolato fino all'ultima goccia si sentì rinascere.

Ludovico intanto stava mettendo Leopoldo al corrente del motivo per il quale lo aveva condotto lì.

Leopoldo, nonostante la sua veneranda età, era ancora lucidissimo e aveva mantenuto un'invidiabile memoria, grazie alla quale raccontò a Ubaldo ciò che era accaduto quel fatidico giorno, aggiungendo ai fatti ogni dettaglio possibile.

– Sandro La Rosa e io eravamo dipendenti del Vaticano, eravamo colleghi da alcuni anni, anzi, di più, eravamo amici. Il nostro lavoro era un po' noioso, e noi per passare il tempo, commentavamo le notizie dei giornali, le storie che circolavano in Vaticano, i fatti nostri, e quando non bastavano, anche quelli altrui. Insomma, eravamo curiosi e pettegoli.

Ubaldo ridacchiò.

– Alla mia età è concesso ammettere i difetti, tanto che ho da perdere?

Ubaldo annuì, come una spinta a continuare.

– Quel giorno, c'era un'udienza particolare del Santo Padre. Sapevamo che un certo padre Pellegrino Ernetti doveva fare una dimostrazione con una macchina di sua invenzione, davanti a lui, al Presidente della Repubblica e a un ristretto gruppo di invitati, tutta gente delle alte sfere. Una cosa grossa. Noi, figurati, appena chiuse le porte, invece di metterci dritti sull'attenti aspettando che l'incontro finisse, curiosi come eravamo, ci mettemmo a sbirciare dai buchi delle serrature, uno a destra e uno a sinistra, ma con le orecchie tese, che nel caso fosse arrivato qualcuno, ci saremmo subito dati un contegno. E così successe quasi subito. Facemmo appena in tempo a rimetterci in posizione. Appena cessato il pericolo, decidemmo che uno di noi avrebbe sbirciato mentre l'altro faceva il palo. Poi ci saremmo dati il cambio e ci saremmo scambiati il racconto di quanto stavano combinando. Il primo turno toccò a me, mentre Sandro faceva il palo. Dopo un po' si avvicinò e mi chiese che cosa vedevo. Io, che non capivo bene di che cosa si trattasse, e che in quella posizione cominciavo ad avere anche mal di schiena, gli cedetti il posto, allontanandomi di qualche metro dalla porta. E a un tratto, proprio mentre lo stavo guardando, Sandro sparì. Un momento prima era lì e un momento dopo non c'era più. L'unica cosa strana che notai fu che mentre spariva, intorno a lui apparve come un contorno verde e azzurro, un'impressione di cespugli e acqua di mare, che vibrava e non si riusciva a mettere a fuoco. Ma durò pochissimo, solo un attimo. Non ho mai trovato le parole per spiegarlo meglio. In quel momento l'unica cosa di cui ero certo era che Sandro era scomparso nel nulla, proprio sotto i miei occhi. Diedi subito l'allarme, ma all'inizio nessuno mi credette. Mi sospesero dal servizio e si misero a cercare Sandro ovunque. Ma dopo qualche settimana la storia cambiò, esattamente quando il Santo Padre mi volle parlare. Volle che gli raccontassi tutto e dopo ordinò che fossi riabilitato. E adesso, spiegatemi quello che è successo.

            Ubaldo rimase turbato dal racconto del vecchio signore. Doveva avere una novantina d'anni, ma durante la sua testimonianza gli aveva invidiato la precisione dei suoi ricordi. Leopoldo aveva mantenuto una memoria considerevole. Ma ciò che maggiormente lo colpì, fu la coincidenza tra quell'evento e ciò che Nika aveva ipotizzato. Si era davvero prodotto un brutto incidente durante la dimostrazione di Ernetti, senza che lui se ne accorgesse. Con tutta probabilità, il nonno di Ludovico era stato inghiottito da uno strappo nel tessuto spazio-temporale prodotto dal Cronovisore. Non c'erano altre spiegazioni possibili.

– Allora? – insistette Leopoldo.

Ubaldo si schiarì la voce e poi spiegò, raccontò, si dilungò, mentre l'espressione del vecchio si faceva sempre più attenta e in qualche modo sollevata come da un peso. Infine, congiungendo le mani quasi volesse pregare, emise un sospiro così profondo che quasi si soffocò. Tossì per qualche istante, ma infine si riprese.

– Grazie, ragazzi. Questa sera mi avete fatto un grande regalo. Finalmente me ne posso andare in pace.

– Dove pensi di andare, nonno? – s'intromise Eleonora, portando un bicchiere d'acqua anche a lui.

– Per una volta, una sola, non potrei avere un goccetto di vino?

– Dai, nonno, lo sai che non ne teniamo in casa. E sai anche il perché – commentò facendo l'occhietto.

 

            Quando Ubaldo terminò di riportare gli scatoloni nel sotterraneo, salì al bar per brindare all'evento. Era felice di aver rigettato nell'oscurità e nel dimenticatoio quell'ordigno infernale. Per essere sicuro che a nessuno fosse possibile nemmeno in futuro di ritentarne la ricostruzione, ne aveva persino distrutto alcuni componenti, piccoli ma essenziali e ne era profondamente soddisfatto. Ma brindare con il succo d'ananas non gli era stato sufficiente, e poi da solo, quindi pensò bene di raggiungere Ludovico in Sala Controllo.

Il gendarme in servizio si voltò a guardarlo, ma non era Ludovico.

– Ah, proprio lei! Che cosa c'era negli scatoloni che ha portato negli Archivi?

Ubaldo raccolse tutto il sangue freddo che riuscì a recuperare e in fretta rispose:

– Reperti romani di cui ho copiato le iscrizioni per una ricerca che sto svolgendo. Frammenti di urne funerarie.

– Capisco. Però non ho trovato tra le carte nessuna autorizzazione.

– Probabilmente perché è una richiesta fatta molto tempo fa. Non devo ripeterla ogni volta. Non c'è Ludovico La Rosa? Stavo cercando lui.

Ubaldo sperò di deviarne la curiosità e i sospetti che indovinava nella sua espressione.

– No. Nella squadra si è aggiunto un elemento nuovo e così sono stati cambiati i turni. Anch'io l'ho saputo solo questa mattina.

Prima che il gendarme potesse ritornare a interrogarlo sui suoi spostamenti, Ubaldo lo salutò e si eclissò.

Uscendo a passo svelto dall'ingresso del Perugino, afferrò il cellulare e chiamò Ludovico, che rispose immediatamente.

– Ti ho chiamato appena ho saputo, ma tu eri già dentro e avevi spento il cellulare. Dimmi che oggi non hai spostato niente.

– Sì, invece, per le brache della Sistina! Ho finito di trascinare giù gli ultimi due scatoloni e il tuo collega mi ha visto.

– Ti ha fermato? Ti ha interrogato?

– No, sono andato io a costituirmi. Mi daranno un'attenuante?

Nonostante la tragicità dell'accaduto, le parole di Ubaldo fecero scoppiare Ludovico in una sonora risata.

– Sei venuto a cercarmi in Sala?

– Esatto.

– Spero che tu ti sia inventato una buona scusa. In fondo sei il Capo Archivista.

– Già, ma adesso mi devo procurare un'autorizzazione con data retroattiva.

– Ce la possiamo fare. Vediamoci in Piazzetta tra venti minuti. Ti va bene?

– Mi metto a correre subito.

            Due giorni dopo, grazie a un misterioso conoscente di Ludovico che lavorava in una vecchia copisteria di via dei Gracchi, la falsa autorizzazione giaceva in una cartelletta, opportunamente fuori posto, nell'armadio della Sala Controllo. Alla prima richiesta di spiegazioni, Ludovico avrebbe finto di trovarla per caso. Ma intanto gli era caduto lo sguardo su un'altra cartella, anche quella archiviata nel posto sbagliato. La aprì, ne sbirciò il contenuto e sbiancò.

 

            Quel pomeriggio, nel laboratorio 11/11, s'incontrarono Nika, Teodoro, Ubaldo e Ludovico, sotto lo sguardo vigile di Vlad, che se ne restò in piedi davanti alla porta blindata, a braccia conserte. Sembrava il genio di Aladino.

Ubaldo aveva molto da raccontare, ma riuscì a sintetizzare gli eventi per non annoiare i presenti e non far perdere tempo prezioso a Nika e Teodoro che sembravano molto presi dai loro studi. Poi passò la parola a Ludovico perché li informasse dell'ultima scoperta.

Ma Nika lo precedette.

– Ludovico, sono contenta di conoscerti, finalmente. Sei stato un ingranaggio fondamentale di questo progetto, anche se Ubaldo non si è mai deciso a presentarci.

– Il piacere è tutto mio.

– Allora, che cosa hai scoperto?

– Che custodiamo in Sala Controllo un'autorizzazione per lo studio del Cronovisore a nome Kirill Teffi. È stata concessa sette anni fa ed è stata archiviata nei documenti evasi.

– Che vuol dire non più necessari in quanto lo studio è finito – aggiunse Ubaldo.

Nika guardò Teodoro, stupita.

– Tu lo sapevi?

– No. Kirill non me ne ha mai parlato. Credete che sia riuscito nell'impresa di rimontare il congegno?

Ubaldo annuì.

– Non solo dev'esserci riuscito, ma deve aver apportato uno sfoltimento al numero dei componenti, così come ho fatto io prima di riporre tutti i pezzi nelle scatole. Per questo mentre tentavo di rimontarlo mi sembrava sempre che mancasse qualcosa.

– E anche tu ne hai distrutto dei pezzi? Perché? – domandò Ludovico, leggermente deluso.

– Per impedire a chiunque altro di rimontarla com'era.

– Rimontarla com'era sarebbe inutile – ribadì Nika.

Teodoro approvò, poi aggiunse:

– Credo che Kirill se ne sia andato perché ormai aveva completato gli studi per costruire un congegno nuovo, una sintesi tra il Cronovisore e il Timeshift, come anche io e Nika stiamo progettando di fare.

– Per ottenere cosa?

– Un apparato che non solo permetta di sbirciare nel campo unificato temporale, ma che consenta anche di trasferirvi materia.

Ubaldo gemette.

– Ormai siete in troppi a lavorarci sopra. Prima o poi qualcuno riuscirà nell'impresa e un secondo dopo questo mondo non sarà più lo stesso. Forse l'umanità è in pericolo, ma io non posso farci niente.

Ubaldo sospirò, abbattuto.

– Non ti facevo così catastrofista. Riprenditi! Unisciti a noi – lo invitò Teodoro.

– No, grazie. Io ho chiuso con questa storia. Ma manterrò il segreto, non vi preoccupate. Comunque, scusatemi se non tiferò per la buona riuscita dell'esperimento.

– Io invece sarei interessato a vederla in funzione, quando arriverà il momento. Tenetemi presente, per favore – disse Ludovico.

– Sarai il primo della lista. Vuoi vedere qualcosa in particolare? – disse Nika.

– Sì, voglio vedere com'è scomparso mio nonno.

– Spero proprio di potertelo permettere, un giorno.

Ubaldo si rimise in piedi, pronto a lasciare il laboratorio.

– Comunque, Ubaldo, non perdiamoci di vista, ok? Piacere di averti conosciuto, Ludovico. E grazie di tutto.

Così Nika li congedò, facendo un cenno a Vlad, che li fece uscire e li seguì con lo sguardo finché non rimontarono in auto. Solo quando li vide uscire dal grande cancello e immettersi nel vialetto delimitato dai pini, tornò al suo salotto, si rimise all'orecchio il microauricolare e spense la registrazione. Poi inviò via mail una succinta informativa.

            Come al solito il traffico era intenso e caotico. Ludovico era concentrato nella guida, ma ogni tanto lanciava uno sguardo sull'espressione di Ubaldo.

– Cosa farai adesso?

– Niente.

– Dovresti cercarti un nuovo hobby.

Ubaldo si alterò immediatamente.

– E secondo te, questo per me era un hobby? Non hai ancora capito che era tutta la mia vita? Anni e anni di ricerche, di impegno, anni sprecati a trovare le strade giuste per raggiungere un unico scopo: diventare Capo Archivista e trovare il congegno di Ernetti. Tutto finito in una bolla di sapone. E così mi sento anche io adesso. Una bolla di sapone che sta per scoppiare. Puff! Finito, morto.

– Se vuoi crogiolarti per un po' nella tua delusione, fallo pure, ma io non ti concedo tregua. Ti starò aggrappato alle calcagna come un barboncino a cui hai pestato la coda. E ho dentini affilati, ti avverto.

Nonostante l'abbattimento in cui era precipitato, a quell'immagine Ubaldo scoppiò a ridere.

– Solo tu ci riesci – disse, mettendogli una mano su quella che impugnava il cambio.

– A far che?

– A farmi ridere.

– Beh, è un buon inizio, ti pare?

Ubaldo ritirò la mano, tornando serio.

Cosa intendeva Ludovico? Non era la prima volta che gli lanciava ami come questo. Fino a quel momento Ludovico aveva tenuto la lenza lunga, ma ora aveva l'impressione che si fosse accorciata, anzi, che ne fosse rimasta molto poca.

– Ceni con me? – buttò lì Ludovico, con tono indifferente.

Ubaldo non rispose né sì né no.

– Dove hai intenzione di andare?

– A casa mia. Non ci sei mai venuto, ma ti assicuro che cucino bene. Non rimpiangerai le suore che ti danno da mangiare.

Ubaldo pensò al refettorio, pensò alle sue serate per lo più solitarie, alla sua infelice esistenza, e gli rispose di sì.

 

 

Seconda Parte (Il Caos)

 

            *Nika era affondata nella sua amata poltrona da giardino, i piedi nudi sprofondati nel cuscino morbido di un pouf, un kvas sul tavolino e lo sguardo impegnato a inseguire le nuvole, mentre giocava con le sue treccioline. Era appena trascorso un anno da quando aveva deciso che quella sarebbe stata la sua dimora. Non se n'era mai pentita. Vlad sfogliava una rivista alla tenue luce del tramonto, seduto accanto a lei. Da poco aveva preso piacere a rilassarsi sulla poltrona gemella. E nonostante la sua diffidenza per le eccessive comodità, ne sembrava piuttosto soddisfatto. Le siepi erano cresciute e ormai nessuno li poteva spiare dai due appartamenti confinanti. La vista davanti a loro invece spaziava nell'ampio giardino comune, curato ma non troppo. Questo aspetto semi selvaggio della vegetazione appagava il carattere altrettanto disordinato e selvaggio di Nika, che soffriva le costrizioni, le imposizioni, le regole e le leggi, ma che con il tempo si era adattata a conviverci per il quieto vivere.

– Pianeta chiama Nika.

La donna smise di attorcigliare alle dita le sue treccioline e scese dalle nuvole.

– Domani è il gran giorno? – domandò Vlad, chiudendo la rivista.

– Come lo sai? Ci stai spiando?

Vlad sollevò gli occhi al cielo.

– Andiamo! Non parlate d'altro tu e Teodoro.

– Ma tu dovresti fare finta di non ascoltare i nostri discorsi.

– Io sento e vedo tutto, lo sai benissimo.

– Ah, già, è per la mia sicurezza – disse sbuffando, come se dopo un lungo oblio se lo ricordasse solo in quel momento.

 – Avete invitato Ubaldo e Ludovico?

– Certo. E puoi assistere anche tu, ovviamente.

– Ovviamente. Mi assicurate che non ci sarà pericolo? Non vorrei vedervi friggere tutti quanti.

– Ma smettila! Casomai friggerai anche tu. A proposito, che ne diresti di mettere qualcosa sotto i denti? Ho fame.

– La cena è pronta. Ci penso io – disse Vlad come faceva sempre, rientrando subito in casa. Gli piaceva occuparsi del cibo e soprattutto di scegliere il vino adatto. In realtà non era lui a cucinare, ma sapeva dove procurarsi i piatti pronti, che si limitava a passare brevemente nel microonde. Quella sera servì a Nika un vino rosso, corposo e profumato, che aveva precedentemente versato in un decanter.

Durante la cena, Nika si sentì sempre più insonnolita e stanca.

– Vlad, forse mi dovrai mettere a letto tu stasera - sospirò.

– E a me chi pensa?

Anche Vlad si sentiva stranamente insonnolito e stanco. Guardò il decanter. Non avevano bevuto che un calice ciascuno. Eppure...

Ubaldo e Ludovico ricevettero un messaggio che rimandava la prova tecnica a data da destinarsi. Ubaldo provò a mettersi in contatto con Nika, mentre Ludovico lo seguiva con lo sguardo: misurava a passi lenti il soggiorno, dalla porta alla finestra e viceversa. Alla fine Ubaldo rinunciò, andandosi a sedere accanto all'amico sul divano. Ormai cenavano a casa sua tutte le sere. Durante gli ultimi mesi, Ludovico lo aveva convinto ad andare in palestra con lui, ottenendo simultaneamente due risultati: Ubaldo aveva riacquistato un colorito sano e l'uso di muscoli di cui non conosceva l'esistenza. Aveva anche smesso di buscarsi un raffreddore dopo l'altro e la domenica mattina andavano a correre a Villa Pamphili. Ubaldo si era trasformato, si sentiva più giovane ed era più allegro. Invece Ludovico era sempre più tetro e a volte Ubaldo sospettava che fosse perseguitato da un tormento segreto.

– Dunque l'esperimento è saltato? Chissà perché.

– Era quello che volevo sapere da Nika, ma ha il cellulare spento o irraggiungibile.

– Proviamo a chiedere a Teodoro.

Ubaldo riafferrò il cellulare che aveva rimesso in tasca e compose il numero dell'amico. Ma poco dopo la sua espressione mostrò di nuovo delusione.

– Niente. Anche lui è irraggiungibile.

– Andiamoci lo stesso. Ci spiegheranno di persona – propose Ludovico.

– E poi andiamo a correre, però.

– Ma certo. Vedo che ti stai proprio appassionando.

– Sarà perché non ho mai corso quando ero un ragazzino. In seminario ce lo vietavano.

 – Dev'essere stata dura.

Ubaldo ci pensò un po' su, prima di rispondere.

– Non tanto. Cantavo nel coro, che era la cosa che più mi rendeva felice. Anche l'ora di disegno mi piaceva molto. Per un breve periodo ho desiderato di iscrivermi all'Accademia d'Arte, ma poi ho avuto quell'incontro con padre Pellegrino che mi ha cambiato la vita.

– Così hai smesso di cantare e di dipingere.

– A volte disegno ancora, quando sono nervoso. E canticchio, ma solo quando sono sicuro che nessuno mi senta: le sigarette mi hanno rovinato la voce e l'intonazione. 

– Peccato.

– Non è una gran perdita. Non ero Pavarotti neanche prima.

Ludovico sorrise.

– E tu com'eri da ragazzino?

Anche Ludovico dovette riflettere qualche istante, prima di rispondere.

– Ero un bambino normale, direi. Volevo sempre giocare, fare i compiti non mi piaceva, mi sembrava una perdita di tempo. Giocavo a pallone con i miei compagni di classe, correvo sempre. Quando qualcuno mi chiedeva cosa avrei voluto fare da grande, rispondevo sempre: il calciatore.

– Come la maggior parte dei ragazzini ancora oggi, insomma.

– Sì, non è cambiato niente. I miei genitori adesso sono in pensione e se ne sono andati a vivere in Sicilia, al caldo.

– Beati loro.

– E i tuoi invece? Non me ne hai mai parlato.

– No, infatti. Mia madre si è ritirata in una casa di riposo, a Venezia. E mio padre invece, beh, mi è difficile parlare di qualcuno che non ho mai conosciuto. Quello che so di lui me lo raccontò mia madre, che rimase vedova quando io ero ancora in fasce. Non ho nessun ricordo vero di lui, ma me ne sono costruiti tanti fantasticando sulle sue poche fotografie. Adesso gli somiglio.

– Non d'essere stato facile, per te – commentò Ludovico passandogli un braccio consolatorio attorno alle spalle.

Ubaldo le sollevò come a dire che non aveva importanza.

– Forse in principio no, ma adesso mi sento molto fortunato, perché ho la tua amicizia.

Per un attimo un'ombra oscurò il volto di Ludovico. Ubaldo temette di averlo offeso in qualche modo. E quando si voltò a guardarlo negli occhi, sembrava davvero esasperato.

– Solo amicizia, Ubaldo? Non dirmi che non hai ancora capito quello che provo per te! – sussurrò con voce soffocata. Se si fosse lasciato andare avrebbe urlato. L'avrebbero sentito dal primo piano. Che poi, in fondo, a lui non sarebbe neppure importato, ma temeva che Ubaldo, ora che aveva imparato a correre, fuggisse via da quella casa, veloce come il vento.

Invece Ubaldo gli gettò le braccia al collo.

– Pensavo di aver capito male. Ma quanto ci hai messo?

– Io?! Ma quanto ci hai messo tu!

Eppure il calcolo dei tempi fu rimandato, perché c'erano attività più urgenti che reclamavano la loro completa concentrazione.

Solo più tardi, quando Ludovico cercò di staccare Ubaldo dal divano, per trascinarlo verso la camera da letto, lui si impuntò come un puledro recalcitrante.

– Che c'è, adesso? – esplose Ludovico, esasperato.

– Sono vergine – ammise Ubaldo, abbassando lo sguardo a terra, mentre arrossiva come un ragazzino.

– Ti prometto che tra poco non lo sarai più – gli assicurò Ludovico, ridendo.

 

            *Il risveglio di Nika fu traumatico: non appena riaprì gli occhi, si accorse che qualcosa non andava. Non si trovava nel suo letto. Ma il suo cervello cominciò subito a radiografare la stanza intorno a lei, prima ancora di chiedersi che cosa ci facesse lì e che posto fosse quel lì. Sembrava una camera d'albergo, ma non c'erano finestre, solo un piccolo bagno annesso, che s'intravedeva dalla porta aperta. Quella che doveva essere la porta d'ingresso invece era chiusa e dotata di un oblò, ma non c'era maniglia. Si alzò dal letto con precauzione. La testa le girava e provava una leggera nausea. Arrivata alla porta, spiò dal vetro del piccolo oblò. Il corridoio era largo un paio di metri e proprio di fronte c'era un'altra porta uguale, da cui qualcuno la stava fissando: Teodoro. Nika studiò la porta. Era certamente di quelle con comando elettronico, senza cerniere, che all'apertura scorrono dentro il muro. Tornò a guardare Teodoro, che incongruamente le fece un cenno di saluto con la mano davanti al viso. Aveva un'espressione depressa. Lei ricambiò e poi tornò a studiare la stanza. Nei quattro angoli tra pareti e soffitto c'erano dei cubi bianchi che sembravano ornamenti. Nika decise che si trattasse di telecamere. Entrò in bagno. Lì niente cubi, dunque, niente telecamere. Ma non ne era sicura. Tornò nella stanza principale. Quella era una cella: comoda, moderna, condizionata, ma sicuramente la sua prigione, al momento. E doveva trovarsi in un sotterraneo, anche se le luci a led avevano una temperatura solare. Nell'armadio a muro erano riposti alcuni dei suoi jeans e una pila di t-shirt. Separati da una paretina di legno, alcuni cassetti, dov'era stata sistemata la sua biancheria. Al solo pensiero che uno sconosciuto l'avesse toccata, le andò il sangue alla testa. Su una mensola erano stati sistemati un paio di Nike e i suoi anfibi. Quegli abiti le stavano dicendo che non sarebbe stata una permanenza breve, ma anche che coloro che l'avevano rapita si preoccupavano che stesse comoda. Gentile da parte loro!

Probabilmente i suoi carcerieri si aspettavano che lei cominciasse a bussare, urlando, perciò si astenne dal farlo e se ne tornò a letto. L'unica cosa che poteva fare, al momento, era tentare di farsi passare il mal di testa.

 

            *Nicolaj Zakharov rispose dal telefono del suo studio. Nonostante la porta chiusa, molti lo sentirono urlare:

– Come hai fatto a perderti mia figlia?

– Ci hanno drogato. Quando mi sono svegliato, ero disteso sul pavimento e Nika era sparita. Rapita. Anche Teodoro Sabri è scomparso.

Nicolaj Zakharov cercò di calmarsi.

– E le attrezzature?

– Purtroppo anche quelle. Il laboratorio è stato svuotato.

– Dobbiamo passare il caso ai servizi.

– Sono già in contatto. Volevo rassicurarti che andrò fino in fondo. Non mi fermerò finché non te la riporterò sana e salva.

– Lo spero.

La preoccupazione di Nicolaj Zakharov non si smorzò di una virgola. Non si fidava affatto dei servizi. Non si fidava di Vlad Petukhov o come diavolo si chiamava. Non si fidava di nessuno. O meglio, si fidava di Nika. Era una ragazza intelligente, intraprendente, che non aveva paura di niente e di nessuno. Se l'era sempre cavata da sola. A questo pensiero, Nicolaj si sentì un po' meglio.

            Kirill girò intorno alla sua creazione, ammirandola, diviso tra la soddisfazione e il timore. Beh, non era solo sua, naturalmente. La squadra di Zakharov aveva fatto la sua parte. L'avevano battezzata, mostrando ben poca fantasia, Cronoshift. E funzionava in modo del tutto inaspettato. Nei film di fantascienza lo chiamavano teletrasporto. Russi, americani, europei, giapponesi e persino cinesi, ci stavano lavorando da anni, con scarsi progressi. Ma finalmente il suo funzionava. L'unico problema era che già si ventilava un pronto trasferimento al Centro Aerospaziale. E una volta trasferito, di questo Kirill ne aveva piena coscienza, sarebbe diventato segreto militare.

Zakharov irruppe nel laboratorio con un'espressione che non gli aveva mai visto. Era nero di rabbia e insieme preoccupato.

– Che succede? – domandò Kirill, allarmato.

– Hanno rapito mia figlia.

– Cazzo!

– E quell'incapace di Vlad Petukhov non è stato in grado d'impedirlo.

– È terribile. Mi dispiace.

– Hanno rubato le attrezzature dal laboratorio e hanno rapito anche Teodoro Sabri. Ti dice niente?

– Americani?

– Ne sono più che convinto. In Italia ci sono più basi Nato che monumenti. I nostri servizi non riusciranno a ritrovarla. E se ci riuscissero, non potrebbero intervenire. Quanto a Vlad, lasciamo perdere.

Kirill tornò a guardare il Cronoshift. A che serviva essersi tanto battuti per completare quel progetto, se poi non si utilizzava nel momento del bisogno?

– Forse è un po' arrischiato, visto che non l'abbiamo sperimentato a sufficienza, ma si potrebbe fare un tentativo.

– Che tentativo? Spiegati meglio.

– Potremmo intervenire prima che tutto ciò avvenga.

Nicolaj Zakharov lanciò un'occhiata al macchinario, poi tornò a fissare Kirill Teffi, scuotendo la testa.

– Sei impazzito? Il sistema è ancora instabile. Non sappiamo nemmeno come agisca su un corpo fisico. Tu sei completamente fuori di testa.

– Ho trovato una nuova configurazione che sembra promettente, è un bel progresso rispetto alla precedente. Te ne avrei parlato oggi.

– Ma che dici? Manca la sperimentazione, o sbaglio?

– La possiamo fare subito.

– Ci vorranno mesi per perfezionare il sistema. E intanto mia figlia potrebbe fare lo stesso con il suo congegno, costretta dai rapitori.

– Secondo le mie simulazioni invece funzionerà. Ne sono certo.

Zakharov si sedette. Stava riflettendo intensamente su quella possibilità: cambiare il passato. Esisteva un'enorme mole di letteratura in proposito, ma un conto erano i romanzi e un altro era trovarsi coinvolti nella possibilità reale di utilizzare un dispositivo simile per tornare indietro nel tempo. Che cosa poteva accadere realmente, intervenendo sul passato?

– E in che punto del tempo interverresti, sempre che fosse davvero possibile?

Kirill ci stava pensando da qualche minuto.

– Anche solo il giorno precedente. Basterà avvisare Vlad, spiegargli la situazione e portare qui Nika, Teodoro e le attrezzature battendo sul tempo i rapitori.

– Ci andresti tu?

– Perché no?

– E poi torneresti indietro con il Cronoshift?

– Indietro non è possibile. Non ancora. In questo momento il trasferimento avviene solo in una direzione. Per tornare indietro dovrei avere un altro Cronoshift anche lì.

– Ma non c'è. Quello di Nika e Teodoro Sabri non è ancora perfezionato. E quindi, che faresti? Saliresti sul Piper con loro?

– Penso sia l'unica soluzione.

– Ci devo pensare. Non mi convince. Si tratterebbe di un rischio troppo grosso.

– Perché no?

– Non lo so. Il rapimento è avvenuto sabato notte. Per smontare le attrezzature e organizzare il viaggio direi che ci vorrà almeno un giorno, ma sarebbe più prudente considerarne due, quindi dovresti tornare a mercoledì. Partireste il venerdì. Oggi è domenica. Quindi da mercoledì al giorno in cui userai quel congegno ti troveresti simultaneamente in due luoghi differenti.

– Beh, i fotoni si sdoppiano rimanendo per sempre in entanglement. Ebbene, sì, probabilmente in questo stesso momento ho la mia copia da qualche parte. Il mondo è crollato? L'Universo si è disintegrato? No, perché se i fotoni possono sdoppiarsi, possiamo farlo anche noi. Ora sei più tranquillo?

– No. Tu lo sei?

In quel momento Teodoro irruppe nel laboratorio.

Non appena lo vide, Kirill urlò, felice: – Ha funzionato!

– Non proprio, –  disse Teodoro – ti sei disintegrato durante il teletrasporto. Quindi, se vuoi vivere, resta dove sei.

– Tu chi sei? – domandò Nicolaj, stupito.

Kirill lo precedette – Nicolaj, ti presento Teodoro Sabri. Teodoro, questo è Nicolaj Zakharov, il padre di Nika.

Per un attimo Nicolaj sperò che Teodoro non fosse venuto da solo.

– Dov'è Nika?

Teodoro si affrettò a porgergli la mano.

– Nika è al laboratorio. Sta bene. Solo, come dire, è avanti dieci anni da qui. Stiamo cercando di rimettere un po' d'ordine nel caos, sempre che sia possibile.

– Stai dicendo che sei piombato qui dal futuro? – domandò Nikolaj, che ancora non riusciva a raccapezzarsi.

– Sì. Non ne ho potuto fare a meno. Sono venuto per bloccare Kirill.

– Sei venuto per avvertirmi del pericolo? – disse l'amico, con gratitudine.

– Esatto. Sono dieci anni che ci domandiamo che cosa ti abbia spinto a usare questa macchina senza nemmeno aver iniziato la fase sperimentale. È stato un vero suicidio. Cioè, lo sarebbe stato. Ma perché diavolo volevi farlo?

– Volevo avvertire Nika e anche te, che stavano per rapirvi.

– Grazie del pensiero e dell'atto eroico. Ce la siamo cavata ugualmente, come vedi. In ogni caso, lascia perdere il Cronoshift, tanto li distruggeremo tutti. Dedicati a qualcosa di meno pericoloso.

Teodoro guardò l'orologio.

– Adesso devo proprio scappare – disse, mettendosi a correre.

Non appena superata la porta del laboratorio, Teodoro fece appena in tempo a compiere un passo di lato, che la forza attrattiva di un vortice magnetico lo risucchiò.

Kirill lo rincorse, chiamandolo, ma uscendo dal laboratorio lo cercò intorno inutilmente.

Rientrando, Kirill guardò Nicolaj, sconsolato.

– È sparito.

– Hanno trovato anche il modo di tornare al punto di partenza – commentò Nikolaj.

– Già. Sono molto più avanti di noi.

– Dieci anni, direi – osservò Nikolaj, sogghignando.

 

            *Nika era affondata nella sua amata poltrona da giardino, i piedi nudi sprofondati nel cuscino morbido di un pouf, un kvas sul tavolino e lo sguardo impegnato a inseguire le nuvole, mentre giocava con le sue treccioline. Era appena trascorso un anno da quando aveva deciso che quella sarebbe stata la sua dimora. Non se n'era mai pentita. Vlad sfogliava una rivista alla tenue luce del tramonto, seduto accanto a lei.

– Pianeta chiama Nika.

La donna smise di attorcigliare alle dita le sue treccioline e scese dalle nuvole.

– Stavo pensando a quanto mi piaccia vivere qui. Questa luce particolare, questa città incredibile, l'atmosfera che si respira, questa casa. Qui tutto mi fa stare bene. Persino tu. Mi ci potrei fermare per tutta la vita.

– Già, anch'io.

Vlad diceva sul serio.

– Domani è il gran giorno? – domandò poi, chiudendo la rivista.

Un forte calpestio li fece voltare. Dalla siepe laterale sbucò improvvisamente Ubaldo.

– No, domani non sarà il gran giorno, mi dispiace. Nika, Vlad, prendete subito il vostro aereo e tornate a casa.

– Da dove sbuchi? Come ti sei conciato? Che diavolo stai dicendo?

Ubaldo indossava una divisa militare mimetica. Aveva i capelli rasati e la barba cortissima. Nella semioscurità dell'imbrunire sembrava più robusto, più eretto, ma anche invecchiato, con un'espressione stanca. Guardò il suo orologio.

Fu Vlad a chiedere invece:

– Che cosa sta succedendo?

– Avete mancato di farmi l'unica domanda sensata. Non mi trovate cambiato? Dovreste chiedermi da quale tempo arrivo. Ve lo dico io. Vengo da un tempo in cui c'è la guerra totale. Una guerra senza frontiere, senza esclusione di colpi, in cui ogni nazione è impegnata per la conquista di un Cronoshift, mentre quelli che già lo possiedono tentano di cambiare il passato a loro vantaggio. Tu, Nika, sei stata rapita e costretta a perfezionare la tua macchina per conto degli americani. Kirill ne ha costruita una per i russi. I giapponesi e gli svizzeri hanno approfittato dei vostri studi per assemblare i loro congegni. I cinesi hanno hackerato i programmi americani e rubato i progetti della tua macchina. C'è il caos assoluto, il tempo si è lacerato e l'unica soluzione che abbiamo trovato per salvare questo mondo è stato distruggere tutte le maledette macchine. L'ultima che era rimasta era la tua, Nika, ma in questo stesso momento i miei uomini la stanno disintegrando. Avete due ore per raccogliere un po' di abiti e partire.

– Perché due ore? Ormai che fretta c'è? – domandò Vlad.

– Perché tra poco più di due ore verranno a rapire Nika.

– Hai detto che sul vettore del tempo c'è il caos più totale. Come fai a essere sicuro che qualcuno non sia tornato ancora più indietro di te e non abbia già cambiato anche questo? – disse Nika.

Ubaldo si strofinò il viso, come a cancellare la stanchezza.

– Perché indietro siamo appena stati ed è tutto come ce lo ricordiamo, fino a oggi. È questo il momento esatto su cui intervenire.

– Sempre che ti trovi sul vettore giusto. Se il tempo si è lacerato, come dici tu, potresti trovarti in un'altra sequenza di avvenimenti del campo unificato.

– No, sono sicuro che fosse tutto come me lo ricordavo.

– E va bene, ma io non voglio salire su nessun aereo. Vlad, prendiamo la macchina e rifugiamoci da qualche parte per qualche giorno. Poi vediamo.

Vlad non rispose. Si alzò dalla poltrona e si avvicinò a Ubaldo.

– Se tutti i congegni sono stati distrutti, tu come tornerai al tuo tempo?

– Il mio tempo non esiste ancora, e spero che non esista mai, non lo capisci?

– Allora dovrai rifarti una vita qui?

– No, io sono già morto.

– Che vuoi dire?

– Voglio dire che la mia missione è finita. Tra poco svanirò nel nulla.

– Questo è un effetto del Cronoshift? – domandò Nika, stupita per non averci mai pensato.

– No è un effetto dello smaterializzatore che ho indosso e che mi farà implodere tra – Ubaldo guardò l'orologio – adesso.

Ubaldo sparì in una cascata di scintille azzurre e viola che svanirono immediatamente, nel più agghiacciante silenzio, mentre Vlad faceva un salto indietro.

Dopo un momento, ammutoliti, Nika e Vlad si guardarono. Poi corsero a fare i bagagli.

 

            *La telefonata giunse del tutto inaspettata. Quando Vlad vide sul display chi lo cercava, rispose a voce bassa, ascoltando con attenzione gli ordini che gli venivano impartiti. Avrebbe voluto chiedere il perché, ma sapeva che non doveva farlo.

Il Piper atterrò con la delicatezza di una farfalla. Ad attendere i passeggeri c'era già una limousine bianca. Vlad discese la scaletta portando in braccio Nika, ancora addormentata. La depose sul sedile posteriore libero e poi si sedette accanto a Nicolaj Zakharov. Si salutarono con una stretta di mano, mentre l'autista ingranava la prima per mettersi in marcia.

– Gliel'ho riportata sana e salva, come mi ha ordinato.

– Sì, vedo – disse Zakharov – Il peggio verrà quando si sveglierà.

– Non la prenderà affatto bene. Se lo ritiene necessario, potrei legarla.

– Per carità! - rise Zakharov – Non la conosci ancora abbastanza? Non hai capito con chi hai a che fare?

– È proprio per questo che consiglierei di legarla mani e piedi. In ogni caso potrei somministrarle un'altra dose di sonnifero, se si svegliasse troppo presto.

– No, siamo quasi arrivati. Ci sarà anche sua madre. In nostra presenza resterà calma.

– Me lo auguro – sospirò Vlad.

– Tra poco atterrerà l'altro aereo. Kirill Teffi è stato costretto a sedare anche Teodoro Sabri. La consistente somma di denaro che gli ha offerto da parte mia non è stata sufficiente a convincerlo. Mi piace già quel ragazzo. Sai se per caso è nata una storia tra lui e Nika? Mi piacerebbe un genero onesto e incorruttibile.

A Vlad si contorsero leggermente le budella, ma rimase impassibile.

– No, hanno solo rapporti strettamente professionali.

– E con te?

Vlad trasalì.

– Io sono un professionista, signor Zakharov. Mi attengo agli ordini del committente.

– E le cenette? Le serate al chiaro di luna in giardino? Non mi pare di averti ordinato anche quelle.

Come lo sapeva? Gliel'aveva raccontato Nika?

– Si deve pur mangiare e prendere aria ogni tanto.

– Sì, certo. Nika sa chi sei?

– No.

– Molto bene. Allora ti farei scendere qui – disse – indicandogli la stazione dei treni – Il tuo ingaggio è terminato.

Poi bussò al vetro che li separava dall'autista, che frenò dolcemente fino a fermare il veicolo.

Vlad scese dalla limousine. Aveva lasciato i bagagli e Pitone sul Piper. Non gli restava che tornare indietro a prenderli. Si sentiva stanco e svuotato e gli sembrava di aver lasciato molte cose in sospeso. Una soprattutto, che gli provocava crampi allo stomaco. Mentre l'auto riprendeva la sua marcia, la seguì con lo sguardo, colpito a tradimento da una sorda disperazione. Cazzo!

            Il treno era quasi vuoto, quando prese posto su un sedile accanto al finestrino. Aveva ragione Zakharov.  Sicuramente meglio ritrovarsi per genero uno scienziato, ricercatore geniale, fisico d'eccellenza, probabilmente prossimo al premio Nobel, piuttosto che un mercenario allenato a uccidere e spiare, in vendita al miglior offerente. Non c'era confronto. E poi che cosa stava rimuginando? Nika gli aveva sempre dimostrato la sua più totale indifferenza. Lo tollerava, ma a volte mostrava la sua insofferenza. Già da tempo, se avesse potuto, lo avrebbe volentieri spazzato via dalla sua vita. 

E lui? Come aveva potuto arrivare a quel punto? Al momento di insediarsi nell'appartamento sull'Aventino, per lui Nika era solo un problema, una ragazza ricca e viziata da proteggere, soprattutto da sé stessa. La minaccia della banda di estorsori era presto svanita, anche se di comune accordo avevano deciso di non informarne Nika, altrimenti c'era il rischio che non sopportasse più la sua presenza. E invece lui era stato investito di un secondo e ben più importante compito: quello di seguire i suoi progressi con il Cronovisore, su cui Zakharov voleva mettere le mani. Era stato lui a ingaggiare Kirill Teffi, anni addietro, per studiare la possibilità di ricostruirlo. Solo per caso Nika aveva trovato i ritagli di giornale che suo padre aveva lasciato in un cassetto della scrivania. Il suo entusiasmo aveva fatto il gioco di Zakharov, sebbene quest'ultimo si fosse ben guardato dall'informare Nika dei suoi progetti. Nika era un cane sciolto, una mina vagante. Faceva solo di testa sua e solo quello che voleva. Lasciandola libera di agire, Zakharov si era assicurato una seconda possibilità di riuscire nell'impresa. E ancora una volta ne usciva vittorioso. Ora che le apparecchiature stavano per raggiungere i suoi laboratori, Nika, Teodoro e Kirill avrebbero potuto condurre a termine il progetto, sotto lo sguardo attento di Zakharov e dei suoi più stretti e fidati collaboratori. 

E lui, che aveva vissuto al suo fianco per un anno intero, e che un poco alla volta si era innamorato di lei – sì, doveva ammetterlo almeno con sé stesso, si era innamorato di lei – ora veniva ricacciato lontano, come uno straccio vecchio che non serviva più. Brutta storia, l'amore, quando ti prende a tradimento. Non voleva nemmeno pensare al momento in cui Nika si sarebbe svegliata e avesse saputo quello che le aveva fatto. Meglio dileguarsi nel nulla, come quella nullità che era. Nika l'avrebbe ucciso. L'autocompatimento non è che il primo gradino del declino, pensò Vlad scendendo dal treno. Concentrato nei suoi pensieri, con lo sguardo fuori dal finestrino, non aveva visto nemmeno un singolo fotogramma del film che gli scorreva davanti. E anche questo era un pessimo segno.

Noleggiò una vettura e andò a raccogliere i suoi bagagli. Pitone fu il primo a salire in macchina. Adesso che non gli serviva più, avrebbe potuto lasciarlo a qualche negozio di animali o a un rettilario, ma non se la sentì di separarsene. Non ancora. Forse mai.

 

            *Erano le nove di mattina di una splendida domenica di primavera. Ubaldo e Ludovico parcheggiarono la macchina fuori dal grande cancello chiuso e scesero. Fatti pochi passi, Ubaldo aprì con le sue chiavi il cancelletto laterale, che attraversarono per raggiungere il laboratorio. Ma, giunti lì, si fermarono a osservare la porta, stupiti. La targa 11/11 era stata rimossa. Al suo posto pendeva un cartello affittasi, nuovo di zecca.

– Strano. Molto strano. Perché ci avevano invitati qui se già avevano sbaraccato?

– È successo qualcosa. Nika mi avrebbe informato se avesse deciso di chiudere il laboratorio.

– Ma no, l'avrà trasferito. Magari è convinta che sia troppo pericoloso fare questo genere di esperimenti in una zona dove ci sono anche abitazioni. Ha deciso il trasferimento all'improvviso e starà allestendo il nuovo laboratorio in aperta campagna, chissà dove, in una zona isolata, deserta.

– Sì, magari proprio in mezzo alle dune del Sahara – commentò Ubaldo, sfoderando il suo sorriso ironico.

– Per questo ha rimandato l'incontro. Quando sarà pronta, ce lo farà sapere e ci dirà dove raggiungerla.

– Ma che fine ha fatto Teodoro? Perché non risponde al telefono nemmeno lui?

– Devono essere finiti in un luogo sperduto, dove non c'è campo.

– Hai ragione, è l'unica spiegazione.

– Allora non ci resta che andare a correre a Villa Pamphili. O tornare a casa e rimetterci a letto.

– Le suore del Sant'Onofrio faranno una denuncia di scomparsa di persona, se non mi faccio vedere almeno per un minuto.

– Ma che aspetti a lasciare il convento? Vieni a stare da me.

Ubaldo deglutì vistosamente.

– Corri troppo, Ludovico. Devi concedermi un po' di tempo. Sto ancora cercando di elaborare cosa mi sta succedendo.

– E va bene, concesso. Però adesso andiamo a correre sul serio. Villa Pamphili ci aspetta.

            Dall'abitacolo dell'Audi parcheggiata sotto i pini, Vlad li osservò andare via. Era chiaro che loro non sapevano niente. Aspettava che qualcuno dalla Vojska Informacionnych Operacij o dalla FSB si facesse vivo. I suoi ex-colleghi si stavano concentrando sulla ricerca di movimenti inusuali nelle basi americane, mentre alla VIO cercavano di intercettare qualche comunicazione attinente. Il reparto per le operazioni d'informazione era costituito da matematici, programmatori, ingegneri, crittografi e traduttori, e tutta questa intelligenza in azione doveva pur portare da qualche parte. Vlad ci sperava. Non gli restava che tornare a casa e mettersi in attesa davanti al computer. Inoltre avrebbe nutrito Pitone, che non mangiava da due settimane. Questo gli avrebbe permesso di allontanarsi   per qualche giorno, ma Vlad pensava che in ogni caso sarebbe stato meglio lasciarlo in custodia a un rettilario. Attendeva notizie prima di prendere qualunque decisione.

In quel momento in cui avrebbe voluto soprattutto entrare in azione, dover attendere con le mani in mano era un incubo. Entrò nella sua cucina, che non usava mai, e tirò fuori dal freezer un bel topo grande. Quindi lo mise a scongelare nell'acqua calda. Poi passò nel soggiorno comune, accese il suo portatile e lo lasciò aperto sulla posta elettronica, mettendo al massimo il volume delle notifiche. Si chiedeva ancora come avessero fatto i rapitori a drogare il vino, come fossero entrati, come fosse possibile che non avessero lasciato tracce. Tutti gli allarmi erano attivi, tranne quelli della vetrata che dava in giardino. Ma lui e Nika erano seduti proprio davanti a quella portafinestra. Se qualcuno si fosse avvicinato, l'avrebbero visto. Vlad non si dava pace. Non solo avevano portato via Nika senza far scattare gli allarmi, ma avevano anche prelevato del vestiario dalla sua camera da letto, dove aveva trovato cassetti aperti e svuotati. Una cosa del genere non l'aveva mai sentita. Che razza di rapitori erano?

Un attimo. Aspetta un attimo, Vlad. Sicuro che Nika sia stata rapita? E se invece proprio lei ti avesse drogato per toglierti di mezzo, mentre si preparava la valigia per poi andarsene con tutta calma, uscendo dal cancelletto del giardino?

Così tutto quadrava. Tutto, tranne il computer lasciato nel suo studio. Vlad balzò

verso lo studio di Nika, spalancandone la porta. La scrivania era vuota. Nika si era portata via anche il computer. Sì, decisamente così tutto quadrava: quello non era stato affatto un rapimento, ma una fuga. Una fuga da chi? O da che cosa? E perché non coinvolgerlo? Cosa temeva da lui? Vlad si accasciò su una poltrona, davanti allo sguardo remoto di Pitone.

 

            *La signora Jana e suo marito Nicolaj Zakharov aspettarono pazientemente che Nika riaprisse gli occhi.

– Non la trovi dimagrita? – disse Jana, con un accenno di preoccupazione.

– Mi sembra di sì, ma scommetto che lei ne sarà contenta – commentò suo marito.

– Non si è fatta ricrescere i capelli. Secondo te quando si stancherà di questo look?

– Se nessuno mostrerà più di stupirsi o farà commenti in proposito, vedrai che sentirà il bisogno di cambiare.

– Non mi sembra di vedere nuovi tatuaggi.

– E dove? Ormai ha esaurito gli spazi, mi pare – disse Nicolaj che odiava quella devastante mania di sua figlia come poche altre cose al mondo.

– Si vede che ha avuto tanto da fare.

– Si vede che stava bene, che era contenta. Quel Teodoro deve piacerle. Che dici? Non sarà ora che si sposi e che ci faccia qualche nipotino?

– Per carità! Fa' che non ti senta! L'ultima volta che gliel'hai detto è sparita per sei mesi. Non te lo ricordi?

Nicolaj guardò la figlia che iniziava a muoversi e fece un ultimo commento sottovoce.

– Non metterà mai la testa a posto.

In quel momento squillò un telefono e Nika spalancò gli occhi. Li vide. Si guardò intorno, incongruamente guardò il suo orologio, poi si strofinò il viso. Aveva lo sguardo smarrito. Si lamentò.

– Sto ancora sognando? – disse.

Jana e Nicolaj si precipitarono ad abbracciarla.

– No, tesoro, non è un sogno. Sei davvero a casa. Non vedevo l'ora che tornassi. Adesso è tutto a posto.

– Che cosa è a posto, mamma? – disse Nika, con la voce impastata.

– Sei qui con noi! Sei a casa tua!

Il telefono cessò di suonare.

– Beh, sì, lo vedo, ma come ci sono arrivata?

– Ti ha accompagnata Vlad – rispose Nicolaj.

– Accompagnata o rapita? Mi ha drogata? Cazzo, la mia testa! – si lamentò di nuovo, stringendosi le tempie.

– Ti ha riportata qui perché anche noi stiamo lavorando al Cronovisore. Avevamo bisogno di te, Nika. Abbiamo trasferito anche le attrezzature del tuo laboratorio e tra poco ci raggiungeranno Teodoro e Kirill.

– Ma che cosa stai dicendo? Non capisco niente. Kirill? Che c'entra Kirill? Non collabora più con noi, quell'infame.

– Beh, diciamo che collabora con me.

– Spiegati meglio – disse Nika, che nonostante il mal di testa, la confusione, il piacere di rivedere i suoi genitori, si stava comunque innervosendo sempre più.

Nicolaj decise che era meglio dire la verità, solo la verità, tutta la verità. E lo fece.

Nika non la prese troppo bene. Avrebbe voluto sbatterli fuori, ma si ricordò che quella era casa loro. Si guardò intorno. Mancava qualcosa. Anzi, qualcuno. Qualcuno che doveva pagargliela a caro prezzo.

– Dov'è Vlad?

– Non saprei. Il suo ingaggio è finito. Starà tornando a casa sua.

Nika avrebbe voluto urlare. E invece con voce tranquilla domandò:

– E dov'è casa sua?

– Non l'ha detto certo a me. Non lo so. Ma non abbiamo più bisogno di lui, stai tranquilla.

– Non ti sembro tranquilla?

Troppo tranquilla, pensò Nicolaj, avvertendo un vago senso di allarme.

– Immagino che avrai fame. Ti ho preparato qualcosa da mangiare – s'intromise Jana.

– Non mi dispiacerebbe. Poi voglio andare a vedere se le mie attrezzature sono arrivate sane e salve. Papà, avverti i tuoi collaboratori che se qualcuno osa toccarle, io... io... – Nika s'interruppe, perché non trovò una minaccia sufficientemente adeguata.

– Ho capito. Non ti preoccupare. Hanno l'ordine preciso di non aprire i colli.

            Ben diversa fu la reazione di Teodoro. Mentre Nika era stata rapita per essere riportata a casa, Teodoro Sabri si trovava lontano da casa contro la sua volontà. Si trovavano nel laboratorio numero 11/11 della Zakharov Promyshlennost. Nicolaj aveva voluto porre all'ingresso una targa che li facesse sentire proprio come a casa, ma la risposta di Nika a quella vista fu uno sguardo schifato rivolto al padre. Teodoro, da parte sua, non solo era sconvolto, ma anche molto più aggressivo di quanto fosse mai stato. Le spiegazioni e le rassicurazioni di Zakharov ebbero l'effetto di fascine secche buttate sulle braci di un falò. Kirill, che tentò di riportare la calma, rischiò seriamente un pugno in faccia. Alla fine, visto che le cose si stavano mettendo davvero male, fu Nika, che si sentiva in colpa a causa dei torti del padre, a ricondurlo alla calma con un ragionamento razionalmente ineccepibile. Scesero a patti. Zakharov aumentò la cifra in modo che Teodoro si trovasse costretto ad accettare. Gli stava offrendo un lavoro, dopo tutto, anche se lontano da casa: gli si chiedeva solo di continuare a fare esattamente quello che stava facendo a Roma. Niente di diverso, niente di più. Una copia del Timeshift era già stata riprodotta da Kirill. L'originale del nuovo Cronovisore stava per essere estratto dai colli del trasloco. Quando le acque si furono calmate, Zakharov comprese che la sua presenza era deleteria, quindi, una volta accertatosi che Nika si era schierata dalla parte giusta - cioè la sua - si congedò, lasciandoli soli.

Nika si guardò intorno.

– Bene, siamo rimasti soli. Dimmi, Kirill, è vero che anni addietro hai ricostruito il Cronovisore di Ernetti e che poi l'hai smontato di nuovo?

– Come lo sai?

– Tu dimmi solo se è vero.

– Sì, lo ammetto.

– E ha funzionato? – domandò Teodoro.

– No. Secondo me mancavano dei pezzi, però mi ha dato parecchie idee per il Timeshift.

– Quindi dev'essere stato lo stesso Ernetti a sottrarre i componenti per impedire che chiunque altro potesse ricostruirlo.

– Deve aver saputo della scomparsa di De Rosa – suppose Teodoro.

– Di che scomparsa stai parlando? – disse Kirill.

– Mentre lui ti aggiorna, io me ne vado a casa. A proposito, Kirill, avete trovato un alloggio per Teodoro?

– Certo. Ce lo accompagno io. Sarete vicini di casa.

– Bene. Mi fa molto piacere. Allora io vado, sono stanca. A domani.

Teodoro la bloccò con una mano.

– Non vuoi accertarti che il trasloco non abbia procurato danni alle attrezzature?

– Domani. Rimandiamo tutto a domani. Adesso sono davvero troppo stanca. Mi sento come se mi fosse passato sopra un tir.

Nika si congedò, lasciandoli soli. Intanto ringraziò mentalmente Vlad che dopo averla sedata si era preoccupato di infilarle nelle tasche il cellulare, le carte di credito, i documenti e persino le chiavi del suo appartamento di Khimki. Sfilando le tesserine da una tasca, vi trovò il biglietto da visita di uno sconosciuto, sul retro del quale erano scritte poche parole: "Scusami. Ho solo eseguito gli ordini".

Vlad! Vlad che cercava di scusarsi. Certo, voleva deviare la sua ira sul padre. Ma Nika sapeva già di chi era la responsabilità di quel casino. Ancora una volta osservò il biglietto da visita. Era di un certo Danil Lukin, Gagarina 115, Kaluga. Perché Vlad aveva scritto il suo messaggio dietro quel biglietto da visita? Chi era Danil Lukin?  Quello doveva essere il vero nome di Vlad. Un nome che non le aveva mai voluto rivelare. Ma perché farlo proprio adesso che il suo ingaggio era finito e le loro strade si erano divise? Erano trascorse solo poche ore e già le mancava la casa sull'Aventino, le mancavano i tramonti spettacolari, i monumenti con le stratificazioni delle epoche, così visibili, così incredibili. E poi le mancava Vlad. Come aveva potuto andarsene senza neanche salutarla? Ma certo! Aveva eseguito gli ordini. Se lo immaginava benissimo Nicolaj Zakharov che lo congedava con distacco: "Ottimo lavoro, Vlad Petukhov. Puoi andare. Non ho più bisogno di te."

Nika afferrò il cellulare e chiamò Vlad, ma una voce metallica rispose che quel numero era inesistente. Come aveva fatto presto a tagliare i ponti!

Poi salì su una delle piccole utilitarie di servizio sempre parcheggiate nel grande piazzale davanti al fabbricato e guidò fino a casa, raccogliendo per la strada i suoi pensieri sempre più cupi. La palazzina gialla a due piani, vicina alla scuola Vostok, non sembrava aver subito cambiamenti. Dall'altra parte della strada, il bosco di querce ostentava quella quiete che era il motivo per cui Nika aveva voluto andare a vivere proprio in quella costruzione, anche se gli appartamenti erano piccoli e lei ci viveva così poco, conducendo una vita nomade, sempre a rincorrere gli scavi più recenti, curiosa di nuove scoperte. Salì le scale e infine spalancò la porta. Sul pavimento, a un metro dall'uscio, c'era un foglio di carta con un avviso a caratteri cubitali: "Attenzione! Qui è pieno di microspie. Non dire una parola."

Nika si chinò a raccoglierlo, titubante, chiedendosi chi mai si fosse preoccupato di darle quell'avvertimento. Mentre si rimetteva in piedi, qualcuno le tappò la bocca con la mano. Per la sorpresa Nika tentò di urlare, ma quel qualcuno si spostò di fianco a lei con un dito alle labbra, per ingiungerle di stare zitta. Era Vlad. Nika annuì, sorpresa, sopprimendo un nuovo urlo che voleva esplodere dalla sua gola. Vlad le liberò la bocca, poi le fece segno di uscire.

Quando furono in strada, Nika gli si parò davanti.

– Che diavolo ci fai qui? Con che coraggio...

Eppure non era quello che avrebbe voluto dire.

– Stai calma. Adesso ti racconto tutto, ma prima togliamoci dalla strada. Facciamo una passeggiata nel parco e cerchiamo di non dare nell'occhio.

– Ma che cos'è questa storia? Sei impazzito?

– Sì, forse.

In mezzo agli alberi, i rari rumori provenienti dalla strada erano attutiti. Il terreno era ancora duro e freddo, impedendo all'erba di crescere rigogliosa: la primavera di Roma era lontana.

Vlad si voltò a guardarla. Nika notò che per una volta non le mostrava il suo volto impassibile, ma aveva un'espressione seria e preoccupata.

– Il mio vero nome è Danil Lukin e prima di fare la guardia del corpo ero un agente del FSB.

– Allora avevo ragione! Ma perché mi hai lasciato in tasca il tuo biglietto da visita? Speravi che ti venissi a cercare?

– No, e poi non abito più lì. Nella fretta del momento è stato il primo pezzo di carta che ho trovato. E sì, avevi ragione, ero un agente, ma ora non più, anche se certi legami non si possono interrompere completamente. Diciamo che sono un agente non attivo. Però ho mantenuto molti contatti con l'agenzia e durante quest'anno a Roma ho fornito e ricevuto molte informazioni. Stamattina, quando tuo padre mi ha congedato, in un primo momento ho pensato che dovevo togliermi di mezzo, che questa storia non mi riguardava più, ma poi ho saputo una cosa che mi ha fatto capire che tu, qui, sei in pericolo.

Nika stava per parlare, ma Vlad le posò una mano sulla bocca.

– Fammi finire, per una volta. La banda di estortori che perseguitava tuo padre era un falso. Ha mentito anche a me. Il vero scopo di questa operazione, è trasferire il nuovo Timeshift al Centro Studi Aerospaziali, non appena sarà in grado di funzionare. Diventerà immediatamente segreto militare e tu ti potrai scordare i tuoi studi sulla storia antica. Inoltre è certo che tutti quelli che hanno contribuito alla sua realizzazione saranno costretti a tenere la bocca chiusa, e qualcuno per sempre.

– E mio padre lo sa?

– Credo di no. Altrimenti non avrebbe messo a rischio la tua vita. Del resto tu ti ci sei trovata per caso. Se ben ricordo, si è trattato di una tua iniziativa, non te l'ha suggerito lui.

– Questo è vero.

Nika scalciò un piccolo sasso. La sua velocità di analisi l'aveva abbandonata. La sua sicurezza, tutte le sue certezze, i progetti per il futuro, la sua vita stessa, le sembrarono svanire in un vortice buio. Il classico orlo del precipizio era in attesa che lei facesse un passo. Guardò Vlad dritto negli occhi.

– Che devo fare?

– Qualunque cosa tu decida, ricordati che ti stanno controllando. Nel tuo appartamento ho contato almeno una decina di cimici. Sappi che qualunque parola dirai tra quelle mura sarà registrata e ascoltata. E con tutta probabilità la stessa cosa accadrà nel laboratorio dove lavorerai. Ma purtroppo c'è di più. Temo che l'agenzia voglia appropriarsi dell'apparecchiatura.

Nika sospirò.

– Lo sai, non ho più tanta voglia di lavorare a quella macchina infernale. Aveva ragione Ernetti, e aveva ragione anche Ubaldo. Potrei mollare tutto e tornare ai miei scavi. Potrei tornare a Roma e ricominciare tutto da capo.

– Fossi in te non ci rimetterei piede per niente al mondo. Se vuoi davvero riprendere la tua vita da dove l'hai interrotta, devi trovarti un altro posto e un altro nome. Anche un nuovo look, suggerirei.

Nika si avvolse le treccine tra le dita, contrariata.

– Mi mancheranno.

– Immagino. Ma i capelli sono l'ultimo dei tuoi problemi. Il vero guaio sono i tatuaggi. Dovresti andare in giro con un burqa, per non farti riconoscere.

– Sai che questa è un'idea?

– Oppure sottoporti a qualche fastidiosa seduta di laser. Conosco un ottimo centro, a San Pietroburgo, è una clinica molto privata, di cui si serve l'FSB.

– Preferirei il burqa.

– Lo so.

– Ci devo pensare.

– Va bene, ma ti consiglio di farlo in fretta.

– E Teodoro? Ti pare giusto abbandonarlo a sé stesso?

– Sei libera di avvertirlo. In ogni caso, io vi posso aiutare. Se decidete di sparire, ho i canali giusti. Solo che mi dovete dare un paio di giorni per organizzare tutto.

– Potremmo usare il mio Piper.

– Scordatelo. Quello è rintracciabile. Per passare inosservati dobbiamo usare mezzi di trasporto comuni, mimetizzarci in mezzo alla gente.

– Dobbiamo? Perché, verresti anche tu?

Il volto serio e tirato di Vlad si distese in un sorriso ironico.

– Non sono forse la tua guardia del corpo?

Anche Nika sorrise, maliziosamente.

– Mi sembrava di aver capito che il tuo ingaggio è finito.

– Ah, è vero, dimenticavo. Allora non se ne fa niente.

Nika si fermò vicino al tronco di un albero gigantesco. La strada e i palazzi non si vedevano più. Si era chiesta tante volte cosa avesse prodotto in lei quel graduale ma inesorabile cambiamento nei confronti di Vlad. All'inizio lo odiava.  Considerava la sua presenza un peso difficile da sopportare. Ma con il trascorrere dei mesi, la sua vicinanza si era quasi trasformata in una necessità.

– Questa mattina, quando mi sono svegliata, ti ho cercato. A dire il vero, quando ho capito che cosa mi avevi fatto, avrei voluto picchiarti. Ma da quando mi hanno detto che te n'eri andato, l'idea di non rivederti più mi ha angosciata. Poco fa, quando mi hai sorpresa in casa, avrei urlato, è vero, ma non di spavento. Quando ti ho riconosciuto, volevo urlare di felicità.

Con delicatezza, Vlad la spinse contro il tronco della quercia. Quello era il momento, o mai più.

– Io sono follemente innamorato di te, Nika. Che devo fare?

Nika gli sorrise.

– Di solito ci si bacia, tanto per cominciare. Tu sai come si fa?

Vlad non perse tempo. La sua specialità era eseguire velocemente gli ordini, con la massima concentrazione.

– Niente male, Vlad. O adesso devo chiamarti Danil?

– Inutile, tra non molto cambieremo nome.

 

            *Venezia era ancora più bella di come se la ricordasse, forse perché dagli anni sessanta aveva avuto molti decenni per rovinarsi. Kirill approdò all'Isola di San Giorgio in cerca di padre Pellegrino Ernetti. Tra un paio di minuti l'avrebbe visto sbucare dal cancello. Gli andò incontro, sicuro. Puntualmente dal cancello sbucò una figura che incedeva con passo tranquillo.

– Padre Ernetti?

– Sì, sono io, mi cercava?

– Sì, padre. Vorrei parlarle in privato, è urgente. Riguarda la sua opera scientifica.

– Mi dispiace, non concedo interviste. E poi non c'è nessun'opera scientifica che mi riguardi. Io studio e insegno musica. È stato male informato.

– Padre, io vengo da un altro tempo. Ho studiato e ammirato il suo Cronovisore in Vaticano.

Padre Ernetti vacillò. Kirill continuò, quasi senza prendere fiato:

– Non finga con me, è del tutto inutile. Tra settant'anni la sua opera sarà ammirata e apprezzata in tutto il mondo. Ma il congegno corre un serio pericolo. Mi ascolti. L'uomo che verrà a ritirare il Cronovisore per portarlo a Roma è un impostore. Verrà per distruggerlo. Quindi, se non vuole che il mondo venga privato della sua immensa opera d'ingegno, metta negli scatoloni che gli affiderà solo materiale di scarto, rottami metallici, cavi inutilizzabili, faccia lei. Per quanto riguarda il Cronovisore invece, lo porti lei a Roma. Lo consegni di persona agli archivi vaticani. Mi sta seguendo?

Padre Pellegrino meditò per qualche secondo.

– Se l'uomo che verrà a ritirarlo è un impostore che lo distruggerà, lei come avrebbe fatto a studiarlo e ammirarlo?

– Perché anche lui viene dal futuro e il suo scopo è proprio quello di impedire che venga ricostruito.

Padre Ernetti lo fissò attentamente.

– Sì, ho capito. Quindi lei sostiene di venire dal futuro. E che prove può fornirmi? Sarei autorizzato a ritenerla un pazzo, se ne rende conto?

– No, non lei. Lei sa. Lei ha visto, non è vero?

Padre Ernetti sorrise lievemente, poi abbassò il capo, per un attimo.

– D'accordo, le voglio credere. Farò come dice. Però, sarò franco, quello che ho visto nel futuro non mi è piaciuto affatto.

– La capisco.

– E adesso lei potrà tornare da dove è arrivato?

– Sì, ho trovato il modo. Sono un fisico anch'io, sa? Ho elaborato insieme alla mia equipe una vera macchina del tempo. Ma senza il suo Cronovisore questo progresso non sarebbe mai avvenuto. Lei è un genio. La ringrazio a nome di tutta l'umanità.

Padre Ernetti, suo malgrado, si sentì gonfiare d'orgoglio. Gli toccava dunque il medesimo destino di tante eccelse menti umane, denigrate dall'ignoranza dei contemporanei ed esaltate dai posteri.

– Un'ultima cosa, padre. Non ometta nessun componente: farebbe soltanto ritardare il progresso dei nostri studi, ma non lo impedirebbe.

– Sa anche questo! – si sorprese.

– Non gliel'ho detto? Sono stato io a ricostruire il Cronovisore. E mancava qualche piccolo elemento. Invece gli appunti erano molto esaustivi e gli schemi chiarissimi. Grazie di tutto, padre.

Padre Ernetti si ricordò dei timori del Santo Padre.

– Non lo userete come arma per sottomettere altre nazioni, vero?

– Ma che dice? L'avvento dell'atomica ha reso impossibili le guerre.

Padre Ernetti non sembrò convinto.

– Certo, qualche scaramuccia con armi convenzionali c'è sempre, qui e là nel mondo, ma niente che non possa essere tenuto sotto controllo.

Per evitare di commettere errori fatali, Kirill decise che era giunto il momento di tacere. Aveva parlato fin troppo. Gli tese la mano, che padre Ernetti strinse con decisione, mentre pensava che gli sarebbe piaciuto viaggiare nel tempo come quel giovanotto fortunato.

Kirill si diede quasi alla fuga. Padre Ernetti, dopo averlo visto sparire ai suoi occhi, si rese conto di non sapere neppure il suo nome, ma finalmente si spiegò perché l'aveva visto nel Cronovisore.

 

            *Il comandante Ludovico La Rosa e la sua squadra si rifugiarono nel bunker sotterraneo, a poca distanza dall'aeroporto ormai deserto di Ciampino. L'intera città era stata evacuata in meno di tre giorni, così come tutte le grandi città del centro-nord. Un colossale successo, certo, ma i milioni di profughi che si erano dispersi nelle campagne erano allo sbando. La decisione dello Stato Maggiore era stata presa in considerazione delle perdite di Milano e Firenze, dove gli attacchi improvvisi avevano causato lo sterminio totale della popolazione, lasciando intatte le città, palazzi, strade, mura, monumenti. L'arma a raggi gamma utilizzata era lungi dall'essere nuova, ma non era mai stata impiegata prima, a dimostrazione che in quella guerra erano state superate tutte le barriere degli scrupoli umani. Del resto non c'era nulla di umano in quella guerra di tutti contro tutti, c'era solo la frenesia spasmodica e diabolica d'impossessarsi di un Cronoshift. Chi lo possedeva lo difendeva a ogni costo, e il costo umano era considerato irrisorio di fronte all'importanza di mantenerne un possesso esclusivo. Lo chiamavano rischio collaterale. Chi non lo possedeva, metteva in campo ogni arma possibile, purché non rischiasse di danneggiarne una. Il ridicolo della situazione era che i raggi gamma avrebbero distrutto tranquillamente un Cronoshift, qualora l'avessero colpito, ma sembrava proprio che nessuno dei loro nemici ne fosse a conoscenza.

            Nika, Vlad, Ubaldo e Teodoro erano nel laboratorio allestito all'interno del bunker, all'ultimo piano della struttura, quello più profondo, riparato e inaccessibile. L'ascensore si fermò con un piccolo sospiro, prima di aprire le porte con un avviso sonoro. La guardia accanto all'ascensore gli rivolse il saluto militare, al quale Ludovico rispose in fretta.

– Roma è deserta – annunciò entrando.

– E noi siamo in trappola come topi – disse Nika.

– Dobbiamo fare qualcosa – insistette Ubaldo per l'ennesima volta.

Anche lui indossava una divisa militare. Quando era stato il momento, non aveva avuto remore ad abbandonare l'abito talare, per sostituirlo con quella.

– Non si può andare avanti così. Questa guerra ci porterà alla distruzione completa, all'estinzione della razza umana. Dobbiamo fare un tentativo di riportare le cose come stavano prima che ci venisse in mente di costruire questo ordigno diabolico.

– Ubaldo, ti ricordo che mentre noi eravamo impegnati a ricostruire il Cronovisore, il mondo era già sull'orlo di un conflitto nucleare. – disse Nika – Chi ti assicura che la guerra non sarebbe scoppiata lo stesso, per un altro qualsiasi motivo?

– È vero, ma di quella guerra non mi sentirei responsabile. Se è destino dell'umanità scomparire in quest'epoca, scomparirà, ma senza il mio aiuto.

 Ludovico si buttò a sedere su una delle poltroncine distribuite nella stanza. Poi disse:

– Condivido il tuo ragionamento. L'unica soluzione sarebbe di eliminare tutte le macchine ancor prima che vengano costruite. Possiamo tornare indietro e mettere fine a questo incubo, prima che cominci.

– È esattamente il mio progetto – disse Ubaldo – ma ci andrò io. La colpa maggiore di questo disastro è mia. Il Timeshift da solo non avrebbe avuto simili ripercussioni. Il suo scopo era di spostare la materia da un luogo all'altro, non certo attraverso il tempo.

– Questo è vero – disse Teodoro – Io e Kirill non ci avevamo mai nemmeno pensato, fino a che voi non avete cominciato a lavorare al Cronovisore. Eppure Kirill è stato la prima vittima della sperimentazione.

"Forse la prima è stata mio nonno" pensò Ludovico.

Nika s'inalberò.

– Ti sei già dimenticato che Kirill ha semplicemente finto di non saperne niente? Ti sei dimenticato che ha ricostruito il Cronovisore prima di noi? E che ha sviluppato un Cronoshift prima di ogni altro? Anche se non perfetto come il nostro, bisogna dire.

– Già. Non ho mai capito perché avesse tanta fretta di provare l'efficacia del suo Cronoshift, senza prima testarlo come si doveva.

Ubaldo commentò:

– Ci sfuggono molte cose, perché i governi stanno mutando avvenimenti chiave del passato. Man mano che i giorni scorrono possiamo valutare quanto la realtà sia mutevole, a volte sfuggente. I nostri ricordi sfumano, le nostre certezze svaniscono. Il tempo ha subito una deformazione evidente. Per questo, prima che sia troppo tardi, lasciatemi tentare, vi prego.

– Se vai tu, vengo anch'io – disse Ludovico.

– Sarà una missione suicida. – affermò Ubaldo – Te ne rendi conto? Dopo la distruzione delle macchine, nessuno potrà tornare indietro.

– Io proporrei di tentare una piccola esplorazione nel futuro, per capire se l'impresa che avete in mente funzionerà – disse Nika.

– Ti sembra il momento di ricominciare con le sperimentazioni? Io sono convinto che neppure esista ancora, il futuro – disse Vlad.

– Ti sbagli. Da tutto questo caos, almeno una cosa abbiamo appurato: il tempo è un piano, non un vettore. Siamo noi ad avere un passato, un presente e un futuro, ma il tempo esiste tutto contemporaneamente. Il campo unificato teorizzato dalla fisica quantistica è reale. Il passato, il presente e il futuro sono eventi simultanei, sincronici. Per questo ci è possibile spostarci dall'uno all'altro indifferentemente. Quindi non c'è nessun motivo per cui non dovrebbe essere possibile andare a dare un'occhiata a quello che sarà tra un'ora, tra un giorno, tra un mese. Apriamo una finestra brevissima, solo per renderci conto se la nostra impresa avrà successo. Che differenza può fare una settimana?

– Lasciamo che Nika faccia le sue ricerche, mentre noi stabiliamo un piano – disse Ubaldo, con espressione rassegnata.

– Non sono d'accordo. Potrebbe essere questione di ore. Gli attacchi si susseguono a intervalli regolari di tre giorni. Già oggi potrebbe toccare a noi – disse Ludovico.

– Fino a questo momento siamo riusciti a depistare tutti. Pensano che il nostro Cronoshift sia al nord. Credo che abbiamo ancora tempo. L'evacuazione della popolazione da tutte le grandi città creerà ancora più confusione nel nemico. Non sapranno dove colpire. Il segnale del Cronoshift è oscurato. Non possono trovarci. Che fretta c'è?

– Va bene, Ubaldo. Facciamo come dici. Mentre Nika si dedicherà alla sua ricerca, noi tracceremo il piano d'azione. Spostiamoci in sala riunioni.

Tutti si alzarono, facendo un cenno di saluto a Nika. Quindi sciamarono in fretta fuori dal laboratorio.

            Vlad tracciò un grafico degli avvenimenti più salienti che avevano originato la situazione assurda in cui si trovavano.

– Ecco, io penso che se agiamo qui e qui dovrebbe bastare.

– E perché non prima?

– Ci vorrebbero più interventi e cambieremmo troppi avvenimenti.

– Ha ragione. Tu per esempio, Ubaldo, probabilmente non lasceresti Venezia, non diventeresti Archivista Capo e noi nemmeno ci conosceremmo – disse Ludovico.

– Io vorrei trovare un modo per salvare Kirill – aggiunse Teodoro.

– Io so come impedire a Nika di partecipare alla ricostruzione del Cronovisore di Ernetti – disse Vlad, all'improvviso.

– E io so come impedire che Kirill possa metterci le mani sopra, prima di tutti gli altri – disse Ludovico.

– E lavorando esclusivamente sul Timeshift, non avrà problemi. Invece io?

Ubaldo a quell'epoca non era ancora diventato Archivista Capo e non aveva ancora conosciuto Ludovico.

– Per te non cambierebbe nulla, una volta finita la tua ricerca senza trovare quello che cercavi, continuerai a vivere la tua vita.

– Allora è deciso? Votiamo per alzata di mano.

Tutti e quattro sollevarono il braccio.

– Bene, ci aggiorniamo. È ora che mettiamo qualcosa sotto i denti.

            Cinque giorni dopo, Nika si arrese. In un certo senso aveva ragione Vlad. Il futuro non esiste ancora. O meglio, esistono tutte le possibilità del futuro, ma non sapeva quale potesse essere il loro. Dipendeva da troppe variabili.

– Adesso che hai finito di giocare con quel coso, ti dispiacerebbe metterti a lavorare seriamente? – disse Vlad.

Nika si oscurò.

– Non sto giocando, Vlad Petukhov o come diavolo ti chiami. Dai risultati del futuro avremmo potuto trarre utili informazioni sul passato, su come e dove agire per ottenerlo. Ma a te in fondo non importa un fico secco dei risultati.

– Perché non dovrebbe interessarmi? – disse Vlad, cascando dalle nuvole.

– Perché a te non importa mai niente di niente.

– Cos'è questa novità? Certo che m'importa. M'importa di un sacco di cose, e la prima di tutte sei tu.

– Se è così non sei capace di dimostrarmelo.

– Davvero?

Vlad si avvicinò a Nika fino a sfiorarla. I loro volti erano a pochi centimetri di distanza. Sarebbe bastato un piccolissimo movimento per congiungere le labbra alle sue, ma Nika indietreggiò.

– Non qui.

– E non ora, ho capito. Allora concentriamoci sui nostri punti chiave. Devi trovare le coordinate esatte. Appena avrai fatto, andremo.

– Vai anche tu?

– Sì, ti mancherò?

Nika ignorò la domanda.

 

            *Ormai Nika aveva terminato la sua perlustrazione del futuro. Era chiaro che da quelle finestre non si poteva risalire a un passato univoco. Del resto era già consapevole che quando si studiano le strutture ultramicroscopiche dell’universo, il tempo perde la sua importanza. Diventa un ingrediente inutile. La mole delle probabilità doveva essere infinita, e sebbene ne fosse affascinata, non aveva il tempo per studiarle tutte. Se avesse avuto fortuna, però, avrebbe potuto imbattersi nel futuro ideale, nella soluzione più desiderabile, ma ciò non era accaduto. Non aveva trovato un futuro perfetto per cui battersi. Forse non c'era neppure quel mondo migliore, ma era convinta che si potesse creare, con i presupposti giusti. Intanto la sua vita stava correndo troppo in fretta. Aveva già quarantacinque anni e li aveva trascorsi tutti tra studi ed esperimenti, senza pensare alla sua vita. Che cosa aveva fatto per sé stessa? Che cosa aveva vissuto come essere umano? Se il loro progetto fosse andato in porto, distruggendo tutte le macchine, come sarebbe cambiato il loro tempo? Ubaldo e Ludovico stavano per imbarcarsi in una missione senza ritorno. Avevano deciso così, per non disturbare il flusso temporale in cui sarebbero tornati. Se ne sarebbe andato anche Vlad, ma le sue intenzioni erano ancora oscure. Di sicuro non l'avrebbe più visto. E questa certezza le provocava un dolore che non si aspettava. Aveva sbagliato tutto. E per lei non c'era ritorno. Avrebbe distrutto la macchina e poi si sarebbe dedicata ad altro. Ma sentiva di aver sprecato la sua vita inutilmente.

Ludovico interruppe i suoi pensieri, irrompendo nel laboratorio e salutandola a gran voce.

– Comandante.

– Nika, perdonami l'invasione. Spero di non aver interrotto niente d'importante.

– No, non preoccuparti. Che succede?

– Niente. Perciò approfitterei di questo momento magico per ricordarti una promessa che mi hai fatto molto tempo fa.

– Scusa, potresti rinfrescarmi la memoria?

– Volevo vedere qualcosa anch'io, ricordi? È stato prima che tu e Ludovico riusciste a creare il prototipo.

– Ah, sì. Adesso mi ricordo. Era la dimostrazione di Ernetti al Papa. La scomparsa di tuo nonno. Giusto?

– Giusto.

– Devo trovare le coordinate esatte. Ci vorrà del tempo, anche con gli schemi che abbiamo. Ma vedrai che sarà questione di poche ore.

– Grazie. Prima che tutte le macchine vengano distrutte, vorrei vedere come sono andate davvero le cose, quel giorno.

– Sai che se a trasferirlo è stato il Cronovisore, non sarò in grado di capire dov'è finito, vero?

– Ma saresti in grado di prelevarlo prima che scompaia, no?

Nika lo fissò intensamente per diversi istanti. La stava mettendo alla prova?

– Perché? Rischieremmo di cambiare troppe cose. Non mi pare sia la nostra politica. Anzi, stiamo combattendo proprio questo.

– Lo so – disse Ludovico – Hai ragione. Ma la tentazione è forte.

– Ti permetterò di vederlo, ma se vuoi di più, dovranno decidere tutti gli altri e dovrai sottostare alle decisioni che prenderanno.

Ludovico raddrizzò le spalle.

– No, lasciamo stare. Permettimi solo di vederlo, per favore.

– D'accordo. Ti chiamerò appena lo trovo. Adesso lasciami lavorare.

– Ti mando Teodoro, che se ne sta con le mani in mano di là, e sembra in preda a una crisi depressiva.

– Grazie, un po' d'aiuto non guasta.

Quella sera stessa, Nika lo andò a cercare nella sala comune, mentre Teodoro inseriva le coordinate sul Cronoshift. Lo trovò che giocava a scacchi con Ubaldo.

– Stiamo per aprire la finestra temporale che volevi, comandante.

Ludovico sobbalzò.

– Andiamo! – disse a Ubaldo.

Vlad sollevò la testa dal libro che stava leggendo.

– Vengo anch'io.

Vlad non era uno storico, non era uno scienziato, ma era dotato di una buona dose di curiosità.

Una volta nel laboratorio, si sedettero in semicerchio intorno al crono da cui sarebbero emerse le immagini olografiche. Sarebbe stato come essere lì.

Teodoro si accertò che fossero tutti seduti, poi avviò la sequenza.

 In un immenso corridoio rivestito di marmi e arazzi, Leopoldo e Sandro sbirciavano dalle serrature della grande porta. L'ampiezza della finestra permetteva di vedere il salone oltre la porta.

– Quello è padre Pellegrino Ernetti – disse Ubaldo.

– Si capisce chi è il Papa e chi è il Presidente, ma chi sono tutti gli altri? – domandò Ludovico.

Nessuno rispose.

Ernetti armeggiava con un monitor che sembrava uno scatolone nero. Una massa di cavi e scatole metalliche piene di manopole erano collegate ad altri due monitor più piccoli. Nel salone nessuno fiatava. Nel corridoio si videro Leopoldo e Sandro schizzare in piedi, posizionandosi ai lati della porta, giusto un attimo prima che passasse un cardinale. Ernetti continuava a sistemare le sue manopole, mentre Leopoldo riprendeva a spiare dal buco della serratura e Sandro si metteva quasi in mezzo al corridoio per controllare la situazione.

Ernetti si schiarì la voce. Poi si voltò a guardare il Papa.

– Santità, sono pronto. Posso iniziare?

Con un cenno del capo, il Papa concesse il suo assenso. Fuori dalla porta, Leopoldo si spostò per dare il cambio a Sandro. Ernetti girò ancora qualche manopola e all'improvviso sul monitor apparvero delle immagini a colori.

– Vedi che non mi aveva mentito? – disse Ubaldo a Nika – Le immagini sono a colori.

– Ma non si sente niente – disse uno degli ospiti vicino al Papa.

Ernetti girò al massimo una delle sue manopole. Si udì un fischio lancinante e in quello stesso istante Sandro e Leopoldo si accasciarono sul pavimento di marmo, con le mani alle orecchie. Nel salone tutti fecero lo stesso gesto.

Nika, Ubaldo, Teodoro, Ludovico e Vlad dovettero imitarli.

Un militare vicino a Ernetti si precipitò a staccare la spina.

– Che diavolo ha combinato? – disse Ubaldo.

Nell'ologramma si vide chiaramente Sandro che si rialzava e si allontanava con l'aria imbambolata di un sonnambulo. Subito dopo anche Leopoldo si alzò e si avvicinò alla porta, osservando il posto esatto in cui poco prima si trovava Sandro. Poco dopo si mise a correre in direzione opposta chiamandolo.

– Non è affatto scomparso come immaginavamo noi – disse Ludovico.

– Quel suono deve avergli creato un grosso problema. Voi state tutti bene?

Tutti risposero affermativamente, tranne Vlad, che restò immobile, con lo sguardo fisso sulle immagini che ancora scorrevano in mezzo al laboratorio.

Nel monitor di Ernetti era apparso Kirill che parlava con lui. Sullo sfondo c'era il mare.

– Ma quello è Kirill! Che diavolo ci fa con Ernetti?

– Ma soprattutto, a quando si riferiscono quelle immagini?

– Dobbiamo rivedere tutto. Ci è sfuggito qualcosa.

– Puoi spegnere, Teodoro.

 

            *Era un sabato splendido, a Khimki. La giornata perfetta per un giorno di vacanza. Kirill avrebbe dovuto andare a Kolomna, a trovare Nadia, che vedeva ormai di rado, pur essendo rimasti amici. Ma Kirill aveva dimenticato il cellulare in laboratorio e pensò di andare a riprenderselo, prima di partire. Fermò la macchina nel parcheggio e si stupì di vedere lì anche quella di Nikolaj Zakharov.

Attraversando il corridoio per raggiungere il laboratorio, passò davanti all'ufficio di Nikolaj da cui provenivano i suoni di una conversazione piuttosto animata. Kirill stava per proseguire, quando sentì la parola Cronoshift pronunciata da uno sconosciuto. La curiosità lo bloccò sul posto. Le voci si sentivano distintamente. Zakharov stava dicendo che lo avrebbe consegnato a breve, era questione di giorni. Stava aspettando l'ultimo esperimento, quello definitivo, dopo di che avrebbe passato tutto al Centro Aerospaziale. Stava rassicurando il suo interlocutore. Quest'ultimo, con voce arrogante, rispose che lo sperava per lui, altrimenti ci sarebbero state spiacevoli conseguenze sia per lui che per la sua azienda. Kirill non volle sentire altro. Andò in laboratorio e recuperò il cellulare. Poi si allontanò attraverso un altro corridoio, uscendo da una porta secondaria. Salì in macchina e si affrettò ad allontanarsi dal complesso.

Non riusciva a smettere di pensare che la sua creatura sarebbe presto passata nelle mani dei militari. Che cosa ne avrebbero fatto? Doveva lasciargliela? No, che non doveva. Non poteva. Chiamò Nadia, scusandosi per il ritardo. Ma le chiese anche se potesse raggiungerlo nella sua dacia, insieme ai suoi fratelli.

Quando arrivò a casa, Nadia era già sulla porta ad attenderlo.

– Sei sempre il solito. Che devo fare con te? Non cambierai mai.

– Scusami, stella, ho avuto un piccolo contrattempo. E i tuoi fratelli?

– Lavorano. Arriveranno nel pomeriggio. Ma per che cosa ti servono?

– Entriamo. Ti spiego tutto.

La casa era chiusa da un paio di settimane. Nadia aiutò Kirill ad aprire tutte le finestre. Poi si sedettero sotto il portico. Gli alberi cominciavano a ingiallire, ma era ancora estate. Nadia si era messa un golfino bianco sulle spalle, temendo l'umidità del bosco. Kirill notò che si era tagliata i capelli. Aveva un caschetto biondo asimmetrico, che le donava molto.

– Stai bene, così – commentò.

– Te ne sei accorto? Non ci posso credere! Dai, è inutile che mi fai la corte, non ci casco più. Dimmi a che ti servono i miei fratelli.

– Entro domani notte devo far sparire il Cronoshift dal laboratorio. Ho bisogno di braccia forti.

Nadia saltò in piedi.

– Sei impazzito?

– No, per niente. Preferiresti sapere che sia caduto in mano ai militari?

Nadia si risedette di botto.

– I militari? Per farne che?

Kirill si alzò a sua volta, cominciando a camminare avanti e indietro.

– Non lo so. Non lo so cosa potrebbero farne: è questo che mi preoccupa. Qualunque scoperta si faccia, non appena è in mano loro diventa un'arma. Non possono farne a meno. Non sanno pensare in altro modo. Ma io mi rifiuto. Non voglio essere complice di chissà che cosa. Dunque, mi riprendo il frutto delle mie ricerche. Ho solo bisogno di un furgone e di braccia forti. Nient'altro.

– E dove pensi di nasconderla?

– Qui. In cantina.

– Sarà il primo posto dove verranno a cercarla.

– Non credo. Tu mi aiuterai con gli allarmi e le telecamere. Non posso entrare certo con il mio tesserino.

– E come?

– Entreremo da una porta sul retro, quella del locale caldaie. Cede con un semplice calcio. Ma prima bisognerà scollegare gli allarmi. Questo è un giochetto da ragazzi per te, no?

Nadia aveva un'espressione indecisa.

– Speriamo.

– Allora mi aiuterai?

– E come faccio a dirti di no?

 

            *Una gondola si avvicinò al molo dove padre Pellegrino Ernetti, circondato di scatoloni, stava aspettando. Ludovico lo salutò e poi gli disse:

– Mi manda il Vaticano. Ci penso io, stia tranquillo, padre.

Caricò i quattro scatoloni sulla gondola e poi gli disse:

– Non si preoccupi più di niente. Da questo momento la macchina è al sicuro.

Padre Pellegrino fece un sorriso tirato, alzò una mano in segno di saluto e se ne andò, senza neppure aspettare che la gondola si staccasse dal molo.

I quattro scatoloni che gli aveva consegnato Ernetti furono accuratamente svuotati in mare. Quelli che furono caricati sul camion, per essere trasportati a Roma, contenevano rottami metallici, valvole, spezzoni di cavi elettrici e frammenti di celluloide che Ludovico era riuscito a procurarsi. Una volta portata a termine la missione, remò verso il largo, fino a che i muscoli delle braccia non iniziarono a bruciargli. Ludovico si guardò intorno. Era abbastanza lontano perché nessuno lo vedesse. Peccato che quello che aveva appena fatto fosse abbastanza inutile. Ma andava fatto lo stesso. Pensò a Ubaldo. Forse in quel momento si era già dissolto. Lui invece doveva aspettare ancora qualche minuto. Si distese sul fondo della barca e guardò il cielo. Era libero, azzurro, senza nemmeno una scia d'aereo.

 

            *Sandro La Rosa fu prelevato un attimo prima che Ernetti girasse la manopola. Completamente disorientato si guardò intorno, mentre tre uomini e una donna vestiti in modo strano lo fissavano. Poi uno di loro si fece avanti con una poltroncina. Lo fece sedere e si mise di fronte a lui.

– Nonno, sono Ludovico, tuo nipote. Sto per raccontarti una storia che ti sembrerà assurda, esattamente come il modo in cui sei arrivato qui. Ma è fondamentale che tu mi creda.

            Tre ore dopo, Sandro fu mandato indietro, poco prima che arrivasse Ernetti con il suo Cronovisore smontato in mille pezzi. Sandro lo ricevette alla portineria, dove aveva preso il posto di un collega, mandandolo a prendersi un caffè. Così, prese in consegna gli scatoloni di Ernetti, che gli disse che dovevano sostituire quelli che aveva spedito in precedenza. Sandro non fece domande, lo rassicurò, gli consegnò una ricevuta e gli disse che avrebbe portato le scatole in archivio, dopo averle protocollate. Ernetti ringraziò e si ritirò.

Sandro si guardò attorno. Non era compito suo, ma sapeva come fare. A uno a uno portò gli scatoloni nel retro, in una stanza dove si ammucchiavano i materiali edili per le ristrutturazioni. In fondo al locale c'era un cassone per la raccolta dei calcinacci e dei materiali di scarto. Quando era pieno, veniva ritirato da un camion e portato via. Sandro non sapeva dove, ma era sicuro che a nessuno sarebbe mai venuto in mente di scavarci dentro. Tornò alla portineria, in attesa che il suo collega ritornasse.

– Grazie, La Rosa, a buon rendere.

Sandro lo salutò, allontanandosi. Ritornò nel locale di scarico, svuotò gli scatoloni nel cassone e ricoprì tutto con calcinacci, sacchi di iuta e pezzi di mattoni. Poi aprì i cartoni e ci buttò dentro anche quelli. Infine, si allontanò. Era andato tutto come previsto da suo nipote. Veramente, stentava a credere che quell'uomo più anziano di lui fosse Ludovico, ma per provarglielo gli aveva raccontato cose che solo loro due potevano sapere. Mentre attraversava i corridoi in marmo, pensò che aveva appena salvato il mondo. Lui, proprio lui, Sandro La Rosa. Peccato che non avrebbe mai potuto raccontarlo a nessuno, se non voleva indossare una bella camicia di forza per il resto della vita. Neppure al piccolo Ludovico. Anzi, soprattutto a Ludovico. Quando arrivò dietro la porta, si fermò. Lo avrebbero riportato esattamente nel momento in cui l'avevano prelevato. Che invenzione diabolica!

 

            *Era notte fonda quando Danil Lukin apparve nello studio di Nicolaj Zakharov senza che nessuno lo vedesse. Aprì un cassetto, trovò i maledetti ritagli di giornale e dopo averli piegati se li mise in tasca. Prelevò anche il tagliacarte e lo appoggiò sulla scrivania. Quindi richiuse il cassetto e posò i piedi nel luogo esatto dov'era arrivato e dove aveva appoggiato un foglio di carta. Poi attese. Dopo un minuto, un vortice magnetico lo afferrò. Si produsse soltanto un lieve sfrigolio, ma nessuno lo udì.

Al suo ritorno lo attendeva Kirill, davanti al suo Cronoshift, l'unico rimasto.

Piuttosto che permettere che venisse utilizzato militarmente, Kirill l'aveva rubato e nascosto nella cantina della sua dacia. All'epoca del furto aveva innalzato un muro che nascondeva la stanza, in cui si entrava da una botola al piano superiore, mimetizzata accanto al camino.

– Grazie, Kirill. Adesso è davvero finita.

– E io posso metterlo fuori uso per sempre.

– Ti sei dimenticato cosa mi avevi promesso?

– Per niente. Ho già esaudito la tua richiesta. Ho fatto mandare il giovane Vlad in Galizia. Le sue dimissioni sono state rifiutate. Hai campo libero. E poco meno di nove ore per raggiungere il Palazzo Lubjanka.

– Grazie, fratello. E con Nadia com'è andata?

– Meglio di quanto mi aspettassi. Lavoreremo insieme a un nuovo progetto.

Danil gemette.

– Per favore, non combinate altri guai.

Insieme scoppiarono a ridere.

            Quando arrivò davanti al Palazzo Lubjanka, guardò in alto verso l'orologio che sovrastava la facciata. Erano le dodici in punto. Mentre attraversava la grande piazza, una ragazza gli passò accanto. Aveva il capo rasato e una coda di treccioline bionde che partiva dal centro della testa e le ondeggiava sulla schiena. Era ricoperta di tatuaggi.

– Quando te ne sarai stancata, conosco un posto dove li fanno sparire con il laser.

La ragazza si voltò a guardarlo. Era un uomo sulla quarantina, con qualche filo grigio alle tempie, i capelli castani corti e ondulati e occhi magnetici castano dorato.

– Dici a me?

– Ma tu non sei Nika Zakharova? L'archeologa?

– Sì, sono io. E tu chi sei?

– Danil Lukin, un tuo ammiratore. Ottimo lavoro a Nazaret. Complimenti.

– Grazie. Sono in pochi a pensarla come te. Ma prima, ti riferivi ai miei tatuaggi?

– In effetti sì. So di ragazze che se ne sono stancate e sono andate a farsi rovinare da inesperti. Se un giorno volessi disfartene, chiamami – disse, allungandole il suo biglietto da visita.

– E dove sarebbe questo posto?

– È una clinica privata a San Pietroburgo.

– Per ora non credo proprio, ma forse un giorno potrei farci un pensierino.

– E nel frattempo non potrei offrirti un kvas?

Nika lo osservò attentamente, sollevando un sopracciglio.

– Tu sai cose di me che non dovresti sapere.

Danil la guardò, mostrandosi stupito.

– Ti piace il kvas?! Che fortuna, ho indovinato! Avrei potuto dire una birra o un aperitivo, ma mi è venuto in mente il kvas. Non so perché.

A Nika non sembrò molto plausibile, ma ormai si era incuriosita.

– Va bene, Danil Lukin, accetto il kvas. Ma noi ci siamo già visti da qualche parte?

– Ne dubito.

– Strano, mi sembri una faccia conosciuta.

Nika osservò il biglietto da visita, lo voltò sul lato bianco, come se si aspettasse di vederci scritto qualcosa, poi scosse la testa e se lo mise in tasca. Danil sorrise. Poi le sfiorò il braccio per invitarla a riprendere il cammino. Quel lieve contatto provocò in Nika quella strana sensazione che cammina sulla pelle, come una calza che si smaglia. Con un brivido rivisse un déjà-vu.

"Forse ci siamo conosciuti in un'altra vita", pensò.

Nel medesimo istante Danil sperò che quella fosse finalmente la vita giusta.