Capitolo sette

Dominic Massignon giunse alla gendarmeria con un diavolo per capello. E di capelli ne aveva da vendere. Al primo esponente delle forze dell’ordine che trovò libero da impegni, sbatté sotto il naso una bustina di plastica contenente una vecchia busta affrancata.
– Prego – disse quello, sedendosi alla scrivania con aria seccata. – Mi dica – lo invitò.
– Questo francobollo dovrebbe essere un Gronchi rosa. E invece è un pezzo di cartaccia con la dentellatura! – sbraitò Dominic Massignon.
Lo sguardo del gendarme non sembrò acquistare un’espressione più consapevole. Massignon sbuffò, esasperato.
– Si sieda. Si calmi. Mi racconti tutto dall’inizio – si rassegnò il gendarme.

 

La città, alle prime luci dell’alba, in una limpida giornata di fine maggio, era uno spettacolo che Paco aveva sempre adorato. Burgos era la sua città natale, la madre dei suoi sentimenti, la culla dei suoi sogni. Era una parte di lui, la più immutabile. Una volta, Paco usciva spesso a quell’ora, solo per il piacere di farlo. Ma quel giorno si trattava di una fuga. Benché ne fosse perfettamente consapevole, non riuscì a evitarlo. Quella mattina non se la sentiva d’incontrare lo sguardo di Rey, che avrebbe letto, nel suo, troppe cose che voleva avere il tempo di digerire, superare e nascondere con calma. Niente di grave. Niente d’irreparabile. Avrebbe fatto due passi fino alla Cattedrale, per smaltire quella specie di sbornia, poi si sarebbe recato al lavoro, come sempre. Quel giorno compiva 45 anni. E Rey l’aveva tradito.

Da quando era rientrato in forze alla polizia postale, Paco aveva un ufficio tutto suo, al secondo piano. Raggiungendolo, quel mattino, trovò ad aspettarlo Javier Cabello. Lo vedeva raramente, per lo più quando c’erano grossi guai in vista. Paco suppose che, quella settimana, il suo oroscopo non doveva essere dei più promettenti. Sospirò, lo salutò con un sorriso rassicurante e chiuse la porta.
– Brutte notizie? – gli chiese, sedendosi alla sua scrivania.
Javier si occupava di frodi da più tempo di lui, e gli piaceva risolvere da solo i suoi problemi, chiedendo collaborazione esclusivamente nei casi disperati. Dall’espressione della sua faccia, dalla sua indecisione a parlare e da come misurava a passi regolari il suo ufficio, Paco comprese che doveva trattarsi di uno di quei casi. Gli sorrise, rassegnandosi al peggio.
– Dai, Javier, sputa il rospo.
Javier si decise finalmente a sedersi davanti a lui, fissandolo negli occhi, mentre si passava una mano tra i capelli.
– Devo chiederti un favore, un grosso favore – esordì, imbarazzato.
– Parla.
– Sto seguendo un caso di falsificazione. Le indagini mi hanno portato a credere che tutto sia partito dall’Italia. Mi sono messo in contatto con i colleghi italiani e adesso, per proseguire, dovrei andare là. Ma io…
– Tua moglie sta per avere un bambino, giusto? Non manca molto.
– No, dovrebbe nascere da un momento all’altro.
Paco sospirò. Gli sembrava di non fare altro, quel giorno.
– Va bene, Javier, passami tutto.
– Davvero? – esclamò, con gli occhi che gli brillavano di un entusiasmo quasi infantile.
– Ma sì, farmi un giretto fuori Burgos mi farà bene. Fammi avere tutta la documentazione.
– Eccola – rispose Javier, appoggiando sulla scrivania una chiavetta usb, con aria sollevata.
– Sapevi già che avrei accettato, eh?
– No. Per la verità, ci speravo poco. So che non ti piacciono le trasferte, ma mi auguravo che farmi trovare pronto mi portasse fortuna.
Paco rise. – Oggi sono io che di fortuna ne ho poca. Auguri, Javier. Sai già se sarà maschio o femmina?
– Femmina. La chiameremo Elena.
– Bel nome.
– Non so come ringraziarti. Beh, adesso ti lascio lavorare, Paco. Ti devo un favore. Qualunque cosa ti serva, rivolgiti a me.
– Non ci pensare.

 

 

Quel mercoledì, quando Rey arrivò al commissariato, incrociò Consuelo che usciva dal portone.
– Hola, capo. Sei in ritardo.
– E tu dove stai andando? – domandò bruscamente.
– A fare colazione.
– Vengo con te.
Al Vayma, si sedettero nell’angolo più lontano dalla vetrata d’ingresso. C’era poca gente, ormai. Il grosso dell’affollamento era scemato, lasciando sul pavimento un tappeto di tovagliolini stropicciati, che uno dei camerieri stava spazzando via con indolenza.
– Ti vedo strano, Rey. Non hai dormito? – osservò Consuelo, disposta ad affrontare una rispostaccia.
– Mi sono girato e rigirato fino alle quattro, prima di prendere sonno. E stamattina non ho sentito la sveglia.
Consuelo si rilassò. Il capo non sembrava di buon umore, ma non era al suo peggio.
– Poco male. Non c’è niente di urgente, per il momento. È una giornata tranquilla – commentò, rassicurante.
– Non dirlo, per favore. Ogni volta che capita, poi paghiamo pegno.
– Hai ragione. Parliamo d’altro. Allora, dove festeggiate stasera?
– Festeggiamo? Che cosa vuoi dire? – chiese Rey, con tutta l’aria di cascare dalle nuvole.
– Non è il compleanno di Paco?
– Joder! Me n’ero scordato. Meno male che tu mi fai da memorex.
– Non marchi tanto bene, Delgado. Queste cose non si dimenticano.
– Non rompere, Consuelo. Non sono queste le cose che contano.
– Però fanno parte del pacchetto. Da queste piccole attenzioni puoi valutare quanto una persona tenga a te.
– Io non ho mai badato a stronzate come anniversari e ricorrenze varie.
– Capisco, ognuno è fatto a modo suo. Per me non sono fondamentali, ma in un certo senso, aiutano.
Delgado la osservò con lo sguardo vuoto. Si capiva che già pensava ad altro. Consuelo ripensò al suo ultimo compleanno, rivivendo, con la medesima intensità, la delusione che Damian le aveva causato, quando si era resa conto che lui se n’era completamente dimenticato. Quello avrebbe dovuto essere il primo campanello d’allarme, ma in quei giorni lei era ancora sorda, oltre che cieca. Tuttavia, l’atteggiamento di Rey le faceva presumere che non fosse poi tanto strano dimenticare una ricorrenza. Forse dal punto di vista di un uomo era davvero un avvenimento di nessuna importanza. Sulla via del ritorno, Rey si fermò all’improvviso, prima di una svolta.
– Tu vai pure avanti. Io ti raggiungo tra poco.
Consuelo sospirò. Quel giorno il capo non aveva nessuna voglia di entrare in servizio. Così toccò a lei rispondere alla chiamata che metteva fine all’illusoria tranquillità di quella giornata appena iniziata. Nello stesso momento, l’orologiaio di Calle de Victoria non credette ai propri occhi, quando Rey entrò nel suo negozio, facendo risuonare un campanellino collegato alla porta. Non lo vedeva da un secolo, ma gli sembrò che non fosse cambiato di una virgola.

Paco aveva già sentito parlare dei Gronchi rosa, ma non ne aveva mai visto uno. In foto non li trovava niente di straordinario, ma lui non era un collezionista filatelico, ragione per cui non aveva strumenti adeguati per valutare. D’altra parte, gli sembrava incredibile che un rettangolino di carta colorata e dentellata potesse assumere addirittura, in alcune circostanze, il valore inusitato di 30.000 euro. Non aveva senso. Ne aveva, purtroppo, che da quelle premesse scaturisse una fervente attività di falsificazione, volta a gabbare via internet il maggior numero possibile di creduloni che si reputavano furbi. Chi metteva in vendita i pezzi taroccati si fingeva ignorante del loro valore; chi li comprava, credeva di fregarli, illudendosi di fare un incredibile affare. Negli ultimi tempi era piovuta una lunga serie di denunce contro ignoti. Javier Cabello aveva collaborato con un collega della polizia postale italiana, per individuare i falsari. Le indagini erano a buon punto, tanto che l’ispettore Angelo Altieri aveva richiesto la presenza di Javier sul posto. Paco entrò in Google Maps, digitando Roma nel campo di ricerca. Roma Caput Mundi, una città dove, stranamente, non aveva mai desiderato recarsi. Certo, bastava uno sguardo dal satellite per accorgersi che grande era grande, anzi, immensa. Si sarebbe perso, già lo sapeva. Avrebbe visto il Colosseo, e poi che c’era? Ah, sì, il Vaticano, la Fontana di Trevi. Ma soprattutto, non poteva nasconderselo, quel viaggio l’avrebbe allontanato da Rey per qualche giorno. Avrebbe messo una prudente distanza tra lui e la sua stupida altalena di sentimenti, che rischiava di rovinare tutto.

 

 

Tra l’intenso profumo dei tigli che entrava dalla finestra e lo sconvolgente olezzo di Fernando Gil, che quel mattino doveva essere caduto in una vasca di dopobarba, Consuelo cominciava a sentirsi stordita. Stava valutando quale dei due eliminare, chiudendo la finestra o sopprimendo fisicamente Gil, quando entrò Delgado, in perfetto ritardo, con una densa nube temporalesca che gli aleggiava intorno al capo arruffato. Dopo una rapida occhiata, Fernando si dileguò all’istante, vigliaccamente, lasciando Consuelo a tu per tu con il suo boss.
– Chiudi quella finestra. Sembra di stare in una profumeria – disse Rey, con una smorfia.
– Purtroppo non è colpa soltanto dei tigli.
– Gil ha di nuovo esagerato?
– Temo di sì.
– Bisogna farlo smettere. Deciditi a dirgli di sì, che ti costa?
– Come che mi costa?
– Non hai fatto tante storie con Damian.
– Appunto. E guarda com’è andata a finire. Ci voglio andare con i piedi di piombo. Oltretutto è un collega, che mi starebbe sempre tra i piedi, nel bene o nel male. Vorrei evitarlo per principio.
– Non ti preoccupare, posso sempre farlo trasferire.
– Faresti questo per me? Ma Gil è un ottimo elemento, ci rimetteresti.
– Allora trova un modo per farlo smettere, tu che sei diplomatica…
– Io sono cosa?
– … più di me.
Rey vide un sorriso perfido affiorare lentamente sulle labbra di Consuelo, che subito dopo uscì dalla stanza con passo morbido e cadenzato. Non aveva mai capito bene le donne e quella meno delle altre. Chissà cosa le era passato per la testa? Delgado tentennò il capo a suo esclusivo beneficio, immergendosi nell’appassionante lettura dell’ultimo referto autoptico di Pérez.

Esattamente alle 12:00 di quel giovedì, Paco lasciò l’aereo dell’easyJet che l’aveva trasportato, in perfetto orario, al Leonardo da Vinci, l’aeroporto di Roma. Uscire dal terminal 3 fu un’operazione che gli richiese una notevole dose di pazienza. Per qualche preoccupante minuto, temette persino che gli avessero smarrito la valigia. Anche prendere un taxi fu un esercizio di pazienza, ma un’ora dopo, alleggerito dei 50 euro per la corsa, era sul largo marciapiede di Viale Trastevere, davanti alla Pensione Residenza Belli, dove aveva prenotato una stanza. L’albergo era piuttosto nuovo e confortevole, e inoltre era vicino alla sede della polizia postale, dove poteva arrivare a piedi in una manciata di minuti. Una volta sistemato nella sua camera, telefonò ad Angelo Altieri, sia per avvertirlo del suo arrivo, che per chiedergli quando potevano vedersi. Altieri gli lasciò appena il tempo d’informarlo che era al Belli, prima d’interromperlo con un brusco:
– Tra cinque minuti sono là.
Cinque minuti non bastarono. Nella hall, Paco si fermò davanti alla grande vetrata attraverso cui si vedevano scorrere il traffico cittadino e i pedoni frettolosi, che passavano senza guardarsi attorno. Sembravano tutti concentrati su qualcosa che li aspettava più avanti. La vita è così, si disse Paco. Bisogna guardarsi avanti. A voltarsi indietro, si rischia di andare a sbattere o d’incappare in brutti ricordi, che è preferibile dimenticare. Meglio limitarsi a progettare un buon futuro e un piacevole presente, quelli che sperava di continuare a vivere con Rey, nonostante tutto. In fondo, non era successo niente. La sera precedente gli aveva regalato quel bell’orologio che portava al polso. Mentre glielo allacciava, aveva detto:
– Per la tua trasferta non farò storie, questa volta, però già non vedo l’ora che ritorni.
– Adesso che ho questo, io l’ora la vedrò benissimo.
Rey gli era saltato addosso, ridendo. La sua irrequietezza era sfumata di colpo, mentre si baciavano e si accarezzavano, spargendo gli abiti tra il corridoio e la camera. Rey era stato magnifico e…
– Paco Ramírez?
Paco trasalì, sottratto bruscamente a quel ricordo incantevole.
– Angelo Altieri?
Paco si ritrovò a stringere la mano di un uomo che lo disorientò immediatamente. Il suo aspetto sembrava deliberatamente trasandato – o così almeno sperò – con la barba di tre giorni, i capelli lunghi e spettinati, il colletto della camicia floscio e grigiastro, che si affacciava da un girocollo slabbrato di cotone blu, costellato di pelucchi perlopiù bianchi, sopra un paio di blue jeans stracciati. Dall’ombra di spesse sopracciglia nere, lo perforò un acuto sguardo glauco e sfrontato. Persino il naso dritto sembrava una sfida, più di quegli occhi e delle labbra imbronciate. Quando finirono di squadrarsi a dovere, l’italiano lo trascinò verso l’uscita.
– Come stai messo con la lingua?
– Ho studiato l’italiano, molto tempo fa. Se non parli troppo velocemente, ti capisco – rispose Paco.
– Meno male. Me annata de lusso.
– Come?
– Mi è andata bene. Io e le lingue straniere siamo rette divergenti. Capisci? – disse Angelo, unendo le mani e poi allontanandole l’una dall’altra in direzioni opposte.
– Sai parlare solo l’italiano. Ho capito bene?
– E forse manco quello.
– Manco?
– Neppure.
– Ah, ho capito: avrò bisogno di un interprete.
Angelo si mise a ridere.
– No, dai, non sto tanto aggravato.
Paco non capì, forse perché era rimasto frastornato da quella risata calda, aperta e amichevole, che lo allontanava dalla prima opinione che si era formato di lui.
– Vieni, vieni! – lo invitò, mentre salivano le scale d’ingresso alla sede dove avrebbe lavorato per qualche giorno.
Mentre s’inoltravano nell’ampio complesso, fendendo la piccola folla di colleghi e semplici cittadini, senza salutare nessuno, Paco si stupì della completa indifferenza con cui li lasciavano passare. E se fosse stato un terrorista? Un malintenzionato? Avrebbe potuto piazzare una bomba, e nessuno se ne sarebbe accorto. Lo trovò incredibile. Seguendo Angelo, arrivò in una grande sala piena di scrivanie, alcune libere e altre occupate da colleghi al lavoro. C’era un discreto caos. Angelo si avvicinò a uno di loro, chiedendogli se poteva seguirli.
– No, A’. Sto ‘mpicciato come Cenerentola a mezzanotte meno ‘n quarto. Arrangiate da te.
– Ah, grazie, eh! A buon rendere – gli rispose Angelo.
– ‘Namo, va – aggiunse poi, rivolto a Paco.
Paco assentì senza aver capito molto, riprendendo a seguirlo, rassegnato, tra le scrivanie. Finalmente si sedettero in fondo alla stanza. Angelo accese il computer. Paco ne approfittò per chiedergli cosa c’entrasse Cenerentola. Angelo scoppiò a ridere di nuovo.
– Il collega voleva dire che è sovraccarico di lavoro e che non può partecipare alle nostre indagini. Veramente, è già dall’inizio che mi è toccato fare tutto da solo. Ma anche voi non dovete passarvela troppo bene. Javier Cabello ti ha rifilato il caso perché lui era troppo impegnato?
– Una cosa del genere.
– Va bene, Paco. Siamo io e te. Che Dio ce la mandi buona.
– Da dove cominciamo?
– Dall’inizio, Pa’. E da dove sennò?

 

 

Consuelo si avvicinò a Gil con passo felpato. Quando il collega se ne accorse, sobbalzò, sorpreso. In quel momento, stava proprio pensando a lei, cosa che in qualche modo lo imbarazzò.
– Fernando, te lo devo proprio dire. Il capo è allergico ai profumi. Se non la smetti di metterti questo dopobarba, ti fa trasferire.
– Cosa? Ma che storia è? Questo è mobbing.
– No, questa è un’intolleranza agli odori forti, la chiamano sensibilità chimica multipla. Provoca mal di testa e nausea. Lo sai come diventa il boss quando ha mal di testa, vero?
Fernando rabbrividì.
– Vuoi restare in questo settore?
– Certo.
– Allora limita gli spruzzi. Anzi, sai che ti dico? Evitali proprio. Scusa se sono così diretta, ma te lo dico per il tuo bene.
– Certo, capisco perfettamente.
– Ok. Adesso sono più tranquilla.
Consuelo tornò dal capo.
– Missione compiuta.
– Cosa gli hai detto?
– Segreto.

Sotto il cielo azzurro di una giornata splendente, Angelo e Paco camminarono con passo indolente lungo un lato di piazza di Porta Maggiore. Paco continuava a chiedersi a quale strana sorpresa si fosse riferito il collega, poco prima. Una cosa mai vista, aveva detto. Angelo sapeva essere molto misterioso ed era stato bravissimo a incuriosirlo. Restava il fatto che il collega romano non aveva considerato che tutto ciò che vedeva gli risultava inevitabilmente nuovo. Tra l’imbocco di via Prenestina e quello di via Scalo San Lorenzo, si alzava una breve muraglia di mattoni smozzicati e anneriti dallo smog. Aggirandola, si trovarono davanti a una porta, seminascosta da una rientranza del muro, incassata nella parete di sostegno del viadotto ferroviario. La sua guida gli disse che si trovavano vicino alla stazione Termini, nei pressi dei binari delle linee Roma-Pisa e Roma-Napoli. Dopo che Angelo ebbe litigato per qualche istante con la serratura della vecchia porta, entrarono. Come se fosse a casa sua, Angelo tastò il muro alla sua sinistra, fino a far scattare un interruttore. Davanti a loro apparve una scala che si tuffava nel buio, appena rischiarata, poco più in basso, da una fioca lampadina. Angelo si voltò a guardarlo sorridendo.
– Ci siamo – disse, iniziando a scendere i gradini umidi e fatiscenti.
Qualche rampa di scale più in basso, lo sguardo si allargò a dismisura, stupendo immensamente Paco. Davanti ai suoi occhi era apparsa una basilica dalle lunghe navate, costruita sottoterra.
– Incredibile, eh? – disse Angelo, mentre la sua voce rimbalzava dalle pareti lontane.
– Assolutamente incredibile – mormorò Paco, che era rimasto a bocca aperta.
– Questo tempio ha più di duemila anni. Probabilmente è stato costruito da una setta misterica.
Paco non aveva idea di cosa volesse dire esattamente, ma era affascinato. Poi fu turbato da uno strano rumore vibrante, che sembrava l’annuncio di un terremoto.
– Qui sopra ci passano i treni – lo tranquillizzò Angelo.
– Pazzesco – commentò Paco, per nulla rassicurato da quell’idea.
Paco tornò a guardarsi intorno. La basilica era suddivisa in tre navate che avevano proporzioni di tutto rispetto. Il tempio doveva essere alto almeno sette metri e largo una decina. La lunghezza, fino all’abside centrale, doveva misurare quasi una ventina di metri. I soffitti a volta e le pareti erano completamente coperti di stucchi, che mostravano, tra le luci e le ombre, ogni genere di figure: donne in preghiera, vittorie alate, bambini che giocavano, teste di medusa, animali, personaggi mitologici, oggetti strani e sconosciuti e una miriade di altre immagini. L’illuminazione spettrale gli dava l’impressione che, da un momento all’altro, potessero staccarsi, dalle loro ombre inquietanti, i fantasmi del popolo che una volta vi aveva celebrato i propri riti arcani.
– Pazzesco. Davvero incredibile. Ma potrei sapere perché mi hai portato qui? – chiese ad Angelo.
– Vieni.
Paco lo seguì, ansioso di scoprire quale altra sorpresa avesse in serbo per lui.
Angelo si fermò, spostandosi su un lato per mostrargli qualcosa.
– Che diavolo…
– Una stamperia clandestina.
– Qui?
– Li ho scoperti per puro caso. Il problema è che sono riusciti a scappare e da allora non sono più tornati. Abbiamo piazzato una telecamera che si attiva quando si accende una luce, ma da quando l’abbiamo installata non è mai entrata in funzione.
– Ma sei sicuro che sia quella che cerchiamo?
– No, purtroppo no.
– E adesso?
– Torniamo in sede. Intanto ti faccio una relazione. Non era necessario che ti portassi qua, ma ci tenevo a farti vedere questo posto. Io, da quando ci sono venuto la prima volta, non riesco a restarci lontano per più di un paio di giorni.
– In effetti, fa venire i brividi, ma anche il desiderio di capire. Cosa dicono gli archeologi?
– Non ne ho la più pallida idea. A me sembra abbandonata al suo destino. Se ti avvicini alle pareti, vedi che l’umidità sta divorando tutto.
– Per avere duemila anni però regge bene.
– Reggerebbe meglio se non ci piovesse dentro e se i treni non ci passassero sopra – commentò Angelo.
– Sicuramente. Che possiamo fare?
Angelo gli appoggiò pesantemente una mano sulla spalla, lo fissò bene negli occhi e rispose con convinzione: – Fasse li cazzi nostri...

 

 

– Provalo, dai! Ti starebbe benissimo – disse la donna, avvicinandole uno specchio.
Consuelo scambiò con lei uno sguardo ironico, rigirandosi il cappello anni ’20 tra le mani, come fosse un meloncino di cui tastare la giusta maturazione.
– Fidati di me, provalo!
Consuelo prese il coraggio a due mani e se lo calcò in testa con decisione.
– Ecco, vedi? Non sono tipo da cappelli.
– Ma certo, se lo metti così!
La donna le si avvicinò per sistemarlo, le ravviò qualche ciocca di capelli, la sfiorò con una carezza e infine, soddisfatta, le pose lo specchio davanti al volto.
– Che ne dici, adesso? Non è perfetto? Ti sta proprio bene.
Consuelo annuì, ma più per educazione che per vera convinzione. Il mercato di Plaza Mayor era affollatissimo, quel giorno. Lei c’era passata per caso, ma mentre tirava dritto sotto i portici, aveva visto quella bancarella di strani cappelli. Tuttavia, non sapeva esattamente cosa l’avesse attratta, dal momento che i cappelli erano l’ultimo degli accessori che rientrassero nella sua considerazione. Oltre a trovarli scomodi, era fermamente convinta che le stessero male.

Il computer surriscaldava l’angolo del vasto ufficio in cui lo squillo dei telefoni e il cicaleggio continuo davano a Paco un’impressione di totale confusione. Per chi, come lui, era abituato a lavorare chiuso nel suo ufficio, era una situazione spiazzante, tanto che non riusciva a concentrarsi per seguire il monologo di Angelo.
– Aspetta un minuto, che c’entra Nogent-sur-Marne? – lo interruppe Paco.
– I gendarmi hanno raccolto la denuncia di uno dei truffati. Pare che abbia mandato diecimila euro a un tizio di Burgos, in provincia di Sassari, per l’acquisto di un Gronchi rosa, poi risultato falso.
– Gli ha fatto un bonifico?
– Se’, magari! Il bonifico l’ha fatto a un suo amico di Firenze, che poi li ha caricati su una carta ricaricabile, un tanto la settimana. La carta, naturalmente è stata estinta subito dopo.
– Ma non si può risalire a chi l’ha acquistata?
– Ma certo. Peccato che i documenti fossero contraffatti.
– Ma non ci sono sistemi di sicurezza per scoprire i documenti falsi?
– Paco, non erano falsi, erano soltanto contraffatti, sottratti a un tizio che nemmeno se n’è accorto. Se fossero stati denunciati come smarriti o rubati, il campanello d’allarme sarebbe scattato.
– Va bene. Però sappiamo che questo tizio è a Burgos, in... dove hai detto?
– In provincia di Sassari, Sardegna.
– Che cosa strana che esistano due Burgos e tutt’e due coinvolte in questo caso – rifletté Paco.
– L’ho notato anch’io.
– Però, forse, la stamperia era qui.
– Forse, ma non ci giurerei. Non c’è niente che leghi quei macchinari alla falsificazione dei Gronchi rosa. Magari producevano documenti falsi, o biglietti dell’Atac, o chissà cosa. Non abbiamo trovato niente. So soltanto che qui c’è piovuta una grandinata di denunce, esattamente com’è accaduto da voi. Dalla Francia, per ora, abbiamo notizie soltanto di quella di Nogent-sur-Marne. Ma niente ci impedisce di pensare che ce ne siano state altre, che finora nessuno è riuscito a collegare a Burgos.
Angelo guardò l’orologio, spense il computer e si alzò, sgranchendosi le gambe.
– Che volemo fa’?
Paco si alzò a sua volta, con espressione incerta.
– C’hai fame?
– Abbastanza. L’ultima volta ho mangiato in aereo.
– Che te possino! Me lo potevi di’! Mo’ te porto io in un posticino…
– Grazie.
– Nun me ringrazià.
– Angelo, potresti parlare in italiano? Non capisco la metà di quello che dici.
– Ah, già. Beh, tu fidati.
– Mi fido – rispose Paco, rassegnato.

Paco era abituato a camminare, ma, a quanto pareva, le distanze a Roma non coincidevano con lo stesso concetto che se ne aveva a Burgos. Così, dietro l’angolo si era trasformato in una passeggiata di mezz’ora, attraverso vicoli e stradine immerse nell’oro rosso di un tramonto in procinto di esaurirsi. La Birreria Trilussa sembrava molto vecchia. Era incassata in un palazzo a tre piani dall’apparenza vetusta e dai muri scrostati, perfettamente intonato a tutto il resto del quartiere. L’insegna luminosa gialla era già accesa. A restringere una strada già limitata in larghezza, provvedevano eleganti transenne di ferro battuto che delimitavano l’esterno del locale, intervallate da piccole siepi in vaso. All’interno della recinzione erano allineati alcuni tavolini rotondi, circondati di sedie metalliche nere, tutte occupate. Angelo entrò attraversando la porta più vicina.
– Ciao, Lore’, c’è posto dietro?
– Vai, vai, ancora è presto.
Angelo si voltò a controllare che Paco lo seguisse, poi avanzò tra i tavoli, superando una prima porta ad arco che immetteva su un’altra sala e quindi una più bassa, che comunicava con una saletta arredata con solo quattro tavoli. Era deserta. Angelo si sedette sulla panca di quello più vicino alla vetrata, strofinandosi le mani con aria soddisfatta.
– Il mio tavolo preferito – annunciò, sorridendo.
Paco gli sorrise di rimando, voltando poi la testa per osservare dai cristalli il movimento esterno. I tavolini erano occupati da ragazzi e ragazze che schiamazzavano tra grandi risate. Per un attimo invidiò quella spensieratezza. Una languida musica per pianoforte si diffondeva in sottofondo, regalandogli un velo di prematura nostalgia.
– Sei sposato? – gli chiese Angelo.
Paco tornò a fissarlo, con sguardo vacuo. Non aveva sentito. Angelo pensò che non avesse capito.
– Vivi con qualcuno?
– Sì – rispose Paco, con la sua solita pacatezza.
– Eh, lo so, è dura. Certe volte è meglio stare soli che male accompagnati.
Paco non ebbe incertezze:
– Io sono accompagnato benissimo.
– Ah, beh, però hai fatto una faccia!
– Ho lasciato qualcosa in sospeso.
– Con le donne c’è sempre qualcosa in sospeso.
– Non ho detto che sia una donna.
– Oh, un amico della mia parrocchia… Chi l’avrebbe mai detto?
– E tu sei accompagnato?
– Sempre. Un po’ co’ uno e un po’ co’ nartro.
– Che in italiano sarebbe?
Angelo rise rumorosamente.
– Non ho un compagno fisso.
– Capisco.
– Un po’ t’invidio. Non dev’esse’ male avere sempre a portata di mano quello che vuoi. Anche perché poi, a lungo andare, cacciare stufa.
– Sono d’accordo.
– Però, pure sempre la stessa minestra, stufa.
– Non saprei. Io non mi sono ancora stancato, se è questo che intendi.
– È questo, sì. Ma magari col tempo entrano in ballo altre cose, che ne so?
– Certo, un rapporto è fatto di tante cose, amore, amicizia, complicità, fiducia, sincerità…
– Dio, che ipocrisia! La convenienza si maschera con l’amore e il resto sono tutte parole vuote. Da noi si dice che gli ipocriti sono furfanti sotto l'aspetto di santi.
Paco si stupì che Angelo s’infervorasse tanto.
– E la sincerità, poi? Non conviene mica sempre, vero? – aggiunse.
– Forse non converrà, ma io la preferisco.
– Mmm… non ci credo.
– Sei libero di non crederci. Comunque, non so se sia una gran cosa. Certe volte la sincerità fa anche male.
– Era quello che volevo dire.
– Però, se non c’è sincerità, come fai a fidarti di qualcuno?
– Ah Pa’, fidate, certe cose è meglio non saperle.
Paco posò lo sguardo sulle pareti rivestite di legno e sui lampioncini che diffondevano una luce soffusa. A Rey sarebbe piaciuto.
– Forse no, ma io lo preferisco.
– Ho capito, va! C’hai le corna…
Paco sospirò. Sorrise mestamente e poi afferrò il menù che c’era sul tavolo, con la chiara espressione di chi ha decretato chiuso l’argomento. Angelo lo lasciò cadere, per prenderne subito un altro.
– Conosci le birre del Papa? Ma no, che dico, come fai a conoscerle?
– Sarebbero?
– La Barok Dunkel e l'Asam Bock, una rossa e l’altra doppio malto.
– No, mai sentite. Perché si chiamano birre del Papa?
– Perché te le portano dentro bicchieri che c’hanno stampata sopra la faccia der Papa.
– Strani usi.
– A noi ce sembra normale.
Paco si domandò quante sorprese gli avrebbe procurato quella romana normalità.

 

 

Una volta giunto nella sua stanza d’albergo, Paco si rilassò. Dopo aver provato le birre del Papa, poco c’era mancato che Angelo riuscisse a estorcergli tutta la storia della sua vita. Ci sapeva fare con gli interrogatori. Angelo era convinto che esternare i propri crucci fosse un facile sistema terapeutico. Paco era dell’opinione contraria, e per di più pensava che Angelo l’avesse preso a tradimento. Se fosse stato lucido, non avrebbe parlato. Spalancò la finestra, poi, voltandosi, si vide riflesso nelle ante dell’armadio a specchio, che occupava l’intera parete, regalando un’impressione di profondità alla stretta stanza, in cui c’era appena posto per il letto e due comodini; sull’angolo opposto, un tavolino con due sedie imbottite di un bel blu elettrico; accanto alla finestra, un mobiletto bar sormontato da un piccolo televisore. La luce era soffusa. Gli girava ancora un po’ la testa, ma forse più per la stanchezza di quella lunga giornata, che per le birre che si era scolato. Era il momento di telefonare a casa. Aveva rimandato già troppo. Rey si lamentò che Kiko si era rifiutato di mangiare dalle sue mani, ma che non appena aveva richiuso la vetrina, la perfida lucertolona si era buttata sul cibo con foga. Rey aveva concluso dicendo che gli mancava, ma la frase era stata costruita in modo tale che non fosse ben chiaro se si riferisse all’iguana o a se stesso. Paco preferì non approfondire. Non era dell’umore giusto.

Agnese invitò Consuelo alla cafeterìa Doña Blanca, sito sotto i portici, proprio alle spalle del suo banco di cappelli. Le spiegò che i suoi modelli di legno erano autentici degli anni ’20. Li aveva ereditati da sua nonna che aveva un atelier a Madrid, a quell’epoca. Per le tecniche si era invece dovuta arrangiare, perché sua nonna non c’era più, ma lei era affascinata ugualmente da quell’arte artigianale in via d’estinzione. Così si era fatta un viaggio a Firenze, dove ancora esistevano un paio di artigiane che lavoravano il feltro come un tempo. A loro aveva potuto strappare ogni segreto. Nel giro di un anno, quello era diventato il suo business, oggi ben avviato. Non poteva lamentarsi.
– E tu che fai? – le chiese, piantandole addosso il suo magnetico sguardo turchese.
– La poliziotta – rispose Consuelo.
– Ah, beh, però! E sei contenta?
– Credo di sì.
– E ce l’hai un amore? – continuò, tirandosi via dagli occhi una ciocca color pece.
– No, al momento no.
– Al momento neppure io. Ma chi se ne frega – commentò ridendo e posando una mano sulla sua, in un gesto di complicità.

 

 

Rey non sapeva che ci fosse un’altra Burgos, in Italia. Gli suonava strano, ma poi si ricordò che gli spagnoli laggiù erano stati di casa, da Isabella di Castiglia in poi, quindi c’era di sicuro un buon motivo. Paco lo chiamava ogni sera, prima di andare a dormire, facendogli una specie di relazione. Gli aveva detto che era arrivato in quel piccolo paese della Sardegna, insieme all’ispettore Altieri. Gli aveva parlato con raro entusiasmo di un bosco in cui si perdevano ruderi di strane costruzioni millenarie. Come gli aveva detto? Sembrava che le pietre fossero tenute insieme dall’edera, dal muschio e dai licheni. Descrivendogli le sue sensazioni, aveva parlato di lame di luce che fendevano l’ombra del bosco. Una visione poetica, cui Rey non era abituato. Gli era sembrato che Paco fosse diverso dal solito, più ispirato. Rey si era un po’ incazzato, non poteva nasconderselo. Era incazzato perché Paco stava vivendo lontano da lui quelle emozioni e sensazioni, anzi no, perché le stava vivendo vicino a qualcun altro, quell’ispettore Altieri che gli aveva descritto come un tipo trasandato, fuori dai canoni, che aveva idee strane, era diretto, franco, spietato e parlava spesso in dialetto, senza nemmeno accorgersene. Ma grazie a quella continua frequentazione, Paco stava imparando anche quello.

A Burgos non avevano combinato niente. Non c’era in giro nessun sospetto, nessuno che non facesse parte della piccola comunità dove si conoscevano tutti e dove ai carabinieri non sfuggiva nulla. Nella denuncia dei gendarmi di Nogent-sur-Marne, c’era qualcosa che non quadrava. Paco aveva deciso di tornare a casa per continuare le indagini nell’unica Burgos sicuramente coinvolta nel caso. La situazione si era capovolta. Stando così le cose, era Angelo Altieri che sarebbe dovuto andare in trasferta, per risolvere il caso. Perciò aveva deciso di seguire Paco. Sul volo Alghero-Madrid, Paco finse si addormentarsi subito dopo il decollo. Non aveva voglia di parlare. Voleva pensare a Rey. Ma il corso dei suoi pensieri deviò quasi immediatamente sul ricordo di quello strano viaggio a Burgos. A Olbia avevano noleggiato una Fiat Punto, per coprire i circa cento chilometri che li separavano dal paese. Prima di arrivare alla loro destinazione, avevano fatto una sosta nel bosco che ricopriva l’intero territorio che stavano attraversando. Angelo aveva insistito, o meglio, si era imposto, perché camminare in mezzo agli alberi era una delle poche cose che amava nella vita. Passeggiando, toccava i tronchi come se volesse saggiarne la solidità, l’affidabilità e la concretezza. C’erano lecci, tassi e querce, che svettavano da un mare di felci. Dal momento che il bosco non era fitto, il sole bucava le chiazze d’ombra fresca con fasci di calore implacabile. In una piccola radura avevano visto brucare due asinelli, uno dei quali era bianco. Più avanti avevano trovato i ruderi di una sorta di fortezza. Angelo gli aveva spiegato che si trattava di un nuraghe, un tipo di costruzione megalitica, di cui era piena la Sardegna. Mentre si aggiravano attorno alle pietre, nell’amplesso di alberi che nel tempo si erano riappropriati di quel tratto di terreno, Angelo aveva abbracciato una quercia. Paco gli si era fermato vicino, osservandolo con stupore misto a curiosità.
– Hai mai abbracciato un albero?
– No, non così.
– Vieni, prova anche tu. È come ritrovare un amico.
Pur sentendosi vagamente ridicolo, Paco aveva girato intorno alla quercia, abbracciandola sul lato opposto. Le mani di Angelo si erano posate sulle sue spalle. Divisi dall’ampio tronco, non potevano vedersi. A un tratto, Paco aveva sentito uno strano calore sulla mano, come se Angelo ci stesse soffiando sopra. Si era ritratto in fretta.
– Ti è piaciuto?
Paco si era limitato a sorridere, poco convinto.
– Adesso, per capire la differenza, potresti abbracciare me.
Allontanandosi verso le rovine, Paco aveva fatto un gesto della mano che voleva significare “lascia perdere”. Ma Angelo sembrava deciso. Con poche falcate l’aveva raggiunto.
– Non ti mangio mica, voglio solo un abbraccio da amico.
Paco si era voltato a guardarlo, dandogli una pacca sulla spalla.
– Amico, qualunque cosa tu abbia in mente, è meglio che te la scordi. Io ho un rapporto fisso e non mi piace divagare. Preferisco così.
– Mi sembra d’aver capito che il tuo compagno non si lasci reprimere da questi scrupoli.
– Questi sono affari miei e suoi, non certo tuoi.
– Ogni lasciata è persa, amico.
A Paco era parso di sentirgli un’intonazione malevola. Astio e aggressività facevano parte del suo modo di fare, oppure glieli stava riservando per qualche suo oscuro motivo? Inoltre, di punto in bianco, gli aveva detto che con lui era sprecata la sua maschera ipocrita di uomo irreprensibile e tutto d’un pezzo. Paco aveva avuto la vaga impressione che Angelo odiasse l’umanità intera, e che per lui non avrebbe certo fatto un’eccezione. Il corso dei suoi pensieri tornò a Rey. Quella sera l’avrebbe riabbracciato. Non sapeva come e quando era successo, ma non ce l’aveva più con lui. Era solo felice di tornare a casa.

 

 

Giunti a Madrid, presero un treno per Burgos. Angelo sembrava stanco, anche se in effetti il viaggio era stato molto veloce. Contrariamente al solito, restava in silenzio, osservando il panorama scorrere dal finestrino. A un tratto mormorò qualcosa tra sé e sé.
– Come hai detto?
– Questa zona mi ricorda dove sono cresciuto da ragazzo, con uno zio.
– Non vivevi con i tuoi genitori?
– Mio padre e mia madre si sono separati quand’ero molto piccolo e nessuno dei due ha ritenuto conveniente tenermi con sé. Mi hanno cresciuto i nonni materni, che però hanno pensato bene di morire quasi contemporaneamente, quando avevo tredici anni. Da allora sono andato a stare da uno zio, in campagna, tra cani, maiali, galline, vigne, ulivi e qualche fucile da caccia. Mio zio era un perfetto ignorante, zotico, manesco e anche qualcosa di peggio. Mi hanno sempre tradito tutti, a partire dai miei cari genitori. Spero proprio che siano schiattati, come mio zio.
Paco rabbrividì.
– Non si può dire che tu abbia avuto una vita facile.
– Me ne frego. Con quello che ho ereditato dai miei nonni e dallo zio, mi sono trasferito a Roma e ho completato gli studi. Poi la polizia postale ha avuto bisogno di me e così mi sono arruolato. Faccio lo sbirro informatico, ma ogni tanto mi capita di entrare in qualche azione più movimentata. Lo preferisco. Stare dietro una scrivania mi annoia.
Angelo non credeva nella perfezione, né nell’amore. Quel Paco, tutto compreso nella sua irreprensibilità, nella sua nobiltà d’animo, che lo guardava dall’alto della sua stupida supremazia morale, gli faceva una gran rabbia. Tutte quelle sue storie di amore, di fedeltà, di sincerità, lo facevano vomitare. Era una maschera, solo un’ipocrita maschera. Aveva di sicuro anche lui le sue perversioni, che si sarebbe divertito a scoprire. Sui difetti si poteva giocare, sulla perfezione no, non dava appigli. Ma non esisteva essere umano al mondo che fosse perfetto, incorruttibile o irreprensibile, Angelo lo sapeva bene. Si sarebbe davvero divertito a giocare con lui, come il gatto col topo. Non vedeva l’ora di conoscere Rey, che a quanto aveva potuto capire, non aveva nulla a che fare con tutte quelle arie di superiorità. Era uno che si dava da fare. Con lui gli sarebbe stato più facile, e avrebbe potuto dare una lezione a Paco, come si meritava, per dimostrargli che stava vivendo nell’illusione. L’umanità viaggiava molto più terra terra.

Quand’era giunto il momento di accompagnare Angelo in un albergo, Paco si era fermato un attimo a riflettere.
– Ti sei scordato la strada? – gli chiese il collega.
– Veramente stavo pensando che io ho un appartamento vuoto. Potresti stare là.
– Perché no? Posso pagarti l’affitto.
– Ma figurati! Non pensarci neppure.
– Grazie, Paco. Sei molto generoso.
– Non è niente.

 

 

Angelo si guardò intorno, dal divano dove si era disteso senza neppure togliersi le scarpe. Le mani intrecciate dietro la nuca, osservava i mobili solidi, scuri, che davano all’ambiente un’impronta di stabilità così definitiva che lui si sentiva a disagio. Nella sua vita non c’era mai stato nulla di definitivo. Il suo destino provvisorio gli aveva insegnato sin dal primo affacciarsi dell’autocoscienza che tutto muta, si muove, è in viaggio. Gli piaceva così. Affittare una casa per un anno o due, poi cambiare. Stare con un uomo che gli piaceva per qualche giorno o qualche mese, poi trovarne un altro. Solo il lavoro era stato capace di legarlo. Forse perché sentiva che trovarne un altro non sarebbe stato tanto facile. A volte cambiare era una sua decisione, altre volte ne era stato una vittima, come quando era finito dallo zio Venanzio, dopo che i nonni se n’erano andati. Quando l’aveva accolto in casa, aveva capito subito che la fortuna gli aveva voltato le spalle di nuovo. Venanzio era brusco, rude, di poche parole. Non conosceva né delicatezza, né dolcezza. Alto, robusto, forte come un bue, ricoperto da un fitto vello scuro che lo faceva assomigliare agli animali che accudiva, era sbrigativo e scarsamente diplomatico, ma furbo come una volpe. Idee chiare, uno sguardo di fuoco e un fucile sempre carico sopra la mensola del camino. La loro convivenza iniziò durante le vacanze dalla scuola e la sua libertà dagli studi fu subito sostituita dal lavoro nella fattoria. Lasciarlo con le mani in mano o a vagabondare nei campi, per Venanzio era inconcepibile. Durante i primi giorni, Angelo non aveva ancora capito che lo zio riteneva ogni suo ordine sacro e inviolabile. Un mattino che doveva distribuire il mangime ai maiali, lo trovò che osservava gli animali, appoggiato con le braccia alla recinzione di legno. Era arrivato in silenzio alle sue spalle, facendolo sobbalzare. Con voce rude e graffiante l’aveva rimproverato.
– Qui non si perde tempo a sognare a occhi aperti, qui si lavora oppure non si mangia.
Poi aveva guardato verso le bestie che Angelo si era incantato a osservare.
– Ti piace vedere che s’ingroppano, eh?
Quella sera, prima di cenare, l’aveva ingroppato lui, tenendolo contro il tavolo di cucina e grugnendo come quei maiali che c’erano là fuori. Per cinque anni aveva dovuto sopportare il suo puzzo di caprone, le sue laide manacce e la sua oscena volgarità. Poi aveva messo in piedi un provvidenziale incidente di caccia.

Al rientro nel suo ufficio tranquillo e silenzioso, Paco rivide Javier Cabello, che sprizzava felicità da tutti i pori. Glielo fece notare, ridendo.
– Superata la fase di stordimento dei primi due giorni, adesso sono un padre felice – ammise il collega.
– Ancora tanti auguri, Javier.
Dopo qualche minuto di convenevoli, Javier si bloccò, tossicchiando.
– Ma parliamo di questo caso. Mi sono sentito un po’ in colpa per avertelo rifilato. Cos’hai scoperto, in Italia?
– Un bel niente.
– Ma come?
– È qui che dobbiamo indagare, Javier. Credo che l’Italia sia stata un depistaggio. Al nostro amico è sembrato divertente fare un giochino per spingerci a pensare che avesse la sua base in Italia. Invece è qui, ne sono sicuro.
– Beh, io non me ne sono rimasto con le mani in mano. Sto scavando nel database dei collezionisti filatelici. Non sono molti. Adesso sto studiando i movimenti dei loro conti correnti. Sono solo all’inizio, ma non credo che ci vorrà molto. Se qualcuno di loro ha spostato fondi di un certo rilievo, andremo a interrogarlo. Quelli che hanno sporto denuncia finora non sono stati di alcuna utilità.
– Bisognerebbe intervenire durante uno scambio o prima ancora. Prepariamo una lettera per tutti i collezionisti, così da metterli sull’avviso.
– Non ci avevo pensato, Paco. È un’ottima idea.

 

 

Alla Meson del Cid, quella sera, Angelo fece la conoscenza di Rey. Dalla finestra aperta a riquadri piombati, con i vetri colorati, la vista spaziava sulla Cattedrale, illuminata di luce giallorosata proiettata di taglio sulla facciata, facendo risaltare le guglie sottili, il rosone e due finestre ogivali a doppio arco: un intreccio di eterei ricami imbastiti con la pietra. Angelo se ne innamorò perdutamente, smarrendo momentaneamente l’interesse per i due uomini seduti di fronte a lui, che conversavano a bassa voce, guardandosi negli occhi. Quando riuscì a staccarsi dalla sua contemplazione, passò a una panoramica del ristorante: pavimento in cotto mal livellato, come fosse stato posato in un lontano passato; soffitti con travi a vista; mobili castigliani, sedie dall’alto schienale; pareti giallo paglierino, con inserti da cui affioravano lastre di pietra; tovaglie color burro; serie di piatti decorativi allineati sopra le finestre.
– Bel posto – commentò.
– È un palazzo del XV secolo. Ha una posizione magnifica – disse Rey, nel poco italiano che ricordava.
– Ci venite spesso?
– Mai. Di solito andiamo alla Casa Babylón, ma non sapevamo se ti piace il tex-mex.
– Non particolarmente.
– Allora abbiamo scelto bene – affermò Paco.
– E tu di che cosa ti occupi, Rey?
– Sono un collega anch’io.
– Bene. Comincio a capire.
– Che cosa?
– Come mai vi siete trovati. Il motivo per cui andate d’accordo.
– In effetti, una base comune aiuta – confermò Paco.
– Raccontami un po’ di te, Rey.
Non essendo mai stato uno cui piacesse parlare di sé, Rey girò abilmente la frittata. Per quella sera, inaspettatamente, fu Angelo a dover raccontare qualcosa della sua vita.

Sigaretta penzoloni tra le labbra, Angelo sollevò ancora una volta lo sguardo sulle guglie della Cattedrale, prima di abbandonare la piazza, lasciandosi guidare verso l’appartamento dove avrebbe trascorso le notti della sua trasferta. Quando Paco e Rey lo lasciarono al portone di Calle de las Infantas, Angelo finse di salire in casa, aspettò qualche minuto, poi uscì di nuovo. La notte era giovane, e qualcosa poteva ancora accadere, per esempio d’incontrare un tipo interessante come Rey, preferibilmente sprovvisto di guinzaglio. I locali erano parecchi, tutti abbastanza affollati, eppure Angelo, per un lungo tratto, non si decise a fermarsi. Nel bel mezzo del suo vagabondare, finì in una piazzetta, quasi completamente occupata dai tavolini affollati di un bar. Di fronte al locale, dietro il parcheggio delle moto, erano disposte una serie di panchine, sotto un filare di alberi. Bella posizione, per studiare la fauna locale. Culo sulla panchina, occhio telescopico, sigaretta accesa, mano sul pacco, Angelo si rilassò. Perché non aveva chiesto a quei due se c’erano locali gay in zona? Già, perché voleva lavorarseli bene, uno alla volta, separatamente. Doveva convincerli di essere interessato solo a loro. Prima Rey o prima Paco? Avrebbe deciso il caso. Intanto, ripensare a come si guardavano quei due e immaginare cosa stavano facendo in quel momento, glielo faceva venire duro. Che stronzi! Potevano almeno invitarlo. Un tizio si sganciò da un tavolino, raggiungendo con passo sicuro proprio la moto parcheggiata davanti a lui. Angelo lo guardò dritto negli occhi, con un mezzo sorriso. Il tizio lo ricambiò, studiandoselo dalla testa ai piedi, soffermandosi più a lungo nel punto da cui Angelo aveva spostato la mano, perché fosse ben evidente la sua dotazione. Il tizio tornò a guardarlo negli occhi, appoggiandosi alla moto, a braccia conserte, sorridendo. Angelo mise le braccia nella stessa posizione, rispondendo al suo sorriso. Cazzo, che tipo figo, pensò, studiandoselo con altrettanta attenzione.
– Ti va di fare un giro?
Angelo, che capiva poco, interpretò la frase a modo suo, come l’offerta di un passaggio, rispondendo di sì. Quello prese due caschi dal bauletto e gliene offrì uno, indossando l’altro. Montò in sella, aspettò che lui facesse lo stesso e il rombo del motore fu un ruggito vibrante che gli accarezzò le pareti dello stomaco, passando per il culo. Angelo strinse le braccia intorno al busto del centauro, pregustando il seguito. Le sue mani viaggiarono sui pettorali e sugli addominali, senza che il pilota lo bloccasse. Gli stava bene. Solo allora Angelo andò in esplorazione della penisola salentina. Quando la strada si allargò, diventando un rettilineo, la moto aumentò l’andatura. Viaggiare ad alta velocità, tenendosi al cazzo di quel tizio, lo entusiasmò senza ritegno. Dopo qualche chilometro, il centauro superò un ponte sul fiume e s’infilò in una stradina in mezzo ai campi, fermando la moto vicino a un boschetto di querce, da cui s’intravedeva la superficie argentata di un piccolo lago. Angelo spostò la mano solo per scendere. Non avrebbe mai pensato che la sua serata potesse migliorare tanto. Sotto un cielo di ossidiana, sputtanato dalle stelle, abbracciato a una quercia, con gli occhi piantati su uno specchio d’acqua che rifletteva una luna grassa, il suo culo godette di un trattamento d’alto livello, in terra di Spagna. Non male come benvenuto. La lingua non era stata un problema. La sapeva usare in tanti modi diversi, com’ebbe presto a scoprire il suo motorizzato compagno, di cui non seppe mai il nome, ma di cui si ricordò con nostalgia il giorno in cui prese un aereo per ritornare a Roma.

 

 

Una pioggia di lettere aveva colpito come un fulmine le tranquille vite di persone dedite all’amorevole cura di francobolli rari e no, armati di lente d’ingrandimento, pinzette e lampada di Wood. A una di quelle missive arrivò finalmente una risposta, sotto forma di un uomo robusto, piuttosto alto, dalla calvizie incipiente e un paio di bei baffoni bianchi, dal breve nome di Jon Moya, che si presentò nell’ufficio di Paco con un’espressione innegabilmente preoccupata. Paco lo invitò a sedersi e a raccontargli tutto con calma.
– Intanto vi devo ringraziare per il vostro avviso. Non ne sapevo niente. Ma il problema è che ho un accordo con un tale cui sto per consegnare 22.000 euro in cambio di un Gronchi rosa che ha viaggiato sull’aereo presidenziale.
– E come avverrà l’acquisto?
– Lui mi consegnerà il pezzo e io i soldi.
– Quindi, v’incontrerete di persona.
– Esatto, stasera alle nove, a casa mia.
– Capisco. Non si agiti. Abbiamo tutto il tempo di prepararci, non si preoccupi. Mi assento un attimo per avvertire i miei colleghi. Stia tranquillo, ci pensiamo noi.

Una microcamera nascosta tra i libri, alle spalle della scrivania, e un’altra a bottone, attaccata alla lampada da tavolo, potevano fornire tutte le immagini necessarie. Una volta sistemate, Cabello controllò che audio e video funzionassero alla perfezione, poi si guardò intorno.
– Signor Moya, faccia sparire quella lampada a fluorescenza.
– Ma mi serve per studiare la filigrana del…
– Non questa volta – lo interruppe Javier. – Lei fingerà di fidarsi ciecamente dell’autenticità del francobollo. Non sappiamo con chi abbiamo a che fare. Se si tratta davvero di un malvivente, potrebbe essere armato, capisce?
– Certo, che capisco – rispose Moya, leggermente seccato.
– Noi seguiremo lo scambio attraverso le telecamere. Quando l’uomo sarà uscito, lei potrà studiare il suo Gronchi rosa e farci sapere se è autentico oppure no. È sufficiente che parli ad alta voce. Noi la sentiremo e ci regoleremo di conseguenza. Se si tratta di un falso, seguiremo quell’uomo e l’arresteremo.
– Va bene. Sono un po’ nervoso, mi dispiace.
– Non ce n’è motivo. Abbiamo tutto sotto controllo – lo rassicurò Paco.
Dopo poco tornarono in macchina, dove Angelo era rimasto in attesa, attento ai passanti e alle auto che si fermavano in prossimità della palazzina dove abitava Jon Moya. Il sospetto poteva trovarsi già nei paraggi. Paco e Javier avevano anticipato il loro ingresso nel caseggiato, invitando Moya a rientrare in casa solo dopo venti minuti. Loro erano rimasti ad aspettare all’ultimo piano, sul ballatoio. La prudenza non era mai troppa. Se il soggetto che doveva effettuare lo scambio stava tenendo d’occhio Moya, non doveva sospettare nessun collegamento con le forze dell’ordine.
– Mica ce l’avete scritto in fronte, che siete poliziotti – aveva commentato Angelo.
– Meglio essere prudenti.
– Sì, ma così è un’esagerazione!
– Tu non preoccuparti. Di prudenza non è mai morto nessuno.
Il soggetto arrivò alle nove in punto, cavalcando una moto di grossa cilindrata. Fermò il bolide accanto al portone e scese senza togliersi il casco.
Dopo che fu entrato nello stabile, Paco si spostò sul lato opposto della carreggiata, per allineare l’auto nella stessa direzione della moto, anche se si trattava di un rischio. Niente poteva impedire al motociclista di fare una semplice inversione di marcia, che per loro sarebbe stata leggermente più complicata, con relativa perdita di tempo. Riuscirono a vederlo soltanto quando giunse alla scrivania di Moya, attraverso le immagini sul monitor LCD, splittato in due parti. Lo vedevano contemporaneamente di schiena e di fronte. Era un individuo sui trent’anni, longilineo, con le spalle larghe e la vita stretta, capelli corti, scuri, abbronzato, senza segni particolari. Potevano scorgerne solo il volto, perché il resto del corpo era inguainato in una tuta di pelle. Si era sfilato il casco, ma si era tenuto i guanti.
– Non possiamo aspettare che Moya ci dia notizie. Se quello fila via a velocità sostenuta, non riusciamo più a prenderlo. Bisogna seguirlo subito, appena parte – commentò Javier.
– L’audio prende solo fino a trecento metri – lo informò Paco.
– Cazzo. Che si fa?
– Tu resti qui con l’auricolare, per sentire se gli ha rifilato un falso, e appena sai qualcosa ci telefoni. Noi intanto lo seguiamo, sempre che sia possibile.
– Perché non resti tu?
– Perché io non ho una figlia appena nata.
– Allora lui.
– Lui non capisce una parola.
– Giusto, resta uno a caso: io.
Paco fece una traduzione abbreviata della loro conversazione a beneficio di Angelo, il quale annuì, compiaciuto. Non era tipo da aspettare in macchina o da lasciare l’azione a qualcun altro. E se c’erano da menare le mani, preferiva essere al centro degli eventi.
– Posso guidare io?
– Perché? Tu non conosci la città.
– Non faccio un bell’inseguimento da mesi… – sospirò Angelo.
– Beh, mi dispiace, ma dovrai aspettare un altro po’. Javier, il sospetto si sta muovendo. Prendi l’auricolare, vai!
Javier entrò in un bar, poco oltre il portone da cui stava per uscire il sospetto. Da quella posizione non riusciva a vedere la moto, ma soltanto l’auto da cui era appena sceso, mentre Paco già accendeva il motore. Vedeva attraverso i finestrini che Paco e l’italiano stavano discutendo animatamente. Chissà che diavolo voleva quello. Se non gli piaceva il modo in cui gestivano quel caso, perché non se ne tornava a casa sua? Tanto ormai si era capito che era un problema tutto loro e che l’altra Burgos non c’entrava niente. All’improvviso vide l’auto muoversi dal parcheggio e nello stesso tempo udì il rombo del motore di una moto di grossa cilindrata. Paco aveva avuto l’intuizione giusta, voltando la macchina in quella direzione. E adesso non restava che aspettare il responso del collezionista. I secondi passarono con incredibile lentezza, mentre Javier teneva in mano il cellulare, con il numero di Paco in posizione di chiamata sul display e il pollice pronto a scattare. Dai, Moya, che aspetti? È autentico o falso? Deciditi, porco mondo! Non possiamo aspettarti all’infinito.
– È falso! – gli urlò una voce negli auricolari.
Prima ancora che finisse di risuonargli l’urlo nelle orecchie, il suo pollice era scattato per attivare la chiamata.

 

 

– Ce l’abbiamo, non ci scappa! Questa è una via senza uscita.
Angelo non si capacitò di quanto potesse essere stupido quel delinquente. Andarsi a ficcare in una strada senza uscita, era proprio da fessi. Il motociclista si fermò a metà strada, scendendo velocemente dalla moto, dopo di che, varcò di corsa un portoncino spalancato. Paco fermò la macchina a una decina di metri di distanza, quindi, arma in pugno, corse verso l’ingresso, tallonato da Angelo. Si bloccò di fianco alla porta, sporgendo appena la testa per ispezionare il corridoio, tanto da essere sicuro che il motociclista non facesse scherzi. All’esplosione del primo colpo di pistola, Paco capì che non scherzava, tutt’altro. Sparò un paio di colpi senza prendere la mira, giusto per coprire il passaggio di Angelo sull’altro lato del portone. In risposta, arrivarono altri colpi, ma non solo dal corridoio poco illuminato in cui s’era introdotto il centauro. Una pioggia di proiettili piovve anche dal cielo, da una finestra del primo piano. Da quelli non erano in grado di ripararsi. Così Paco e Angelo, sparando all’impazzata verso la finestra, indietreggiarono fino alla macchina. Mentre stava per salire a bordo, Angelo sentì Paco urlare e subito dopo lo vide scivolare sull’asfalto. Fece di corsa il giro dell’auto, sempre sparando, riparato alla meno peggio dallo sportello aperto. Afferrò Paco sotto le ascelle e lo trascinò sui sedili posteriori, poi si mise alla guida, schizzando via a marcia indietro fino alla strada principale.
– Paco, ci sei?
– Sì, sono a posto. Mi hanno preso solo a una coscia.
– Ah, e saresti a posto! Dai, guidami verso l’ospedale più vicino! Sbrigati, che hai solo sei litri di sangue e da come sta combinato quel sedile, mi sa che sei già in riserva.

Rey non si ammalava mai, non frequentava medici e ospedali. La sua costituzione robusta e i buoni geni che aveva ereditato alla nascita, gli avevano concesso una salute di ferro. Ritrovarsi in una sala d’aspetto del pronto-soccorso era quanto di più lontano dai suoi pensieri si sarebbe aspettato quella notte. Mentre Angelo misurava a passi lenti e regolari il pavimento della sala, Rey restò seduto scomodamente su una sedia di plastica, che sembrava progettata con il sadico intento di limitarne l’uso a un tempo molto ridotto. Ma certo, pensò, così si crea un ricambio continuo. Quando la sala è affollata, chi si stanca di stare seduto, si alza, e chi è in piedi, si siede. Un po’ per uno e contenti tutti. È l’uovo di Colombo. Rey chinò il capo mestamente. Che cazzo di pensieri di merda gli passavano per la testa! Era preoccupato a morte per Paco, ma il suo cervello deragliava per consentirgli un momento di tregua dall’ansia che lo stava attanagliando. Angelo, che si era avvicinato a lui, gli prese il mento tra le dita costringendolo a risollevare la testa.
– Non ti preoccupare, ha solo un buco nella coscia. Lo rimetteranno in piedi in un paio di giorni.
– Ma ha perso molto sangue. Avreste dovuto fare una legatura all’arto per limitare l’emorragia. Non vi fanno fare i corsi di primo intervento, nella polizia italiana?
– Mi dispiace, non ci ho pensato. Ero appena scampato a una sparatoria e non ero molto lucido.
Rey sospirò. Neppure Paco poteva essere stato molto lucido.
– Vedrai che andrà tutto bene – ribadì Angelo, con una carezza.
Rey assentì, ma la preoccupazione rimase esattamente allo stesso livello.

 

 

Mentre Rey, appena ricevuta la notizia, si catapultava in ospedale, Consuelo, con una squadra di colleghi, si precipitò in Calle de Juan de Vallejo, dov’era avvenuto lo scontro a fuoco. Nonostante l’intervento fosse stato tempestivo, non lo era stato abbastanza per beccare i malviventi. Non solo erano riusciti a dileguarsi, ma si erano portati via tutto il materiale che avrebbe potuto essere compromettente. I vicini di casa erano spaventati dall’episodio, ma a causa del buio non avevano distinto molto. Dichiararono quasi tutti d’aver visto allontanarsi un motociclista e un’automobile con due persone a bordo. A qualcuno erano sembrate tre. Ma forse, pensò Consuelo, l’ombra scura sul sedile posteriore, poteva appartenere a uno scatolone in cui trasportavano la materia prima e le attrezzature per creare i loro falsi. Presero impronte, perquisirono i locali al primo piano, raccolsero bossoli, e quando ormai spuntava l’alba, Consuelo raggiunse Rey in ospedale per chiedere notizie. Angelo era presente come la sua ombra. Rey riassunse con poche parole la situazione, poi le ordinò di andare a dormire. Agli ordini di Rey, impartiti con un certo tono, Consuelo non era mai stata capace di disobbedire.

Tra le altre caratteristiche, Rey era dotato di una buona dose di resilienza, prerogativa che gli permise di superare, non senza piccoli cedimenti, i due giorni che furono necessari ai sanitari per sciogliere la prognosi e dichiarare che Paco avrebbe potuto presto tornare a casa. Consuelo, da parte sua, era preoccupata sia per l’uno che per l’altro. Rey sembrava depresso. Durante la loro collaborazione professionale, l’aveva visto a volte irrequieto, distratto, perplesso, incazzato a vari gradi, ma mai così depresso e preoccupato. Per distrarlo dai suoi cupi pensieri, era ricorsa a ogni genere di espediente. E poi c’era quell’ispettore italiano che ronzava costantemente intorno a lui, come un moscone. A Consuelo non piaceva il suo atteggiamento da dongiovanni a caccia di conquiste. Ma Rey sembrava non accorgersene neppure. Certo, aveva ben altro per la testa.

 

 

Era bello sfogarsi con un’amica, poterle raccontare ogni cosa, e di conseguenza chiarirsi le idee, già solo per il fatto di parlarne. E come spesso capita tra donne, l’argomento era finito sugli uomini, trovandole perfettamente d’accordo. Le esperienze vissute da entrambe non erano state esaltanti, né tanto meno gratificanti.
– Non puoi piacere a tutti – affermò Consuelo.
– Mi guarderei bene dal desiderarlo. Lo sai quante volte mi è capitato di essere palpeggiata su un autobus affollato? Mi veniva voglia di mettermi a urlare, là, in mezzo a tutti, oppure di pestarlo a sangue, quello stronzo. E invece cercavo solo di spostarmi in fretta, senza dare nell’occhio, come se fosse colpa mia. Non ci tenevo davvero a piacere a quel genere di uomini. Ero giovane e indifesa, a quei tempi. Mi paludavo in abiti improbabili per nascondere le mie forme, come fanno le musulmane. Ma non era sufficiente. C’era sempre qualche deficiente che mi seguiva fin sotto casa, qualche imbecille che doveva mostrarmi la sua dotazione, fermandosi con la macchina, fingendo di chiedere un’informazione.
– Io una volta ne ho trovato uno sulle scale di casa. Mi ha presa e mi ha sbattuta al muro, strofinandosi su di me e infilandomi la lingua in un orecchio. Ho urlato come la sirena dei pompieri e lui è scappato via, ma da quella sera, ogni volta che facevo le scale, avevo il cuore in gola.
– Beh, questo si guadagna a piacere a tutti.
– No, solo ad alcuni. Una volta un tizio che conoscevo ha cercato di violentarmi. Sono riuscita a scappare con i vestiti a brandelli e da quel giorno ho giurato a me stessa che non avrei mai più permesso a nessuno di toccarmi. Ora sono cintura nera di karate, istruttrice di tecniche di difesa, e specialista in kickboxing.
– Wow! È fantastico! M’insegneresti qualche mossa di difesa personale?
– Ma certo, quando vuoi.

Non senza una certa fatica, grazie alla foto del documento contraffatto in possesso di Javier Cabello, alle immagini registrate in casa di Jon Moya e alle impronte digitali rilevate nell’appartamento di Calle de Juan de Vallejo, Consuelo e Fernando Gil svelarono l’identità dei tre componenti la banda dei falsari. Erano Leon Urtubia, Juan Sperado e Sergio Pillar. Tre nomi già noti alla legge, due per precedenti di poco conto, Pillar per spaccio di denaro falso. Evidentemente non si occupava solo di spaccio, ma anche di produzione, particolare che non era emerso nelle precedenti indagini. Il passaggio dal denaro ai francobolli costituiva il segno di un processo di evoluzione verso una maggiore raffinatezza e prudenza. Adesso si trattava di trovarli. Gil aveva smesso con il dopobarba, permettendo a Consuelo di stargli vicino più a lungo, senza sentirsi stordita. Gil ne dedusse che la sua collega preferiva gli odori maschi, naturali, e che forse sarebbe riuscito a conquistarla, se avesse capito cosa le passava per la testa, e quali fossero le sue preferenze, tanto da poterle compiacere. La continua distrazione di Fernando stava irritando Consuelo, sempre più convinta che il collega trascorresse più tempo a osservare lei, che il monitor del computer. Alla fine, esasperata, esplose.
– Adesso basta, Gil! Se ti volti ancora una volta a guardarmi, ti stacco la testa.
– Consuelo, calmati! Non lo faccio apposta. È che averti qui, accanto a me…
– Ascoltami bene, Fernando, tu mi sei simpatico, davvero. Sei un collega prezioso, preciso, acuto, intelligente, anche fortunato, credo, ma da qualche tempo a questa parte sei troppo distratto, vago e inconcludente. Passi il tempo a sognare a occhi aperti invece che a lavorare. Hai bisogno di ferie?
– Ho bisogno di te – sussurrò lui, approfittando di quell’occasione insperata, per tentare di confessarle il suo amore.
– Proprio quello che temevo. Mi dispiace, non so come dirtelo, ma tra noi non può esserci niente, niente di quello cui tu stai pensando.
– Perché?
– Perché? Perché non sei il mio tipo, perché non sei affidabile, perché non ho nessuna voglia di avere una storia e perché sto bene da sola, ecco perché.
– Ma in futuro, quando ti sentirai più disponibile a un…
– Alt! Ferma tutto. Il mio no è definitivo, perenne, eterno, immutabile, solenne, inderogabile e categorico. Mi sono spiegata?
Per qualche momento Fernando restò a bocca aperta. Poi, con una certa difficoltà, rispose:
– Sì, sei stata chiarissima. Non ho speranze, né ora, né mai.
– Esatto. E adesso concentrati. Come possiamo trovare questi tre bastardi? Metti in moto il cervello.
– Ci provo – disse Gil, cercando di riprendere fiato, dopo quella stratosferica randellata.
Inevitabilmente, Consuelo ripensò al giorno in cui aveva visto Damian in compagnia di quella ragazza. Fino a quel momento, era stata una bella giornata, se lo ricordava bene. Era uno di quei rari giorni in cui non era successo niente e inoltre il boss le aveva rivolto un paio di quelle battute ironiche e divertenti che capiva solo lui. Non avendo nulla da fare, era uscita con un certo anticipo dal commissariato, decidendo di fare due passi prima di tornare a casa. Perciò li aveva visti, attraverso i vetri della cafetería. Lei aveva negli occhi quella specie di fiamma che hanno le donne quando il loro cuore si scalda. Anche Consuelo pensava di aver avuto una volta uno sguardo simile: quella sera che Damian l'aveva invitata a prendere un aperitivo. Damian guardava negli occhi quella ragazza come se fossero soli al mondo. Sporgendo il busto verso di lei, le stringeva una mano nella sua, con quel sorriso che conosceva a memoria. Adesso le sembrava un sorriso imbecille. Tutto quello che con lei aveva fatto e detto, tutto ciò che l'aveva conquistata, non erano state che tattiche sfruttate mille volte, e lei c'era cascata. Damian si era allungato ancora verso la ragazza, fino a sfiorarle le labbra con un bacio. Una storia banale. Una cosa che accadeva ogni giorno, a qualcuno, da qualche parte. Lei non era l'unica, non era la prima, e non sarebbe stata l'ultima. Se ne sarebbe fatta una ragione. Non li aveva disturbati. Quella sera, Damian aveva prodotto un debole tentativo di giustificarsi, ma Consuelo gli aveva fatto risparmiare il fiato.
– Raccogli quello che hai lasciato in giro e sparisci – gli aveva detto.
Consuelo si chiedeva ancora come avrebbe reagito, nel caso lui le avesse chiesto perdono, e se le avesse detto che l’amava come prima. Ma Damian non se l'era fatto ripetere due volte. Forse Gil non si sarebbe mai comportato allo stesso modo, ma Consuelo non si fidava più. Preferiva restarsene per i fatti suoi. Era meglio.

 

 

Appena trasferito dalla terapia intensiva, Paco si ritrovò circondato di gente che gli chiedeva come stava. Era confuso, sentiva la testa vuota e leggera, e il corpo pesante e molto debole. Mise a fuoco per primo il volto di Rey. Due profonde rughe parallele gli si erano piantate tra le sopracciglia scure. Accanto a lui, c’era Angelo, appoggiato col gomito sulla sua spalla, in un atteggiamento di grande confidenza. Rey sembrava non badarci, come fosse normale. Consuelo aveva lo sguardo velato, ma un sorriso soddisfatto. Infine c’era Javier, che continuava a passarsi una mano sullo stomaco, come se cercasse di aiutare la digestione di un mattone che proprio non voleva andar giù. Il liquido della flebo scendeva goccia a goccia, con una lentezza esasperante. Paco aveva la gola secca, le labbra incollate l’una all’altra. Faticò non poco a rispondere.
– Ho avuto giorni migliori.
Rey gli si avvicinò, scrollandosi Angelo di dosso con noncuranza.
– Mi hai messo una bella paura.
– Mi dispiace.
– Come ti è venuto in mente d’ingaggiare un conflitto a fuoco, invece di chiamare rinforzi? Da quando ti sei messo a fare il pistolero? – lo rimproverò.
– È accaduto tutto troppo in fretta. Non ho avuto il tempo di pensare.
– Non è da te, Paco. Sei la persona più prudente che io conosca.
– Mi dispiace, ormai è fatta.
Rey respirò a fondo, ma non commentò ulteriormente.
S’intromise Angelo per informarlo che i medici avevano intenzione di buttarlo fuori in un paio di giorni.
– Bene. Non vedo l’ora – disse Paco. – Dov’è il mio orologio?
– Tutti fuori di qui! Non siamo al mercato di Plaza Mayor – esclamò un’infermiera, entrando nella stanza con un carrello.
Prima di uscire, Rey si chinò su Paco per baciarlo sulla bocca.
– Ti amo – gli sussurrò, prima di allontanarsi.
Paco non fece in tempo a replicare, dal momento che le sue reazioni erano molto rallentate, ma, dentro di sé, fiorì lentamente un pensiero. Anch’io. Un pensiero che si consolidò con il trascorrere noioso delle ore. Rey era un punto fermo della sua esistenza. E ci teneva che restasse tale. Ognuno aveva la sua carriera, la sua vita, le sue difficoltà, i suoi dubbi e le speranze, ma tutto si ricongiungeva in un punto, quando, la sera, facevano quel tratto di strada insieme, tra la cucina e la camera da letto. Ripensò ai bei momenti vissuti in cucina, dove a volte preparavano i pasti insieme, divertendosi a mescolare sapori di dubbia compatibilità, mandandoli giù con le sue ultime scoperte enologiche. Il soggiorno, dove si rilassavano, chiacchierando, discutendo, confrontandosi; dove Rey suonava il pianoforte, mentre lui leggeva o semplicemente lo guardava, senza pensare a niente. La camera da letto, dove ritrovavano l’intesa ormai perfetta, ma sempre fantasiosa, della loro intimità. Quelle mura potevano già raccontare una lunga storia di piccoli momenti di felicità, così sottile che non ne restava eco, ma che si potevano riconoscere, passandoli in rassegna con calma, come lui stava facendo ora. Aveva rischiato di perderli, per una stupida sparatoria, ma lui voleva tornare a viverli di nuovo. Pensieri non dissimili passavano per la testa di Rey. Il vuoto che aveva provato quando Paco sembrava non farcela, l’aveva intontito. Vuoto che sentiva come assenza di luce e di speranza. Vuoto che l’avrebbe riportato a un tempo in cui era duro come la pietra, freddo come il marmo, in cui i suoi sentimenti si erano atrofizzati, tanto da permettergli di guardare in faccia la morte senza nemmeno un brivido. Oggi la crudeltà di vedere spegnersi una vita, lo colpiva profondamente, perché della vita aveva riacquistato il gusto, con Paco. Gusto delle piccole cose, dei piccoli gesti, della felicità tanto minuscola che lì per lì si fa fatica a riconoscere. Paco era il suo compagno perfetto. Paco l’aveva ripescato dal buio e l’aveva riportato in superficie. Gli doveva molto. Gli doveva l’essere tornato umano.
 
C’era un piumoso seme di pioppo, impigliato in una ragnatela. Consuelo lo stava osservando, senza neppure rendersene conto. Poi, finalmente, dopo averlo a lungo fissato, lo vide. I suoi pensieri avevano viaggiato tra Paco, che migliorava velocemente; Rey, che sembrava molto turbato; Angelo, che non riusciva bene a inquadrare, e Agnese Diaz, che le aveva mostrato, inaspettatamente, un affetto improvviso e gratuito, a cui non era né abituata, né preparata. La sua prima amica a Burgos, una donna capitata per caso sulla sua strada, che di sicuro non l’aspettava, quel giorno al mercato, ma che non si era lasciata sorprendere, cogliendo al volo l’occasione di parlarle come se si conoscessero da un secolo. Donna strana, la cappellaia. Donna libera, dai mille amori e dalle mille passioni, rivoli dispersi di un fiume che scorreva senza posa. La sua vita era un albero con cento rami, da cui partivano altri più piccoli e da questi altri ancora. Consuelo, tuttavia, aveva capito che il suo disperdersi in mille attività, ne faceva una persona che iniziava un’infinità di cose, senza portarne a termine nessuna. Era fatta così. Era soggetta a brevi passioni intense, che si spegnevano in tempi rapidissimi, subito sostituite da altre. Voleva provare tutto, vivere tutto; come un bulimico, mangiava ogni cosa, ma spiluccava come un gatto, senza davvero nutrirsi a sufficienza. Questa era la sua amica Agnese, innamorata di tutto e di niente. E lei ora si sentiva esattamente come quel seme di pioppo, impigliata nella ragnatela di Agnese, che la chiamava almeno due volte al giorno, e, la sera, non la lasciava più mangiare da sola.

Rey si domandò perché Angelo ci tenesse tanto a salire da lui. Gli italiani erano tutti così invadenti? Per di più, lo prendeva in un momento in cui la preoccupazione per Paco lo rendeva scontroso e intrattabile. Ma Angelo, con le sue battute divertenti, anche se non le capiva tutte, cercava di alleggerirgli la tensione e di distrarlo, quindi, in un certo senso, doveva essergli grato. Aveva una risata aperta e calda, che spingeva ad abbassare la guardia. Mentre bevevano una birra, Angelo gli raccontò delle birre del Papa e della poca resistenza di Paco all’alta gradazione. Con immenso stupore, Rey si rese conto che Paco gli aveva raccontato numerosi particolari che li riguardavano. Ne fu piuttosto seccato. Quelli erano affari loro. Perché Paco, di natura così riservato, era andato a spifferare tutto a quel tizio? Angelo gli raccontò anche della loro passeggiata nel bosco di Burgos, facendogli intendere di essere entrati in grande sintonia e di aver ampiamente superato la soglia del semplice cameratismo tra colleghi. Rey restò di stucco. Erano seduti sul divano, le bottiglie di birra vuote sul tavolino, Kiko che li osservava dall’alto del suo ramo. Angelo si spostò più vicino a Rey, appoggiandogli una mano sulla coscia. Rey non reagì. Stava pensando a Paco, al fatto che al telefono gli era sembrato diverso; si ricordò della sua reazione, un accenno di pura gelosia, che aveva scacciato subito dalla mente. E adesso, quella mano che arrivava indisturbata dalla coscia al ginocchio e viceversa. Rey si alzò di scatto.
– Sono stanco. Se non ti dispiace vorrei andare a dormire.
Angelo si alzò, a sua volta, avvicinandosi a lui. Allungò una mano in una carezza, con una disinvoltura inquietante.
– Peccato, avrei molto da offrirti, ti farei passare anche la stanchezza.
Rey lo guardò fisso negli occhi. Angelo era uno che non ci girava intorno.
– Ti ringrazio per l’offerta, ma non è proprio il caso.
– Paco non è stato così restio.
Rey s’irrigidì.
– Stasera sono proprio distrutto. Ci vedremo domani al commissariato.
Angelo gli diede la buonanotte senza fare una piega, un sorriso da bastardo stampato sulla faccia. Rey si accertò che la porta di casa fosse ben chiusa e agganciò la catenella, un gesto che non faceva mai. Restò in mezzo al soggiorno per qualche istante, indeciso, poi guardò il pianoforte. Gli si avvicinò, lo accarezzò quasi con affetto, si sedette, mise il silenziatore, indossò la cuffia e si tuffò a suonare pestando i tasti come un forsennato. Anche quella notte Rey non riuscì a dormire. Continuava a girarsi e rigirarsi nel letto, riflettendo sugli avvenimenti dell’ultimo mese. Si era sentito in colpa verso Paco, si era quasi odiato, per aver vissuto quella piccola avventura con Fidalgo, finché non aveva trovato il coraggio per confessargliela, all’unico scopo di sentirsi a posto. In quell’occasione, Rey era stato riconoscente a Paco per la nonchalance con cui aveva appreso la notizia. Probabilmente a Paco non importava un granché, perché era convinto che pur condividendo lo stesso tetto, dovessero essere liberi di vivere altre esperienze. D’altra parte, non avevano mai discusso del loro rapporto, non l’avevano incasellato, non avevano stabilito una modalità per la loro convivenza. La fedeltà non era un valore che avessero considerato; era stato soltanto dentro la sua testa, e per giunta era stato il primo a infrangerla. Non poteva accusare Paco di nulla. Non avevano stabilito limiti entro i quali muoversi. Paco non aveva fatto altro che comportarsi esattamente come lui. Perché allora ci stava così male? Perché si sentiva abbandonato? Perché provava la terribile sensazione che Paco non l’amasse più? Angelo era un uomo affascinante, di un fascino perfido e sprezzante, quasi luciferino. L’idea che Paco fosse stato con lui, lo faceva impazzire. Quando le prime luci dell’alba filtrarono dagli scuri, Rey si arrese di fronte all’evidenza. Quella notte non avrebbe dormito.

 

 

Angelo non riusciva a capire. Com’era possibile che anche Rey facesse tante storie? Che gente era quella, che non sapeva ritagliarsi un’ora di allegro piacere in una successione di giornate noiose, faticose e angoscianti? Aveva visto con i suoi occhi la preoccupazione di Rey per le sorti di Paco, ma non poteva essere quella specie di amore devoto e fedele di cui Paco blaterava. Quello non esisteva. Non se n’era mai visto uno a memoria d’uomo. Tutte frottole. A chi volevano darla a bere? Doveva essere una questione di scopate. Quando trovi quello che ti monta alla perfezione, forse arrivi a pensare che non ce n’è un altro al mondo che può farti un servizio migliore. Ma anche quelle erano tutte balle. Ce n’era di gente che sapeva come metterti allo spiedo e rosolarti a dovere. Ne trovavi uno a ogni angolo, se sapevi cercare. Lui era un esperto. E ci sapeva fare. Se solo gli avessero dato la possibilità, se ne sarebbero accorti, quei due perdenti. Bene, se non volevano spassarsela con lui, peggio per loro, ma sarebbe ugualmente riuscito a dimostrare che non si amavano come volevano far credere, e come stupidamente credevano loro stessi. Certe volte ripensava a Venanzio, che si rifiutava di lasciarlo andare per la sua strada. Suo zio aveva un esasperato senso del possesso e l’effimera certezza di aver trovato il culo migliore, quello di cui non voleva fare a meno: il suo. Peccato che il sentimento non fosse reciproco. Quando aveva deciso ch’era giunto il momento di fuggire, aveva riflettuto sulle sue possibilità. Non aveva un soldo e non sapeva dove andare, eppure voleva finire gli studi, possibilmente in una grande città. Roma sarebbe stata perfetta. Avendo raggiunto la maggiore età, si era convinto che nessuno dovesse più rompergli i coglioni. Aveva quindi due obiettivi: sbarazzarsi di Venanzio e rastrellare un po’ di soldi. Inevitabilmente, i due disegni si erano fusi in un unico progetto, che gli aveva fruttato la libertà.

Dimesso dall’ospedale, Paco tornò a casa in taxi, aiutandosi con un bastone. La gamba gli faceva male, ma non tanto da bloccarlo su un letto d'ospedale un minuto di più. Una volta ritrovate le rassicuranti pareti di casa e la confortante presenza di Kiko, telefonò a Rey per avvertirlo.
– Ti sarei venuto a prendere io, cosa ti è venuto in mente di fare tutto da solo?
– Sto bene. Mi hanno dato un bastone e la borsa era leggerissima. Non c’era bisogno di farti scomodare.
– Ma che dici, Paco? Che ti prende? Scomodarmi? Come se fossi un estraneo, come se non...
Rey non riuscì a continuare.
– Non preoccuparti per me, Rey. Sto bene, davvero.
– Arrivo – concluse Rey, chiudendo la comunicazione, per non offrirgli un appiglio cui ribattere.

 

 

Consuelo era stupita. Si asciugò il sudore dalla fronte.
– Le rughe sono mie. Me le sono guadagnate, e nessuno osi metterci sopra le sue luride zampacce! – s’infervorò Agnese, accarezzando Lola, una palla di pelo grigio che lei definiva il “mio antistress naturale”. Il cuscino peloso saltò dalle sue ginocchia, schizzando via alla velocità della luce, impaurito dalle grida della sua padrona.
– Ma perché urli? Ti sento benissimo – commentò Consuelo.
– Perché quella bestia del mio parrucchiere ha detto che aveva un indirizzo che avrebbe fatto al caso mio, per qualche iniezione di botulino a prezzi stracciati. Ti rendi conto? Lo odio. Non ci metterò mai più piede in quel covo di vipere.
– Fai bene – convenne Consuelo, incapace di arginare il volume di quell’esternazione dovuta all’orgoglio ferito.
– Tu trovi che le mie rughe siano così evidenti? – chiese poi, a voce più bassa, con una leggera indecisione.
– Ma che dici? A trentatré anni, che rughe vuoi avere?
– Giusto, l’ha detto solo per cattiveria.
– Oppure, più probabilmente, perché intasca una percentuale sui trattamenti botulinici.
– Sei fantastica, Consuelo. Non ci avevo pensato. Dev’essere proprio così. E in ogni caso, io odio andare a Madrid, non ci andrei nemmeno se mi regalassero un trattamento gratuito. Ma dov’è finita Lola?
– Credo che sia già arrivata a Madrid, trascinata dalle tue onde sonore.
Agnese si mise a ridere.
– Scusa, quando mi arrabbio, urlo sempre.
– Sarai la gioia dei tuoi vicini.
– Ah, quelli non mi sopportano già per altri mille motivi. Uno in più o in meno non fa differenza.
– Bene, adesso che ti sei sfogata, e che ci siamo riposate, che ne diresti di tornare al nostro allenamento? Dov’eravamo rimaste?
– Al calcio nelle palle.
– Allora, hai fatto gli esercizi che ti ho assegnato?
– Sì, ma assestare calci a quel sacco che mi hai attaccato al soffitto non ha niente a che vedere con l’avere il coraggio di…
– Agnese, te l’ho già detto, devi capovolgere la tua ottica. Sei tu la vittima! La tua non è che una risposta alla violenza. Se gli appioppi un calcio nelle palle, è solo perché il tuo aggressore se l’è venuto a cercare. Ce la fai?
– Ci provo.
– Fammi vedere.
Agnese iniziò a scalciare, mentre Consuelo le mostrava la misura con una mano alla debita altezza.
– Puoi fare di meglio. Ancora. Ancora. Ancora.
Agnese continuò con sempre maggior foga.
– Va bene. Adesso afferrami alle spalle. Ti faccio vedere come ci si può liberare.
Agnese si posizionò dietro la sua schiena, mettendole un braccio intorno al collo e afferrandole una spalla. Consuelo si divincolò, mostrandole dove fare presa e come sfuggire via, con una contromossa. Agnese scivolò a terra ridendo, mentre Consuelo, perdendo l’equilibrio, le fu sopra. Ne approfittò per prenderle il viso in una morsa, spingendo il mento verso l’alto e fingendo un colpo di taglio al collo. Erano di nuovo sudate e ansimanti. Agnese si ritrovò a stringerla in un abbraccio. Consuelo rilassò i muscoli e si adagiò su di lei. Si guardarono negli occhi, ansimando. Agnese accarezzò il volto accaldato di Consuelo, sorridendo, poi sollevò la testa per baciarla.

Non era una giornata molto calda. Il cielo era coperto, con quel grigio particolare che hanno le nuvole d’estate, quando arrivano dal mare. Inutile scenario per Rey, che si precipitò in casa, senza degnarle di uno sguardo. Aveva un pensiero fisso, che non gli permetteva di distrarsi. Paco non l’aveva chiamato per non disturbarlo… e questo non riusciva a digerirlo. Appena entrato in casa, andò ad abbracciarlo.
– Che ti succede, Paco? Che cosa significa questa storia? – gli domandò subito dopo.
– Quale storia?
– Che non volevi disturbarmi.
– Ma qual è il problema, Rey? Mi sento bene. Sono stato perfettamente in grado di tornare a casa da solo, come vedi. Che bisogno c’era di costringerti a lasciare il tuo lavoro? Avrai ben altro da fare, che stare appresso a uno scemo che è riuscito a farsi sparare in una coscia.
– Non è stata colpa tua. Tu sei una persona prudente. Sono sicuro che è stato Angelo a spingerti a un’azione avventata, senza prima chiamare rinforzi.
– Diciamo che ci siamo trovati in mezzo ai guai all’improvviso e senza averlo previsto. Li avete individuati?
– Sì, ma non riusciamo ancora a trovarli. Consuelo e Gil ci stanno lavorando. Non credo che ci vorrà molto, sempre che siano rimasti da queste parti.
– Me lo auguro. Ma tu non mi convinci. Che c’è, Rey? C’è qualcos’altro, vero?
– Niente. Sono un po’ nervoso, tutto qui.
– E il motivo?
– Ma niente, quel poliziotto italiano mi sta sulle scatole, ma ce l’ho sempre intorno. Non capisco perché non si decida ad andarsene. Il caso è nostro. Non ha niente da fare qui. Possiamo benissimo cavarcela da soli, ti pare?
– Assolutamente.
– Credo che glielo dirò. Non ti dispiace, vero?
– Perché dovrebbe dispiacermi?
– Che ne so? Magari tu lo frequenti volentieri.
– Ti sbagli di grosso.
Rey lo fissò dritto negli occhi. Perché Paco gli mentiva?

 

 

Consuelo era stremata dalla stanchezza. Reduce da una lunga giornata di lavoro, aveva fatto la sua lezione di tecniche difensive con Agnese, culminata, come accadeva ormai ogni sera, in un amplesso piuttosto appagante. Cominciava tutto con un bacio rubato, nell’intreccio dei corpi, poi c’era il rito della spoliazione. Peccato che avessero poco da togliersi, dal momento che eseguivano gli esercizi in calzoncini e canottiera corta. La lentezza dei gesti con cui Agnese le abbassava le spalline, a volte con un dito che le sfiorava appena la pelle, altre volte, afferrandole con le labbra, che faceva scorrere in piccoli caldi baci sulle braccia, l’aveva incredibilmente eccitata. Era un’esperienza tutta nuova, quella del tocco di una pelle liscia e vellutata, dalla grana sottile e traslucida; le dita lievi come piume, che sapevano per istinto dove insistere e dove sorvolare, sfiorando appena. Era tutto bellissimo e sconvolgente, eppure le lasciava un vago senso d’incompiuto. Ma era sicura che avrebbero trovato il modo di rendere il loro rapporto ancora più appagante, parlandone apertamente, dal momento che tra loro non esistevano pudori. La sua amica la bloccò ancora sulla porta, per tentare di convincerla a restare. Consuelo non seppe reprimere uno sguardo al cielo, di finta esasperazione. Fu così che vide il ritratto sulla mensola in alto.
– Chi è quello con te, nella foto lassù?
Agnese seguì il suo sguardo.
– Ah, quello! È Sergio. Pensa, siamo stati insieme per ben sei mesi: un record mai battuto.
Consuelo tornò a concentrare lo sguardo, di nuovo brillante di energia, su di lei.
– Sergio Pillar?
– Lo conosci?
– A quanto pare sì, di vista, di nome e di carriera. Una bella carriera criminale. Sai mica dove posso trovarlo?
– Ma certo. Così impara, quello stronzo. Lo sai che mi deve ancora restituire un sacco di soldi?
– Ma non mi dire…

– Il contratto di locazione è registrato a nome di Pedro Navas. Chi cavolo è? – si domandò Rey.
– Sarà un nome falso – suppose Consuelo.
Il furgone era parcheggiato di fronte alla casa a due piani, dalla notte precedente. Consuelo aveva inforcato la cuffia in attesa di udire qualche suono all’interno dell’appartamento, mentre osservava con un binocolo le finestre con gli scuri ancora ermeticamente chiusi. Rey leggeva le nuove informazioni inviategli da Gil in una mail, seduto accanto ad Angelo, che gli stava col fiato sul collo.
– Le imposte locali sono calcolate sulla base di due occupanti.
– L’appartamento che abbiamo perquisito è di proprietà di Leon Urtubia, quindi è probabile che qui ci abitino gli altri due – disse Consuelo.
– Non ti viene in mente che Sergio Pillar possa vivere qui con una donna?
– Certo, può essere, perché no?
– Speriamo che ci conduca dagli altri due.
– Non rischiamo di farli scappare. Prendiamo chi c’è – suggerì Angelo, che ormai riusciva a comprenderli e perfino a farsi quasi capire.
– Vuoi dire che dovremmo prendere chi c’è e pensare agli altri dopo?
– Sì.
– Che ne dici, Consuelo?
– Dico che sarebbe carino, peccato che in quella casa non ci sia nessuno. C’è troppo silenzio. Abbiamo portato il termografo?
– Spero di sì. Guarda nel portaoggetti sopra la tua testa.
– Eccolo. Adesso vediamo.
Consuelo lo mise in funzione, puntandolo sulla casa.
– Porca vacca. Là dentro non c’è nessuno. Possiamo anche andarcene.
– Perché non ci hai pensato prima? Un’altra notte persa per niente – commentò Rey, sconsolato.
– Agnese era sicura che Sergio Pillar fosse qui.
In quel momento, una moto sbucò dal retro della casa percorrendo il vialetto laterale. In sella c’era un centauro rivestito di pelle nera, con il casco integrale, che, appena immesse le ruote in carreggiata, diede gas, sparendo alla loro vista in un batter d’occhio.
– In fondo, qualcuno c’era.
– Non può essere. Il termografo non ha dato segno di vita.
– Andiamo a vedere cosa c’è dietro questa casa.
Rey scese dal furgone senza sbattere lo sportello, dicendo a Consuelo e ad Angelo che ci avrebbe pensato lui.
Non aveva neppure finito di attraversare la strada, quando un’altra moto apparve sul vialetto, sfrecciando via come la precedente. Rey si voltò a guardare il furgone, nonostante fosse impossibile vedere gli occupanti oltre i vetri oscurati. Si bloccò dietro il tronco di un albero, aspettando la comparsa del terzo componente della banda. Ma dal vialetto non arrivò nessun altro. Si decise quindi a imboccarlo con cautela. Tornò indietro dopo qualche minuto, rientrando nel furgone.
– Dietro questo villino c’è un terreno con una casetta di legno, di quelle prefabbricate. Attorno al perimetro ci sono chiare tracce delle ruote. Probabilmente è là che quei due hanno passato la notte.
– Sei sicuro che fossero loro?
– Paco ha parlato di una Honda 750 custom, cioè, se non sbaglio, una simile alla seconda che se n’è andata.
– Comunque, non siamo sicuri al cento per cento.
– No. L’unica soluzione è appostarci sulla via parallela, per tenere sotto controllo il prefabbricato. Prima o poi, torneranno e così sapremo se sono loro.
– D’accordo. Spostiamoci.
– Vai, Consuelo. Io devo dormire un po’. Sono cotto. Svegliatemi, se succede qualcosa.
– Rey, abbiamo un paio di telecamere da piazzare. Ci vado io – propose Consuelo.
– Metti Angelo di guardia.
– Rilassati, capo. Non sono una pivellina.

 

 

Il cellulare vibrò a lungo, prima che Consuelo si rendesse finalmente conto che era il suo. La noia di quell’appostamento, l’aveva ipnotizzata.
– Agnese, ciao. Scusa, non posso parlare, sono in servizio.
– Ascolta, Consuelo, sto andando a Madrid, quindi non venire stasera. Ti telefono quando torno da Madrid, ok?
– Madrid?
– Sì, ricordi? Ti avevo detto che ci sarei andata. Arrivederci presto, cara.
Il display si oscurò, mentre Consuelo l’osservava come non l’avesse mai visto prima e come se quello che vedeva non le piacesse per niente.
– Come Madrid? Ma se lei odia andare a Madrid...
– Che c’è, Consuelo?
– Niente. Agnese sta andando a Madrid.
– E allora? Che ci trovi di così sconvolgente?
– Lei odia andare a Madrid, invece sembrava entusiasta, fremeva d’impazienza. Aspetta un attimo. Mi ha detto Ricordi? Te l’avevo detto, ma quello che mi ha detto è che non ci sarebbe andata per niente al mondo.
– Quindi?
– È stata costretta a inventarsi una scusa per non farmi andare a casa sua, da qualcuno che era accanto a lei. Ma Agnese ha trovato il modo per farmelo capire.
– Adesso sappiamo dov’è Sergio Pillar.
Rey avvertì il commissariato di mandare una squadra, stando attenti a non far correre rischi inutili ad Agnese. Era già calata la sera, quando Angelo, che osservava i monitor, vide accendersi le luci nel prefabbricato.
– Ci siamo.
– Consuelo, che ne dici? È uno di loro?
– Sì, è Leon Urtubia. Merda! Ha chiuso le tende.
– Dove hai piazzato la telecamera, Consuelo? – chiese Rey, con una voce piatta che non prometteva nulla di buono.
– Fuori da una finestra, puntata sul soggiorno-cucina.
– Fuori, eh?
– E dove la dovevo mettere?
– Che ne diresti di piazzarla dentro, la prossima volta?
– E come entravo? Non sono mica una scassinatrice come qualcuno qui presente.
– Io non sono uno scassinatore – obiettò Angelo.
– Lo sappiamo – dissero in coro Rey e Consuelo.
Angelo guardò prima l’uno e poi l’altro, quindi fischiò tra i denti.
– Potevi andarci tu, allora – disse l’italiano.
– Stavo dormendo in piedi. Non connettevo più.
– Non importa. Niente di tutto questo è rilevante. Sappiamo che sono loro. Chiamiamo rinforzi e aspettiamo che arrivi l’altro, prima di muoverci.
– Approvo – concesse Rey.
– Bene. Io sono molto stanco. Vado. Poi mi raccontate come finisce la storia.
– Come vuoi, Angelo. Ci si vede.
Quando Angelo fu uscito, Rey si sentì incredibilmente sollevato.

A Paco non sembrò per nulla strano che Angelo fosse andato a raccontargli nei minimi dettagli l’appostamento e il suo felice epilogo. Mancava solo l’arresto, ma quello gliel’avrebbe raccontato Rey, al suo ritorno.
– Adesso me ne vado. Non vorrei che ritornasse Rey e mi trovasse con te. Credo che sia geloso.
– Non preoccuparti, lo sa che non lo tradirei mai.
– Intendevo geloso di me. Magari pensa che me la faccia anche con te.
Paco restò di sasso.
– Tu e Rey…
– Te l’ho detto, no? Questa tua mania della fedeltà è una vera stronzata. E ogni lasciata è persa. Se ci ripensi, sono sempre a disposizione. Rey non si fa tanti scrupoli come te. Potremmo anche fare una cosa a tre.
– Invece, potremmo fare una cosa migliore. Tu mi restituisci le chiavi di casa, ti vieni a prendere la tua roba e ti fai ospitare qui da Rey, così potete stare insieme quanto volete.
– Come preferisci – commentò Angelo, senza fare una piega.
Paco andò in camera, aprì l’armadio e cominciò a riempire una valigia. Poi ci aggiunse i documenti e tutto ciò che gli venne in mente sul momento. Infine chiamò un taxi e ci salì in compagnia di Angelo, che una volta tanto gli risparmiò le sue chiacchiere e i suoi consigli.

 

 

L’irruzione nella piccola casa di legno avvenne all’improvviso, in perfetto silenzio. Gli occupanti non si accorsero di niente, finché non si ritrovarono la porta divelta e le mitragliette puntate sotto il naso. Questione di secondi. Non fecero in tempo a fare neppure una mossa. Alzarono le mani lentamente, più scossi che convinti, quindi, senza reagire, si fecero ammanettare, guardandosi a vicenda con un certo amaro stupore.
A casa di Agnese, le cose andarono diversamente. Quando bussarono alla porta, Sergio fece segno ad Agnese di restare immobile e di non fiatare. Raccolse la pistola che aveva lasciato sul tavolo e si avvicinò silenziosamente alla porta. Bussarono di nuovo, poi si udì la voce di un uomo che chiamava Agnese.
– Sono il vicino, Luis, mi puoi aprire? Mi hanno lasciato la fattura delle tue spese di condominio.
Agnese fece un passo, ma Sergio la bloccò di nuovo con un gesto della mano, imponendole il silenzio con un dito sulla bocca. Seguì una lunga quiete. Sembrava che il vicino si fosse rassegnato alla sua assenza, tornandosene da dove era venuto. Sergio si stava rilassando, quando udì un rumore dietro la porta. Agnese si spostò di un passo, ma Sergio l’afferrò con forza alle spalle. Fu in quel momento che tutte le lezioni di Consuelo sortirono il loro effetto. Con una mossa ripetuta cento volte, Agnese se lo scrollò di dosso, si voltò per averlo di fronte e prese la mira per un bel calcio in mezzo alle gambe. Peccato che le prediche di Consuelo non fossero state sufficienti per convincere Agnese ad assestare quel colpo con la forza dovuta. Come conseguenza di quel calcio pentito, Sergio si piegò in due, respirando a fatica per un paio di minuti, prima di sollevarsi in posizione eretta, lanciando uno sguardo vendicativo verso di lei. Con gli occhi che lanciavano fiamme, le puntò al petto la pistola, sogghignando. Contemporaneamente, la porta esplose in mille pezzi. Benché ancora dolorante, Sergio ebbe la forza e la prontezza di fuggire da una finestra, saltando sul ballatoio sottostante per poi lasciarsi scivolare sul tendone di un negozio, atterrando due metri più in basso, in mezzo al marciapiede. La sua corsa disperata fu bloccata, pochi minuti più tardi, da una volante che gli intimò di arrendersi all’arresto. Per tutta risposta, Sergio cominciò a sparare. Furono in molti a chiedersi, nei giorni seguenti, cosa l’avesse indotto a opporre una resistenza tanto esasperata. In fondo, lo aspettava solo qualche anno di galera. Invece si beccò un proiettile in mezzo alla fronte, che lo stecchì sul colpo.

Quando finalmente Rey riuscì a sganciarsi dal commissariato, era letteralmente distrutto. Il suo unico desiderio era di tornarsene a casa, scolarsi una birra in compagnia di Paco e filarsela a letto. Ma era destino che quel giorno non ci fosse nulla che andasse per il verso giusto. La birra c’era, Paco invece no. Che fine aveva fatto? Dov’era andato? Più nervoso che mai, s’infilò sotto la doccia. L’acqua tiepida stemperò un poco la sua agitazione, dovuta in parte alla preoccupazione, in parte, di nuovo, a quella stupida gelosia. Sarà stato Angelo a trascinarselo da qualche parte, pensò. I medici gli hanno raccomandato il riposo, testa di legno. Quand’è che te ne vai? Prima o poi, ti prendo a pugni, se non ti sbrighi a tornare al tuo paese. Uscì gocciolante dal bagno, avvolgendosi i fianchi in un asciugamano. Aprì le ante dell’armadio e, solo allora, si rese conto che Paco se n’era andato portandosi via i suoi vestiti. Con rabbia, afferrò il cellulare per chiamarlo, ma si bloccò. Gli era arrivato un messaggio, ma lui non aveva sentito quella stupida suoneria.

 

 

Tolgo il disturbo. Non ti preoccupare, non c’è bisogno di spiegazioni. Siamo adulti.

Rey imprecò in ceceo e poi crollò sul letto. Le gambe non lo reggevano. Dunque era tutto vero. Paco non lo amava più. Se n’era andato con quel bastardo di Angelo. Frastornato, restò a fissare la parete per lungo tempo, senza vedere niente, senza riuscire a pensare coerentemente, senza quasi respirare. Non è da te, Paco. Che cazzo ti è successo? Siamo adulti, certo, non c’è bisogno di spiegazioni. E un’altra volta con il tuo disturbo... Due anni di disturbo, Paco. Non valgono la pena che mi spieghi? Non merito nemmeno un chiarimento? Come ho potuto essere tanto stupido e cieco? Povero illuso, che ci avevo creduto. Joder! Quanto si può essere coglioni, quando si è innamorati!

 

 

Il caso dei Gronchi rosa tornò nelle mani di Javier Cabello. Agli interrogatori partecipò il collega italiano, in veste di osservatore. Forse Javier non poteva definirsi un esperto del terzo grado, ma la sua curiosità l’aiutò parecchio. Riuscirono così a scoprire che il coinvolgimento della Burgos italiana era stato uno scherzo di Sergio Pillar ai suoi complici. Solo un gioco, che gli era servito, nello stesso tempo, per sperimentare l’utilizzo delle carte prepagate, quale strumento di scambio. Se si estinguevano in fretta, nessuno poteva beccarli. Presto sarebbero passati a quel sistema. Se aveva funzionato in Italia, poteva funzionare anche da loro. Con i francobolli avevano chiuso. Il mercato era troppo ristretto. Sergio aveva alcune idee originali e innovative che avrebbe voluto presto mettere in pratica. Peccato che non ne avesse potuto esporre i dettagli ai suoi due soci in affari.

A Rey non riusciva ad andare giù che Paco gli avesse preferito Angelo Altieri. Non solo gli risultava incomprensibile, ma, per di più, gli faceva una rabbia pazzesca. Una rabbia che avrebbe voluto sfogare su quella faccia di bronzo, a suon di cazzotti. Probabilmente furono gli effetti dell’insonnia, uniti al pensiero insopportabile di Paco tra le braccia di quello stronzo, a spingerlo in Calle de las Infantas, alle dieci di quella sera, un’ora in cui si augurava di trovarli in reciproca compagnia. Mentre saliva le scale, si accarezzava le nocche, sperando di potersele a breve ammaccare contro qualcosa di ossuto, guarnito con occhi glauchi, naso dritto e mento volitivo. Gli aprì Paco, che non si spostò dal vano della porta, salutandolo con voce ferma e sguardo glaciale.
– Fammi entrare – disse Rey, duramente.
– Perché?
Rey lo scansò con forza, irrompendo in casa con furia. Girò di stanza in stanza, tornando, più furioso che mai, davanti a Paco, che si era spostato in soggiorno, sedendo sul divano.
– Dov’è?
– Dov’è chi?
– Non fare lo stronzo. Dov’è Angelo?
– Angelo? Non è a casa tua?
– E che cazzo ci sarebbe venuto a fare a casa mia?
Bussarono alla porta.
– Eccolo! – disse Rey soddisfatto, già pronto ad abbatterlo con un pugno sul naso.
Con impeto si slanciò verso la porta, caricando il peso del corpo sulle gambe, in posizione d’attacco.
– Hola, Rey. Ciao, Paco – salutò Consuelo, immediatamente consapevole di essere capitata nel momento sbagliato. – Scusate, torno un’altra volta – aggiunse, voltando le spalle alla porta e all’espressione da toro infuriato dipinta sul volto di Rey.
– Consuelo! – la bloccò Paco. – Torna qui. Entra.
– Ma no, non vorrei disturbare.
– Non dire sciocchezze.
Fu Consuelo a informarli che Angelo era partito quel pomeriggio, raccomandando di salutare Paco e Rey, perché, dovendo ancora passare in albergo, non avrebbe fatto in tempo a rivederli. Javier gliel’aveva comunicato poco prima di staccare dal servizio.
– Quindi stava in albergo – commentò Paco.
Consuelo guardò prima l’uno e poi l’altro, cercando di capire se fosse meglio tagliare la corda o tentare una missione diplomatica di pace. Ma non ci fu bisogno della sua decisione. Inaspettatamente, Rey se ne andò senza salutare.
– Ma che cosa è successo, Paco? Perché sei tornato a stare qui?
Paco allungò la gamba destra sotto il tavolino, congiunse le mani sullo stomaco e poi guardò Consuelo, senza poter nascondere una tristezza profonda.
– Tu lo sai che Rey è stato con Fidalgo?
– No – disse Consuelo, sorpresa. – E tu come lo sai?
– Me l’ha detto Rey. Lui l’ha definita una scappatella. Ci ha tenuto a specificare che tra noi non era cambiato niente.
– E allora? Se non è cambiato niente…
– E adesso ne ha avuta un’altra con Angelo.
– Angelo? Ma sei sicuro? Mi sembra impossibile. Non gli è mai piaciuto.
– Me l’ha detto Angelo.
– Ti assicuro che faccio fatica a crederci.
– Se mi ha tradito una volta, può averlo fatto ancora. Lui è così. Gli piace sentirsi libero. Non sarò certo io a tarpargli le ali. Io, però, ho sempre desiderato un compagno leale, fedele, sincero. Qualcuno di cui potermi fidare.
– E l’hai trovato, Paco. Non voglio fare l’avvocato del diavolo, ma sono sicura che Rey non ha colpa, in questo caso. Credo che Angelo ti abbia mentito, anche se non ne vedo lo scopo.
Paco si chiuse in un silenzio mesto.

 

 

Conclusa ormai l’inchiesta, Angelo aveva deciso ch’era giunto il momento di partire.
– Mi raccomando, salutami Paco e Rey. Io non faccio in tempo, ho l’aereo tra un’ora e devo ancora andare a ritirare i bagagli in albergo. Questo soggiorno è stato molto piacevole.
– Ne sono felice per te – aveva commentato Javier.
Angelo si era allontanato in fretta, senza dargli il tempo di chiedergli se voleva essere tenuto al corrente. Ma no, cosa gliene fregava a quello. Si era fatto una bella vacanza, tutto qui.

Angelo gongolava. Aveva avuto ragione, lo sapeva. Altro che sincerità, onestà e fiducia. Quei due nemmeno si parlavano più, e se pure lo facevano, non si credevano l’un l’altro. Da quando si erano separati, non si era più fatto vedere, per non rischiare di rovinare tutto. Che capolavoro, era stato. Adesso sì, che poteva tornarsene a casa soddisfatto. L’amore non esisteva. Poteva scriverci un libro, per dimostrarlo al mondo intero. Bastava guardarsi intorno. Bastava avere il coraggio di guardare davvero le cose in faccia. Genitori che abbandonavano i figli, gente che si ammazzava per cinque euro, altra che ti piantava un coltello nella schiena appena ti fidavi a voltare le spalle. L’amore era una favola per chi aveva ancora la stupida voglia di sognare. L’amore era il paradiso in una terra vergine, ma il mondo era ormai ridotto da un pezzo a un letamaio immondo e putrefatto, in bilico sull’orlo dell’inferno. L’amore sarebbe stato bello… Belle parole al vento, con il vuoto dentro. Ma di parole, che bisogno c’era? Con quel tipo della moto, per esempio, non c’era stato bisogno di parole, era bastato dargli il culo. Che scopata pazzesca! Peccato ripartire senza averlo rivisto.
Ma perché, tutt’a un tratto, gli veniva un nodo in gola? L’aereo decollò sul quel pensiero, mentre Angelo abbandonava la tempia sul finestrino, le cui striature gli sembravano lacrime in corsa.

 

 

Consuelo ascoltava il racconto di Agnese, mentre un paio di operai le stavano finalmente montando una porta blindata, per sostituire quella provvisoria, piazzata quella sera, giusto per non lasciare la casa aperta ai quattro venti.
– Quando ho visto Sergio sulla porta, ho avuto un tuffo al cuore. Ho capito subito che c’erano guai in vista. Io, però, avevo un vantaggio su di lui: sapevo che era ricercato. Per togliermelo dalle scatole gli ho detto che aspettavo un’amica. È stato lui a chiedermi di telefonarle per avvertirla che sarei partita. Sapevo che se avessi insistito su Madrid, tu avresti capito che c’era qualcosa che non andava. Lui invece non ha sospettato niente. Certo che distruggermi la porta in quel modo, non è stato affatto gentile. In fondo, non era mica un terrorista!
Consuelo alzò le mani.
– Ha cominciato lui a sparare, ricordi? E prima c’è stato il conflitto a fuoco con Paco e il suo collega.
– Lo so, lo so. Del resto Sergio ha minacciato anche me, che non c’entravo niente. Ma ammetterai che è assurdo morire per qualche francobollo.
– Lo ammetto.
– Nonostante tutto, non riuscivo a odiarlo. Non era male a letto. Peccato per quel carattere di merda. Pensava di essere il padreterno, di essere più furbo di tutti gli altri e di poter fregare il mondo intero.
– L’avevi lasciato tu?
– Per forza. Quando uno ti mette le mani addosso, è ora di finirla. E non è stato nemmeno tanto facile. Per un po’ ha continuato a ronzarmi intorno. Lo sorprendevo a controllarmi da lontano. Mi seguiva per scoprire se era vero che non avevo storie con nessun altro, come gli avevo detto. Mi sentivo perseguitata. Poi si sarà stufato, perché dopo un paio di mesi non l’ho più visto. Però l’impressione di essere tenuta sotto controllo non ha smesso di ossessionarmi per un pezzo.
– Non dev’essere stato facile.
– No, te l’assicuro. Ma non pensiamoci più. Ormai è andato. E Paco come sta?
– Adesso bene.
– Non mi sembri convinta.
– Non lo sono. Sono preoccupata per lui e per Rey. Stanno facendo un’immane stronzata.
– E tu vorresti dare una mano per rimettere a posto le cose, non è così?
– Già mi conosci così bene?
– Sei un libro aperto, per me – commentò, abbracciandola.

Il pianoforte era coperto da un sottile tappeto marocchino molto colorato. Consuelo si domandò se Rey avesse deciso di smettere di suonare.
– Che c’è, Consuelo? Cos’è tanto urgente che non poteva aspettare domani?
– Sono preoccupata per Paco. L’ho sentito poco fa. Mi sembra molto abbattuto. Possiamo parlarne?
– No. Te ne puoi anche andare.
– Rey, perché non vi chiarite? Lo so che mi odi, quando m’impiccio dei fatti tuoi, ma… neppure tu mi sembri tanto felice.
– Hai ragione Consuelo, non sono affari tuoi. Perché non vai a trovare la tua amica?
– Sì, ci vado, ma prima devo dirti una cosa che t’interesserà sapere. Angelo ha detto a Paco che tu hai avuto una storia con lui.
– Cosa? Hai capito male. È l’esatto contrario. È Paco che ha avuto una storia con Angelo.
– E chi te l’ha detto?
– Angelo.
Consuelo lo fissò, mentre quel certo sorriso le affiorava alle labbra. Il suo fiuto non l’aveva tradita.
– Bene. Abbiamo trovato il colpevole – affermò, alzandosi dalla poltrona su cui si era seduta, senza invito. – Adesso sarà meglio che vi spiegate tra voi.
Rey la guardò uscire dalla stanza e subito dopo udì il tonfo attutito della porta che si chiudeva. Perché Angelo aveva fatto una cosa simile? Perché aveva voluto dividerli? Ancora una volta provò l’impulso di prenderlo a pugni. Peccato che fosse già partito.

 

 

La notte era calda e profumata. Quei tigli dell’accidente non smettevano di emanare potenti effluvi, nemmeno quando il sole calava. Era un profumo sottile e intenso che gli entrava nel cervello, gli dava un senso di mollezza alle gambe, e lo privava della sua combattività. Quando arrivò a casa di Paco, si sentiva come un guscio vuoto. Quasi a sostenersi, appoggiò il palmo di una mano al muro, accanto alla porta, e poi bussò. Paco apparve nel vano, in compagnia di un bicchiere.
– Ti va di parlare?
– Sei tu quello che fa fatica a parlare – rispose Paco.
– Lo so.
– Vieni, siediti. Ne vuoi? – gli domandò, mostrandogli una bottiglia di sherry.
– Grazie, sì.
Dopo un primo assaggio, Rey posò il bicchiere.
– Allora, Rey, di che cosa vuoi parlare?
– Di noi. Stasera Consuelo mi ha detto una cosa che ha cambiato tutto. Non sono un grande oratore, lo sai. Però è giusto fare il punto della situazione. Ho riflettuto su quello che c’è stato tra noi. Sì, lo so, le cose sono tante, ma tre sono fondamentali, per me. Sono tre cose che ho provato nella vita varie volte, ma mai tutte assieme con la stessa persona. Rispetto, amicizia e passione.
– Vai avanti.
– Angelo ti ha fatto credere di essere stato con me, ma non è vero.
– Ma…
– Lasciami finire, ha detto lo stesso a me, di te. Sono stato geloso, Paco. Non mi era mai successo. Non credevo neppure di poterla provare, la gelosia. Ero convinto che tu fossi venuto qui perché c’era lui. È stata una mazzata. Adesso so che neppure questo era vero. Ma non voglio sapere niente, non m’importa niente, voglio solo che tu mi dica se provi ancora qualche cosa per me.
– Hai finito?
– Sì.
– Mi dispiace di avergli creduto con tanta facilità, Rey…
– Sono stato io a rendertelo facile. È stata colpa mia ed è a me che dispiace. Ma perché te ne sei andato?
– Me ne sono andato per togliere il disturbo. Così saresti stato libero di stare insieme ad Angelo. Mi piacerebbe poter dire che pensavo solo alla tua felicità, ma la verità è che ci ho sofferto come un cane. Prima Fidalgo e poi Angelo… Era troppo per me. Io volevo un rapporto diverso. Rispetto, amicizia e passione, sì, hai ragione, ma anche sincerità, fiducia e fedeltà. Sembra quasi una bestemmia, questa parola. Fedeltà. Aveva ragione Angelo, non ha più senso, di questi tempi. Fedeltà del corpo o dei sentimenti, poi? Perché sono due cose diverse. E quale conta di più per me? Me lo sono chiesto più volte, in questi giorni.
– Paco, provi ancora qualcosa per me? – lo interruppe Rey.
– Quante altre volte ci troveremo in una situazione simile?
– Io ti amo, Paco.
– Anch’io.
– Ma? C’era un ma nel tuo tono.
– Ma non sono sicuro di te.
– Sposiamoci, Paco. Io sono sicuro di noi.
– Rey…
– Ti giurerò fedeltà davanti a testimoni. Tutte le fedeltà che vuoi. Dimmi di sì.
Lo sguardo di Paco tornò lo stesso che Rey amava. Gli occhi più gentili che avesse mai visto. Rey lo baciò. L’indecisione di Paco lo stava uccidendo. Almeno sarebbe morto con un bacio.
 
In effetti, Rey non morì. In ogni caso, non quella notte. E in settembre, in una giornata di pioggia precoce e dispettosa, Paco e Rey convolarono a giuste nozze. Di comune accordo, decisero di andare in luna di miele a Roma. Nonostante la destinazione fosse la stessa, i motivi che li avevano spinti a sceglierla erano molto diversi: a Paco era rimasta la curiosità di vedere la Fontana di Trevi, a Rey il sogno di prendere a pugni Angelo.

 

Fine

 

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