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Un aiuto non richiesto

Nelle notti insonni del commissario Rey Delgado, c’erano piazze affollate e illuminate, stradine deserte e buie, facce sconosciute e volti noti. Eppure, per quanto numerosi fossero questi ultimi, era raro vederlo fermarsi a salutare qualcuno e a conversare del più e del meno. I suoi collaboratori lo temevano, più che stimarlo. Qualcuno lo evitava come la peste, qualcun altro, per sfidare se stesso, lo affrontava come un toro alla corsa di San Firmino.
Quando anche le piazze e i locali si svuotavano, il commissario tornava a casa, a combattere la sua personale guerra contro il cuscino, le lenzuola e la sveglia, apparecchio sonoro che molto spesso, non appena osava trillare, veniva lanciato con forza contro il muro. L’unico a essere felice di questa costosa consuetudine era un orologiaio di Calle de Victoria, ormai suo fornitore ufficiale di sveglie a batteria con movimento silenzioso. Anche il tenue ticchettio di una sveglia poteva, infatti, rendere Delgado estremamente nervoso.
Quel giorno, l’agente Fernando Gil lo vide entrare in ufficio meno scuro del solito. Questo gli fornì il coraggio necessario per avvicinarsi subito alla sua stanza, battendo con cautela le nocche sullo stipite della porta. Delgado lo fissò senza muovere un muscolo.
– Commissario, ce n’è stato un altro, stanotte.
– Joder! Un altro morto senza motivo apparente?
– Così sembra.
– Quanti anni aveva?
– Trentadue.
– È stato trattato come un caso di omicidio?
– Sì, come ha chiesto lei, dopo il caso Muñoz.
– Bene. Ovviamente, Pérez non si è ancora pronunciato…
– No, commissario, per avere il referto autoptico è troppo presto.
– Aspetteremo i suoi comodi. Dov’è successo?
– Al Buddha bar, un locale in Calle del Huerto del Rey.
– A che ora?
– Alle 2,00.
– Ci sono testimoni?
– Sì, il locale era affollato, ho una bella lista.
– Beh, portamela, che aspetti?
– Subito, commissario.
Gil si asciugò la fronte con la mano, mentre raggiungeva a passo spedito la sua scrivania.
Una donna si trovò all’improvviso sulla sua traiettoria. Gil tentò di frenare, ma era troppo tardi: l’impatto fu inevitabile, eppure la donna non si scompose minimamente. A Gil era sembrato di andare a sbattere contro un muro.
– Mi scusi, sta cercando qualcuno? – chiese, stupito.
– Il commissario Delgado, per favore.
– È in quell’ufficio – le indicò con la mano.
La donna ringraziò con un cenno del capo, dirigendosi verso la stanza. Poco dopo, Delgado chiuse la porta.
Gil aspettò il suo turno, con la lista dei testimoni in bella vista sulla scrivania. Da quando l’ultimo vice di Delgado aveva chiesto il trasferimento, lui si era ritrovato a ricoprirne il ruolo, senza alcuna soddisfazione. Anche se, in un certo senso, questo trattamento di favore lo inorgogliva, nello stesso tempo lo rendeva molto nervoso. Si accorgeva di essere sempre sulle spine. Non era facile avere a che fare con quel carattere burbero. Gil non l’aveva mai visto sorridere, eppure erano già due anni che lavorava con lui.
La donna uscì dall’ufficio di Delgado, senza voltarsi indietro. Gil poté così apprezzarla anche di schiena. Non era male, niente male affatto.
– Gil!
Fernando sobbalzò.
– Sì, commissario.
– Ti sei incantato? Portami quella lista.
– Certo, commissario.
– Tra un mese avrò un nuovo vice – gli annunciò, leggermente disgustato.
– Bene. Un po’ d’aiuto ci serve.
– Non ci contare, è una donna.
– Quella che è venuta poco fa?
– Già.
– Ah! – esclamò Gil, senza osare alcun ulteriore commento.
– Comincia a indagare sulla presunta vittima, se non l’hai già fatto.
– Ma non è troppo presto? Non sappiamo ancora… Agli ordini, commissario – rispose Gil, ben felice di togliersi di torno, dopo l’occhiata fulminante di Delgado.

 

Venti statue del Buddha accolsero il commissario Delgado con la perfezione della loro studiata impassibilità. Il titolare del pub era il ventunesimo, ma a differenza degli altri, sorrideva, gesticolava e parlava con voce stentorea, mentre la sua pancia ondeggiava. Delgado ne seguiva i movimenti, affascinato. Nonostante fosse pieno giorno, le luci soffuse richiamavano alla mente una notte orientale, inducendolo a sentirsi fuori luogo e fuori dal tempo. Staccando a fatica lo sguardo da quella pancia ballonzolante, Delgado si concentrò sul florido volto dell’uomo che stava rispondendo alle sue domande.
– Niente faceva pensare che si sentisse male. Tutti quelli che gli stavano intorno hanno detto che è crollato a terra all’improvviso, senza neppure una smorfia. C’era anche un medico, che ha cercato di soccorrerlo immediatamente. Ha pensato che si trattasse di un infarto.
– E l’ambulanza è arrivata in fretta?
– In cinque minuti era già qua fuori.
Rifiutando un caffè che gli avevano offerto, Delgado continuò:
– Frequentava spesso il suo locale?
– Era un cliente abituale.
– Bene. Per il momento è tutto.
Mentre riaffiorava alla luce del sole, Delgado si domandò quanto il medico legale, il posapiano Pérez, gli avrebbe fatto attendere quel referto autoptico. Poi, tornando verso il commissariato, rifletté su che cosa poteva esserci in comune tra Maribel Muñoz e Rodrigo Solinas.
La ragazza aveva ventotto anni, faceva la copy in un’agenzia pubblicitaria e divideva il suo poco tempo libero tra palestra e amici. Aveva anche fatto qualche servizio pubblicitario dall’altro lato della macchina fotografica. Viveva con i genitori, e non aveva mai mostrato la minima intenzione di andarsene. Delgado aveva osservato le foto che i genitori, addolorati ma orgogliosi, gli avevano mostrato. Non aveva un fidanzato. Così almeno dicevano loro. Per saperne qualcosa di più, doveva interrogare i suoi amici. La ragazza si era accasciata sul marciapiede, tra le vetrine di una boutique e quelle di una cafetería. Era stata soccorsa da un paio di passanti che se l’erano vista crollare davanti agli occhi. Ci aveva messo due giorni, Pérez, a farle l’autopsia, e un altro per fargli pervenire il rapporto scritto. Avvelenamento da nitrito di sodio. Gil aveva eseguito le ricerche del caso, scoprendo che si trattava di una sostanza utilizzata come conservante negli insaccati e nella carne in scatola; come concime, oppure per la produzione di coloranti, prodotti farmaceutici e pesticidi; aveva applicazioni nella metallurgia, in fotografia e nell’industria della gomma.
Rodrigo Solinas era invece ancora un perfetto sconosciuto. Forse non c’entrava nulla con Maribel. Forse gli era solo venuto un colpo, anche se era giovane. Magari aveva fatto abuso di farmaci o di sostanze stupefacenti, o forse aveva contratto una di quelle strane malattie o rare sindromi che ti stendono fulmineamente, quando meno te lo aspetti. Allorché Pérez si fosse deciso, gliel’avrebbe fatto sapere. In quell’ostinata lentezza, Delgado identificava un’assoluta quanto irritante mancanza di rispetto nei suoi confronti. Non che nutrisse sperticate simpatie per alcuno dei suoi collaboratori o colleghi, ma nei confronti del medico legale era giunto a covare un vero e proprio risentimento, che rasentava l’odio.
Rey Delgado aveva superato la boa dei quaranta e si avviava a grandi passi decisi verso una vita di perfetta solitudine. Il suo unico interesse era il lavoro e al diavolo tutto il resto. Era nato a Setenil de las Bodegas in un freddo giorno di metà gennaio. Il suo passo risentiva della vecchia abitudine alle strette e tortuose stradine in salita, disseminate di scale. Di Setenil gli era rimasto qualcosa anche nel carattere aspro e chiuso. Quelle case scavate nella roccia, con le facciate immacolate che si specchiavano sul fiume, gli erano rimaste dentro come un marchio di fabbrica, nonostante se ne fosse allontanato ormai da più di vent’anni. Vestiva sempre e solo di nero; dormiva nudo, estate e inverno; amava il cibo piccante, soprattutto il tex-mex, anche se si poteva considerare di gusti semplici: si accontentava, infatti, il più delle volte, di burritos con uova strapazzate, condite con dosi massicce di peperoncino; beveva soltanto birra, preferibilmente Pacifico Clara, con qualche rara deviazione sulla XX, entrambe d’importazione messicana. Aveva, inoltre, una passione segreta per John Wayne e per gli uomini robusti, anche con un po’ di pancetta, preferibilmente pelosi, benché ormai da molti anni non andasse più a caccia, né amasse fare da preda.
Tornando al suo ufficio, Delgado trovò la scrivania di Gil deserta. Questo lo mise di pessimo umore. Dove si era ficcato quello scansafatiche? E dire che gli aveva ordinato di preparargli una relazione accurata su Rodrigo Solinas. Delgado si abbatté sulla sua poltrona, con un sospiro di sollievo. Quel giorno aveva camminato troppo. Pensò ancora una volta che Gil era poco affidabile, e tra un mese gli avrebbero affibbiato un’altra vice, che probabilmente si sarebbe rivelata anche peggio di lui. Faceva bene a lavorare da solo, senza aspettarsi niente da nessuno. Con questa convinzione, sollevò la cornetta del telefono e partì a caccia di notizie tra i testimoni della sua lunga lista.
Poco dopo, Fernando Gil tornò alla sua scrivania. Attraverso la porta aperta, Delgado lo vide passare e lo chiamò.
– Hai raccolto notizie su Solinas?
– Sì, commissario.
– E allora parla, Gil, o ti devo cavare parola per parola?
– Le ho preparato una relazione, così non rischio di dimenticarmi qualcosa.
Delgado sospirò.
– Vai a prenderla, sbrigati!
Gil si catapultò verso la sua scrivania senza un attimo d'indecisione, tornandone immediatamente con un fascicolo di numerose pagine, che Delgado osservò con vago sgomento.
– Ci hai scritto sopra un romanzo, giacché ti trovavi?
– Ho approfondito qualche argomento, tutto qui.
Delgado lo scrutò per qualche istante senza parlare. Gil tossicchiò, imbarazzato.
– Le serve altro?
– No. Vai pure. Per oggi sarò già abbastanza impegnato.
Gil sorrise tra sé e sé, tornando alla sua postazione. Non era andato fuori tema, ma di proposito era stato alquanto prolisso, sperando di mettere fuori combattimento Delgado per almeno un paio d’ore, il tempo che gli serviva per effettuare una sua ricerca personale. Stava organizzando una vacanza a Creta e doveva ancora scegliere un albergo.
Rodrigo Solinas era un dentista, che aveva uno studio in società con l’odontotecnico Ramiro Alvarez. Con loro lavoravano anche due assistenti e, il venerdì, un chirurgo. Gil aveva fatto una lista degli interventi delle ultime quattro settimane. Ma chi se ne frega? si disse Delgado, sfogliando in fretta le pagine in cui si parlava delle tecniche odontoiatriche praticate nello studio. Quando giunse alle abitudini di Solinas, tornò a leggere con più attenzione. Partite a tennis il sabato mattina, e serata al Buddha con i soliti amici. Seguiva la lista degli amici con brevi annotazioni su ciascuno. Domenica dedicata al riposo e alle ragazze. Seguiva altra lista. Delgado si rese conto che mai Gil era stato tanto accurato. Forse stava migliorando. Apprezzò le buone intenzioni, maledicendo ugualmente le lungaggini di quella relazione. In fondo non si sapeva ancora se avrebbero archiviato il decesso come semplice morte per cause naturali. Decise di non perderci altro tempo e di rileggersi invece tutto quello che si sapeva su Maribel Muñoz. Poco dopo chiamò Gil.
– Agli ordini, commissario.
– Ti dispiacerebbe approfondire le notizie sui colleghi della Muñoz? Non sei stato tanto accurato nelle ricerche come lo sei stato per Solinas.
– In effetti, non ho trovato molto. Per saperne di più, bisognerebbe andare all’agenzia per interrogarli.
– E allora, vai, adelante!
– Agli ordini – disse Gil, mordendosi un labbro.
Addio ricerca degli alberghi. Gil si ravviò la folta capigliatura bionda, di cui andava molto fiero, passandoci le dita a mo’ di rastrello, andò alla scrivania a recuperare il cellulare, il casco e le chiavi del suo scooter Boulevard, quindi uscì dal commissariato a passo svelto.

Quella sera, Delgado andò a cenare alla Casa Babylón, com’era sua abitudine. Non appena lo vide, Alicia gli portò subito una birra. Quando aveva i capelli scompigliati a quel modo, lo sguardo glaciale e le mascelle serrate, era meglio non farlo aspettare. Alicia ci aveva visto giusto: Delgado era di pessimo umore. Gil non si era fatto vedere e di Pérez non si avevano notizie. Non gli piaceva perdere tempo. Le piste si raffreddavano in fretta. I testimoni dimenticavano. Indizi utili erano trascurati perché non sembravano importanti. Lui voleva avere ben chiara la situazione, prima di muoversi. Più cose si sapevano, più era probabile risolvere un caso.
I suoi fiaschi gli avevano insegnato molto. All’improvviso se ne rammentò alcuni, che risalivano a qualche anno prima, quando aveva un vice in gamba, l’unico che ricordasse con piacere, Antón López Del Carmen. Gli piaceva molto, anzi, troppo. Antón non aspettava mai il giorno dopo, per fargli un rapporto. Si presentava a casa sua, dopo cena, e ne discutevano scolandosi una birra.
Una sera arrivò fradicio di pioggia, nonostante l’ombrello. Rey l'osservò con espressione divertita.
– Antón, se ti tieni quella roba addosso, ti prendi un accidente.
– Non è niente, si asciuga subito.
– Non dire stronzate, mi stai inzuppando il tappeto.
Delgado s’impose, sfilandogli la polo con la forza. Poi gli slacciò la cintura.
– E va bene, faccio da solo – si rassegnò Antón, imbarazzato.
– Ti prendo un accappatoio.
Rientrando in soggiorno, Delgado squadrò il suo vice, che indossava ancora i jeans infradiciati. Corrugò la fronte, lanciò l’accappatoio sul divano e finì il lavoro che aveva iniziato, strattonando i calzoni di Antón, che gli si erano incollati addosso.
– Sei duro da convincere – esclamò Rey.
Poi si accorse che Antón era duro anche per un altro verso. Probabilmente quello era il motivo per cui tardava a denudarsi.
– Adesso capisco – disse, sorridendo con ironia.
– Scusa, io…
– Niente scuse – gli impose Delgado, spogliandosi a sua volta.
Antón lo osservò con espressione imbarazzata, finché non vide che anche la dotazione di Rey era in tiro. Allora gli mancò il respiro. Ma ci pensò il suo capo a rimetterlo in sesto, con la respirazione bocca a bocca.
Quello che mandava in tilt Rey, attirandolo come una calamita, era una sorta di ritrosia da verginello che Antón manteneva nonostante le sue esperienze precedenti, rese evidenti dalla sua capacità di saper dare piacere; quella specie di timidezza che segna coloro che non si sentono sicuri del proprio appeal, pur possedendone a palate, come se l’immagine che hanno di sé fosse distorta da uno specchio deformante e perciò non riuscissero a convincersi di quello che gli altri vedono in loro. Questo e altro era il fascino di Antón. Si sapeva offrire per dare tutto, ma non si spingeva fino a chiedere altrettanto. Un caso umano, per Delgado, che non aveva mai sofferto di simili intralci. Antón aveva un corpo robusto e ben fatto, simile a quello di certe statue greco-romane che raffiguravano gli atleti di un tempo. Gli piaceva guardarlo, mentre i suoi muscoli compatti guizzavano sotto la pelle. Peccato solo che fosse piuttosto glabro, ma non si poteva avere tutto dalla vita.
Quella notte, Delgado lo lasciò andar via a malincuore, dopo avergli prestato abiti asciutti. Aveva smesso di piovere. Forse per questo Antón si dimenticò l’ombrello.
Il giorno successivo, quando Rey glielo fece notare, Antón rispose:
– Te lo regalo.
– Ma io non uso gli ombrelli.
– Tienilo per ricordo.
Delgado archiviò la pratica come se nulla fosse accaduto. Antón invece mostrò un imbarazzo che a Delgado sembrò incomprensibile. Antón inoltre evitò, da quella sera, di andare da lui a fare rapporto. Rey non commentò il suo bizzarro atteggiamento.
Al suo folle innamoramento per Rey, Antón aveva inevitabilmente associato l’idea della pioggia. Era stato grazie al fatto di essersi inzuppato, che Rey, quella sera, se l’era portato a letto. Nello stesso tempo, l’atteggiamento indifferente del suo capo, nei giorni successivi, gli diceva che Rey non nutriva alcun vero interesse per lui. Una sensazione che lo fece soffrire profondamente, e che lo portò a rinchiudersi in se stesso e a tenersi alla larga da Rey.
Ma, qualche tempo dopo, Burgos fu di nuovo investita da un violento nubifragio e Antón non riuscì a resistere alla tentazione di ripresentarsi a casa del suo capo, volontariamente bagnato dalla testa ai piedi, nella speranza di rivivere un momento come quello che non riusciva a togliersi dalla testa. Rey fu ben felice di spogliare di nuovo il suo vice e di rivedere la sua statuaria nudità. Quella sera, Antón sembrò mettere da parte la sua timidezza per dar sfoggio di un’ardente capacità amatoria. Rey ne fu molto soddisfatto e Antón lasciò un nuovo ombrello nel portaombrelli del suo ingresso. Gli regalò anche quello.
Tuttavia, nei giorni immediatamente successivi, se Antón sperò di vedere qualche cambiamento nel comportamento di Rey, ne rimase nuovamente deluso. Non c’erano segni d’affetto nella sua voce, né nel suo sguardo di pece, come non c’erano particolari gesti di complicità nei suoi confronti. Non c’erano, soprattutto, inviti a ripresentarsi da lui per ripetere e approfondire la loro intimità. Antón ritenne che il significato sottinteso di questa mancanza fosse un assoluto disinteresse di Rey per la sua persona. Perché allora, per ben due volte, aveva risposto al suo desiderio?
Per qualche tempo si trascinò tra la decisione di dimenticare tutto e la smania di tornare a riabbracciarlo. Ogni volta che pioveva, Antón si sentiva catapultato nel vortice di un turbamento che non riusciva a far tacere e che lo portava dritto dritto da Delgado. Peccato che tutto il calore che Rey gli regalava in quelle umide serate autunnali, si spegnesse immediatamente dopo. Ben presto gli ombrelli si accumularono nel portaombrelli di Delgado. Dopo il quinto, Antón si fece trasferire. Non sopportava che Delgado fosse tanto indifferente a lui. Rey invece trovava essenziale non mischiare il sesso con i sentimenti. Di sentimenti non sentiva la necessità, di scopare sì. Antón era sparito. Gli rimanevano cinque ombrelli neri, che non avrebbe mai utilizzato.

 


Pérez telefonò il mattino seguente per comunicare che l’autopsia era terminata e che la causa del decesso era un avvelenamento da nitrito di sodio. La quantità ingerita era di circa 2 grammi, così com’era stato stabilito nel caso del decesso Muñoz. Una dose superiore a 1,5 grammi risultava letale.
– Gil, sai che cosa devi fare, vero? Cerca un collegamento tra Muñoz e Solinas. Uno qualsiasi.
Gil guardò Delgado per un istante, poi si mise subito all’opera.
Poco dopo si presentò Ramiro Alvarez, il socio di Solinas, che il commissario aveva convocato in seguito alla conferma di Pérez. L’uomo doveva avere intorno ai trentacinque anni. Era molto alto e magro, con i capelli neri tirati indietro da un codino, alla maniera dei toreador, e un’espressione poco sveglia.
– Come dice? Ucciso? Come, ucciso?
– Avvelenato.
– Ma chi può aver avuto interesse a ucciderlo?
– Mi ha proprio tolto le parole di bocca. Me lo dica lei.
– Non è possibile. Non c’era niente nella sua vita che potesse…
– Lei era con Rodrigo quando si è sentito male, vero?
– Sì, stavamo chiacchierando con altri amici, quando è scivolato a terra, quasi al rallentatore. Per un attimo ho pensato che stesse facendo una scena, in risposta a una sciocchezza che aveva appena detto uno di loro.
– Con voi c’erano anche donne?
– Donne?
– Mi risulta che ne frequentasse diverse.
– Beh, sì, di donne ne aveva.
– Una alla volta?
– Che vuol dire?
– Una di quelle donne potrebbe essere diventata tanto gelosa di lui da volerlo morto?
– No. E’ impossibile.
Delgado si fece elencare le ultime conquiste di Rodrigo. Dall’elenco emerse che Maribel Muñoz e Rodrigo Solinas avevano avuto una breve relazione. Quindi, dopo le solite domande di routine, lo congedò, pregandolo di farsi vivo, se si fosse ricordato di qualche particolare che potesse essere in qualunque modo associato all’omicidio.

Gil, intanto, aveva messo in moto un programma di confronto tra testi, allo scopo di trovare un nesso tra la relazione del caso Muñoz e quella del caso Solinas. Saltò fuori un nome: Lola Trueba.
Chi è costei? si domandò Gil, grattandosi un orecchio. Ah, sì, è una collega della Muñoz. Avevano lo stesso dentista. E che ci faccio? Fernando decise comunque di comunicare la notizia al commissario, senza indugio.
– Indaga su questa Lola Trueba.
– Ho già iniziato, capo.
Delgado lo fulminò con lo sguardo.
Gil si rese conto, solo in quel momento, di averlo chiamato capo, anziché commissario, ma decise di non chiedere scusa e di sostenere il suo sguardo.
– Che aspetti, Gil?
– Ha saputo qualcosa d’interessante dal dentista?
– Sembra uno con la testa tra le nuvole, ma mi ha detto che Muñoz e Solinas hanno avuto una storia di letto. E anche quella Trueba, a quanto pare.
– Ah, allora bisogna solo capire chi può averli avvelenati entrambi.
– Comincia da Lola Trueba. Vai, adelante!
Gil gli voltò le spalle, sorridendo. L’aveva chiamato capo e lui non l’aveva redarguito. Facevano passi avanti.

 

L’agenzia pubblicitaria Arco Iris era in Plaza de El Cid, proprio di fronte al Teatro Principal. Delgado sfiorò appena con lo sguardo l’imponente statua del Campeador, che troneggiava in mezzo alla piazza, con la spada sguainata e il mantello svolazzante, del tutto indifferente al caotico traffico che lo circondava, apprezzandolo forse al pari di un carosello per festeggiare la sua grandezza.
Lola Trueba lavorava in un ufficio open space, affollato e rumoroso. Per conversare con una relativa calma, lo guidò in una saletta riunioni, in quel momento deserta.
– Ho già detto al suo collega tutto quello che sapevo su Maribel.
– Non ne dubito. Il fatto è che si è dimenticata di dirgli che andavate dallo stesso dentista.
– Ah, sì, è vero. Gliel’avevo consigliato io. E con questo?
– Lei che rapporti aveva con Rodrigo Solinas? Non eravate soltanto paziente e dottore, vero?
Lola sbuffò, portò indietro la testa per scostare i capelli dal volto e gli offrì un sorriso sfrontato.
– Siamo stati insieme per un paio di mesi. E allora?
– Anche Maribel è stata con lui, vero?
– Prima di me. Ma questo gossip a che cosa le serve?
– Oh, sono un tipo curioso.
– Vuole sapere altro?
– Com’era a letto questo Rodrigo?
– Non le sembra di esagerare? Questi sono affari miei.
– Non tema, non lo dirò in giro. Ormai del resto è tardi per rovinargli la reputazione, non le pare?
Lola si grattò il naso con un gesto molto elegante.
– Coraggio. Resterà tra lei e me.
Lola cedette: – Non era un granché.
– Per questo le donne lo lasciavano tanto in fretta?
– Le altre donne non so, io sì, lo ammetto.
– Però non faceva fatica a trovarne subito un’altra, da quel che ho potuto appurare.
– Rodrigo era affascinante. Ci sapeva fare. Aveva quel certo non so che, quel modo di fare che a una donna piace, perché la fa sentire unica e speciale.
– Lei e Maribel eravate amiche?
– Eravamo colleghe. Restando gomito a gomito per dieci ore al giorno, si finisce per parlare di tutto. Non era la mia amica del cuore, comunque.
– Quindi non le ha confidato perché aveva lasciato Rodrigo?
– Non è stata lei a lasciarlo.
– Ah. E sa dirmi come l’ha presa, Maribel?
– Beh, si è consolata in fretta.
– Ha trovato un altro?
– Esatto.
– E mi sa dire chi è?
Lola ci pensò un attimo, fissando lo sguardo nel vuoto.
– Ramón Sedano, uno dei nostri fotografi.
– Stavano ancora insieme, quando è stata uccisa?
– No, non più.
– Potrei parlare con lui, adesso?
Lola s’innervosì. Il suo sguardo schizzò intorno come in cerca di qualcosa.
– Mi dispiace, è a Marbella per un servizio.
– Capisco. Ha idea di quando tornerà?
– Tra un paio di giorni al massimo.
– Intanto mi sa dire se conosceva Rodrigo?
– Qui frequentiamo tutti gli stessi locali. Lo conosceva, certo, anche se non si potrebbe dire che fossero proprio amici.
– La ringrazio. Mi farò vivo tra un paio di giorni, allora.

Delgado si era fatto uno schemino: una specie di griglia in cui attaccava i post-it con l’annotazione dei fatti salienti, in ordine cronologico. In quel momento stava meditando sull’intreccio tra Lola, Maribel e Rodrigo. Lola era stata con Rodrigo dopo Maribel, inoltre era stata lei a lasciarlo, quindi era escluso che li avesse uccisi per gelosia. Bisognava trovare qualcun altro che li conoscesse entrambi. Movente, mezzo e occasione. Chi poteva averli? Quel Ramón Sedano, per esempio. Il movente? Per arrivare ad ammazzare qualcuno, ci vuole una spinta molto forte, insomma, un buon motivo. Non riusciva a vederne uno, per il momento. Il mezzo? Un fotografo poteva avere sottomano del nitrito di sodio. Era nella lista di Gil. Non gli restava che interrogare anche lui, e intanto cercare qualcun altro che potesse avere a che fare con entrambi i soggetti. L’occasione. Per Solinas niente di più facile: qualcuno gli aveva versato il nitrito in una bibita. Chi poteva farci caso, in mezzo alla confusione, e soprattutto nella scarsa illuminazione del locale, che risultava piuttosto buio persino in pieno giorno? E per la Muñoz? Delgado si ricordò che si era accasciata tra una cafetería e una boutique. E se fosse appena uscita da quella cafetería? Andò a cercarsi l’indirizzo.

 


La cafetería Candilejas era in Calle Fernán González, che correva sopraelevata sul fianco della Cattedrale. Delgado entrò chiedendo un caffè e guardandosi intorno. A quell’ora, i tavolini erano quasi tutti vuoti, ma immaginò che alle due del pomeriggio, quando Maribel era crollata sul marciapiede a poca distanza, dovevano essere affollati. Domandò a uno dei camerieri se si trovasse in servizio il 3 gennaio.
– Sì, perché? – gli rispose.
– Ricorda che quel giorno una donna ha avuto un malore, proprio a due passi da questo bar?
– Ricordo benissimo.
– E mi sa dire se era stata qui?
– C’era un sacco di gente quel giorno. Ho visto l’assembramento fuori, ma non sono andato a vedere. Qualcuno ci ha riferito quello che stava succedendo. Poi è arrivata l’ambulanza e la gente si è dispersa. Io non l’ho vista, quindi non so dire se era uscita da qui.
– Sì, che è stata qui – s’intromise un suo collega.
Delgado si voltò verso il nuovo arrivato, osservandolo attentamente.
– Si ricorda se era in compagnia?
– Era seduta là in fondo, vicino alla porta della toilette, con un tizio scuro.
– Un uomo di colore?
– No, scuro di capelli, e portava una giacca di pelle nera.
– Con questo freddo?
– Si era tolto il piumino. Qui dentro faceva molto caldo.
– E si ricorda com’era vestita la donna?
– Aveva un maglione viola con un gran collo di quelli larghi, che vengono giù come una sciarpa.
Delgado si stupì del suo spirito d’osservazione. Avrebbe controllato.
– Mi può descrivere meglio l’uomo?
– Aveva i capelli mossi, una faccia spigolosa, con la barba di un paio di giorni.
– Qualche segno particolare? Tatuaggi? Piercing?
– No, di questo non mi ricordo.
– Saprebbe riconoscerlo, se lo rivedesse?
– Credo proprio di sì.
– Mi sa dire se hanno parlato con altri avventori?
– Adesso mi chiede un po’ troppo.
– Mi rendo conto.
Delgado annotò sul suo taccuino il nome e il numero di cellulare del cameriere, raccomandandogli di chiamarlo subito, se, per caso, l’uomo fosse tornato nel locale. Nel frattempo, lo pregò di passare in commissariato per guardare alcune foto, nella speranza che potesse riconoscere l’uomo che era stato seduto quel giorno allo stesso tavolino di Maribel.
Una volta uscito dal locale, Delgado si trovò di fronte la facciata laterale della Cattedrale, arrossata dal precoce tramonto invernale. Un soffio d’aria gelida lo colpì a tradimento, provocandogli un brivido e l'esigenza di battere i denti. Sollevò la sciarpa fin sotto il naso, mise le mani in tasca e tornò verso il commissariato.

Nel tepore confortante del suo ufficio, Delgado si concesse il tempo di riprendersi.
– Gil, ti sei procurato le foto dei colleghi di Maribel Muñoz e di Rodrigo Solinas?
– Certo, capo.
– Tienile pronte. Tra poco dovrebbe passare un cameriere della cafetería Candilejas, per darci un’occhiata. Pensaci tu, io ho da fare.
– Sono già pronte, capo. Mi occupo di tutto io, non si preoccupi.
– È proprio perché te ne occupi tu, che io mi preoccupo.
Rey Delgado si era dilettato nella lettura di tutte le dichiarazioni dei colleghi di Maribel. Non gli restava che tornare all’agenzia Arco Iris, per parlare con Ramón Sedano. Avrebbe voluto essere certo di trovarlo, evitando un viaggio a vuoto, eppure preferì non informarsi in anticipo, per non fornire a Sedano il tempo di prepararsi un discorsetto appropriato. Rey considerava da sempre la sorpresa come la sua migliore alleata.

 

Mentre Gil si accingeva a distribuire sulla scrivania le foto che aveva estratto dal cassetto, una parte di esse scivolò dalle buste, mescolandosi alle altre. Gil le raggruppò con gesti goffi davanti a Pablo García, il cameriere del Candilejas, che lo osservò con attenzione, tanto da metterlo a disagio.
– Ci conosciamo? – gli chiese Gil.
– Ti ho visto in giro, con mia sorella.
– Ah.
– Si tratta di Mercedes. Lo so che fai fatica a ricordarti i nomi. Mia sorella mi ha detto che un paio di volte l’hai chiamata Milagros.
– Vogliamo passare alle foto? – propose Gil, imbarazzato, schiarendosi la voce.
– D’accordo – assentì Pablo, rassegnato.
Mentre le scorreva una a una, Gil si accorse che per errore vi erano finite anche quelle delle due vittime. Allungò la mano per toglierle dal mucchio, ma Pablo calò la sua, larga come un badile, interrompendo il suo gesto.
– È lui!
– Ti sbagli, questo è Rodrigo Solinas, la vittima.
– Sarà pure la vittima, ma è l’uomo che era seduto con la ragazza quel giorno, prima di cadere stecchita sul marciapiede.
– Accidenti. Ma sei proprio sicuro?
– Certo che sono sicuro.
– Accidenti, accidenti – ripeté Gil, dando prova della sua scarsa fantasia.

Nel grande ufficio dell’Arco Iris, Delgado restò per qualche minuto a osservare il caos, cercando con lo sguardo Lola Trueba o Ramón Sedano, mentre nessuno badava a lui. Poi, finalmente, gli si avvicinò una ragazza dall’espressione sbarazzina, gli occhi verdi e una galassia di efelidi sul viso.
– Buongiorno. Ha un appuntamento?
– No, ma sto cercando Ramón Sedano. È tornato?
– Sì, è al piano di sotto. La guido io.
Il set fotografico era completamente rivestito di teli di seta celeste, che pendevano sulle pareti da bastoni da tenda agganciati al soffitto. Sul pavimento bianco erano distesi un paio di tappeti che sembravano composti di fili d’erba. Sdraiata sul prato fittizio, una modella si lasciava studiare con un aggeggio il cui scopo era completamente sconosciuto a Delgado. Davanti alla modella erano aperti due ombrelli fotografici e un treppiede su cui era montata una fotocamera di notevoli dimensioni.
– Ramón! C’è un signore che ti cerca.
L’uomo si voltò verso Rey per un attimo, ma finì quello che stava facendo, prima di avvicinarsi a lui, con espressione interrogativa.
– Sono il commissario Delgado. Lola Trueba le ha anticipato che avevo bisogno di parlare con lei?
– No, non l’ho vista. Credo che sia ammalata.
– Non importa. Riguarda Maribel Muñoz.
– Che cosa vuole sapere?
– Le ha mai parlato di Rodrigo Solinas?
– Ma certo. Lo conoscevo anch’io. Ci siamo visti diverse volte. So che Maribel e Rodrigo sono stati insieme per un paio di mesi, poi lui l’ha lasciata.
– Ha idea del perché?
– Perché? Non saprei. Rodrigo era un farfallone. Si vede che Maribel l’aveva stancato.
– Anche lei è stato insieme a Maribel. Pensa che fosse una ragazza di cui stancarsi facilmente?
– Io non ne ho avuto il tempo. Maribel si è messa con me solo per far ingelosire Rodrigo, ma quando ha capito che a lui poco importava, mi ha mollato come uno straccio vecchio.
– Lei ci è rimasto male, suppongo.
– Suppone bene. Ma quella è gente strana. Sembrano tutti invasati. Fanno ogni cosa di fretta, spremono come un limone qualunque situazione e poi passano subito ad altro, senza pensarci due secondi, senza rimpianti, senza ripensamenti. Così come lavorano, vivono. Non è che mi trovi troppo a mio agio, con loro. Per me la fretta è una nemica. Vede, per fare una foto ci vuole un secondo, ma per prepararla ci vogliono ore. Per me anche la vita è così.
– Le capita ancora di usare i vecchi cari rullini di una volta, per le sue foto?
– Ma certo! Le foto su pellicola sono sempre le migliori.
– E le sviluppa lei, signor Sedano?
– Naturalmente, quella è la parte più importante del lavoro.
– Tra i prodotti che usa in camera oscura c’è anche il nitrito di sodio?
– Sì, ne ho, certo.
– La ringrazio.
Mentre Ramón si voltava per tornare dalla sua modella, Rey lo bloccò.
– Ah, ancora una cosa. Mi può dire che rapporto c’è tra lei e Lola Trueba?
– Siamo colleghi.
– Credevo foste amici.
– Amici come si può essere in quest’ambiente.
– Capisco. Buona giornata, signor Sedano.

 

Gil aspettò Delgado con un senso di ansia che non si riusciva a spiegare. Aveva fretta di raccontargli che era proprio Rodrigo quello che aveva pranzato con Maribel al Candilejas. Quando lo vide entrare, gli corse incontro investendolo con una valanga di parole, che per la fretta si mangiava e affastellava, senza riprendere fiato. Delgado ascoltò la novità con espressione straniata e assente. Gil concluse affermando che, molto probabilmente, benché non con assoluta certezza, era stato Rodrigo Solinas a uccidere Maribel Muñoz.
Questo cambiava tutta la prospettiva. Se Rodrigo aveva fatto fuori Maribel, chi aveva ammazzato lui? E perché? Per vendicare Maribel, forse? Questo presupponeva che qualcuno sapesse molto più di quanto avesse detto, ma era comprensibile, dal momento che doveva sviare l’attenzione da sé.
– Grazie Gil. Adesso bisogna ricominciare da capo. Devo riflettere.
– Certo, capo – assentì Gil, lasciandolo passare.
Delgado appose un post-it sulla sua griglia, dopo avervi scritto Rodrigo ha ucciso Maribel?
Osservando quelle parole, meditò. A volte, l’apparenza inganna. E se a ucciderla è stato qualcuno che voleva far ricadere la colpa su Rodrigo? E se Rodrigo l’ha capito, ha indovinato chi era l’assassino e quest’ultimo, sentendosi scoperto, ha voluto far fuori anche lui, per evitare di essere denunciato? Ma chi? E perché? Perché il pensiero corre subito a Ramón? Che motivo poteva avere? Eppure è l’unico che sia in possesso del nitrito di sodio, con certezza. Ma chiunque se lo potrebbe procurare, no?
 

Nonostante l’ora tarda, Delgado decise di tornare all’Arco Iris. Entrando, questa volta, cercò la ragazza dagli occhi verdi. La trovò quasi subito. Rivedendolo tanto presto, lei parve stupita.
– Chi sta cercando questa volta? – gli chiese sorridendo.
– Cercavo proprio lei. Ha tempo per una chiacchierata?
– Stavo andando via.
– Le dispiace se la accompagno?
– Lei è un poliziotto, vero?
– Sono il commissario Delgado. Sto indagando sulla morte di Maribel Muñoz.
– Capisco. Va bene, allora, può accompagnarmi. Vado a mettermi il cappotto e torno.
Delgado aspettò che lo precedesse all’uscita, poi si affiancò.
– Come si chiama?
– Angelina Blanca.
– Lavora da molto all’Arco Iris?
– Due anni.
– Conosce tutti in agenzia, immagino.
– Sì, certo.
– Mi dica, capita spesso che vi vediate anche fuori dal lavoro?
– Abbastanza spesso. Frequentiamo tutti gli stessi locali.
Le stesse parole di Lola Trueba.
– Angelina, conosce bene Lola?
– Sì, piuttosto bene.
– Può dirmi che rapporto c’era tra lei e Maribel e se conosceva anche Rodrigo Solinas?
– Sta cercando un po’ di gossip?
Di nuovo la stessa espressione di Lola Trueba. Evidentemente avevano un loro gergo, in agenzia.
– Mi dica quello che sa. Le storie di cuore m’intrigano.
– Se cerca storie di cuore, è capitato nel posto sbagliato. Io ne conosco soltanto di letto.
– Fa lo stesso. Mi racconti quelle. Partiamo da Lola e Maribel. Erano molto amiche?
– Altroché! Erano diventate come due gemelline. Secondo me si telefonavano prima di venire al lavoro per decidere cosa mettersi. Erano sempre vestite degli stessi colori. Stavano sempre assieme. Si mettevano persino con gli stessi uomini. Con quel Rodrigo, per esempio, prima ci ha fatto un giro Maribel, e poi Lola. Non era la prima volta. Solo con Ramón ha fallito miseramente. Dopo che c’è stata Maribel, Lola non è riuscita a conquistarlo. Credo che ci sia rimasta male. Sembrava che ci tenesse proprio. Ma Ramón è un ragazzo diverso da quelli che lavorano in agenzia. Lui è un tipo più calmo, più serio e riflessivo. Non fa mai le cose tanto per farle. Capisce cosa intendo?
– Credo di sì. E di Rodrigo cosa mi sa dire?
– Poco. Non l’ho conosciuto molto bene. Sembrava un tipo superficiale. Ma non potrei giurarci.
– Che lei sappia, è stata Maribel a lasciarlo?
– No, no. L’ha lasciata lui, per mettersi con Lola. È allora che è scoppiato l’inferno. Per far dispetto a Lola, Maribel ha cominciato a dire in giro che Rodrigo era un minidotato e che lei l’aveva lasciato per questo. Inoltre diceva che Lola aveva gusti davvero strani, se le bastava quello che Rodrigo aveva da offrirle. Insomma, un gran casino.
– Quindi Maribel era gelosa di Lola. Ne deduco che la loro amicizia fosse finita.
– Non proprio. Intanto Maribel si era messa con Ramón e Rodrigo aveva lasciato anche Lola e si era messo con una certa Maria.
– E Maribel ha lasciato Ramón prima o dopo che Rodrigo lasciasse Lola?
– Subito dopo.
– E a quel punto Lola si è fatta avanti con Ramón?
– Esatto.
– Ma Ramón non era d’accordo.
– Proprio così. Lola gli ha svolazzato attorno per un pezzo, ma con lui non c’è stato niente da fare.
– E Rodrigo è stato lasciato in pace, nel frattempo?
– No, Maribel ha continuato a sparlare di lui, anche quando stava con Maria.
– E lei con chi sta, Angelina?
– Con nessuno. Mi piace dormire da sola.
– La ringrazio per il bel quadretto che mi ha descritto.
– Spero che le serva a qualcosa.
– Lo spero anch’io.

 

Riassumere cronologicamente su carta quella storia di amori fatui non fu semplicissimo, ma la griglia di Delgado si coprì di nuovi quadratini colorati, che sembravano ali di farfalla pronte ad alzarsi in volo. Tornò forte la tentazione di pensare a Rodrigo come al vero assassino di Maribel. Una donna che gli stava rovinando la piazza, denigrandolo, disprezzandolo, sminuendolo, con un’accusa da cui non era facile scagionarsi, a meno di non girare nudo nei locali per dimostrare concretamente che quelle di Maribel erano tutte frottole. Ma lo erano veramente?
Delgado afferrò la cornetta del telefono e compose un numero che conosceva a memoria.
– Pérez, ho bisogno di un’informazione. C’era qualcosa di strano nell’apparato riproduttivo di Rodrigo Solinas?
– Che vuoi dire?
– Era tutto regolare?
– Un pene e due testicoli. Che altro doveva esserci?
– Dimensioni regolari? Voglio dire, si poteva considerare normodotato?
– Ma che razza di domande fai?
– Pérez, ti dispiacerebbe rispondere? Sto indagando su un omicidio.
– E ti servono le misure del suo cazzo per scoprire chi è l’assassino?
Pérez scoppiò a ridere sguaiatamente. Quando infine si fu sfogato, si degnò di rispondere.
– Sì, Delgado, Solinas era normodotato.
Poi riprese a ridere. Delgado non aspettò che finisse. Chiuse la comunicazione senza ringraziarlo, né salutarlo, maledicendosi per averlo chiamato. Tornò quindi alla sua griglia. Indispettito, afferrò una penna e cancellò il punto interrogativo dal post-it Rodrigo ha ucciso Maribel? Quello era decisamente un buon movente. A quale uomo non verrebbe voglia di far fuori una donna che va dicendo a tutti che ce l’hai piccolo, mentre non è vero?

Tuttavia, se Delgado aveva imparato qualcosa dall’esperienza, era che quando non si trova un movente davvero convincente, è possibile almeno seguire le tracce del mezzo. Quindi, a corto d’idee, e per nulla sostenuto da Gil, Delgado decise di percorrere anche la via del nitrito di sodio. L’unico che ne fosse sicuramente in possesso era Ramón Sedano. Delgado stabilì quindi di far visita alla camera oscura del fotografo, ritrovandosi per l’ennesima volta nei vasti locali dell’Arco Iris.
– Cosa spera di trovarci? – gli domandò Ramón Sedano.
– Sono solo curioso di vederla.
Ramón lo guidò, con espressione perplessa.
– Ecco qui. Si tratta di una normalissima camera oscura.
– Può mostrarmi il nitrito di sodio?
– Certo. Lo tengo nell’armadietto.
Ramón aprì le ante e osservò all’interno. Poi spostò bottiglioni, flaconi e scatole, prima da una parte, poi dall’altra.
– Quando è stata l’ultima volta che l’ha usato?
– Un paio di settimane fa.
– Può averlo riposto altrove?
– No, tengo tutto il materiale per lo sviluppo qui dentro.
– Però adesso non c’è più.
– Così sembra.
– Quant’era? E dov’era? In una bottiglietta, un barattolo, una scatola?
– Un barattolo di vetro.
– Che aspetto ha?
– Sembra zucchero.
– Come quello? – disse Delgado, indicando un barattolo su una mensola d’angolo.
– Che accidenti ci fa lì? – esclamò Ramón, andando a prenderlo.
– La quantità le sembra quella giusta?
– Non so, non ricordo. Penso di sì.
– Signor Sedano, può entrare chiunque in questo locale, vero? Non era chiuso a chiave quando siamo arrivati.
– Che motivo ci sarebbe di chiuderlo?
– La sera in cui è morto Rodrigo Solinas, anche lei era al Buddha bar, non è vero?
– Sì, ho parlato con quelli della polizia.
– Si ricorda il momento in cui Rodrigo si è accasciato? Le è sembrato sofferente?
– Io stavo parlando con Lola Trueba, in quel momento, e non me ne sono neppure accorto. L’ho visto quando era già a terra e qualcuno cercava di soccorrerlo.

 

Mentre Delgado sceglieva una nuova sveglia nell’orologeria di Calle de Victoria, rifletté che chiunque avesse rubato il nitrito di sodio, doveva essere un dipendente dell’Arco Iris. Oppure Ramón era molto più furbo di quanto sembrasse. Poteva aver inscenato la farsa della sparizione del nitrito a suo esclusivo beneficio. Ma mentre il movente di Rodrigo aveva una sicura pretesa di plausibilità, quello di Ramón era decisamente inconsistente. Il fotografo non sembrava un impulsivo, tutt’altro. Di sicuro, quando aveva intrapreso la sua relazione con Maribel, sapeva perfettamente che tipo fosse. Non poteva aspettarsi amore eterno e fedeltà da una come lei. E la scoperta che Maribel l’avesse usato per ingelosire Rodrigo, non gli appariva una ragione sufficiente per ucciderla. Ramón non trasmetteva la sensazione di essere un tipo passionale. Posato, riflessivo, tutto fuorché passionale. Del resto, si trattava di un omicidio premeditato. La freddezza dell’esecuzione, sia in un caso che nell’altro, era evidente.
Un altro, che era stato presente all’omicidio, era il socio di Rodrigo. Non sapeva molto di lui, né gli era mai venuto in mente un qualunque motivo per sospettarlo, ma poiché navigava nel buio, decise di fare una visitina anche a lui. Delgado non era molto ferrato in materia, ma si ricordò del ponte che un dentista aveva fatto a suo nonno. Nella struttura metallica erano inseriti i denti finti che sostituivano quelli che il dentista gli aveva estratto. Dal momento che il nitrito di sodio era usato anche in metallurgia, chissà che Alvarez non ne avesse nel suo studio? Doveva chiedere a Gil.

Delgado se ne dimenticò, ma tornò ugualmente a parlare con Ramiro Alvarez, il giorno seguente. Avevano appena riaperto lo studio dentistico, assumendo un nuovo medico dentista. Ramiro stava lavorando nel suo laboratorio. Delgado evitò di posare lo sguardo sulla parata di protesi allineate sul banco, che gli facevano una leggera impressione.
– Belle protesi. Fa tutto lei?
– In che senso?
– Si occupa della costruzione di una protesi dalla a alla zeta?
– Certo.
– E nel suo lavoro usa il nitrito di sodio?
– No.
– Bene. Devo farle ancora qualche domanda riguardo quello che avete fatto al locale, quella sera.
– Mi dica, commissario.
– Si ricorda cosa stavate bevendo?
– Io ho bevuto appena una birra. Toccava a me guidare, quella notte.
– E Rodrigo?
– Mi pare che avesse ordinato il terzo Mojito.
– Era andato lui a prenderlo al banco, o gliel’aveva portato un cameriere al tavolo?
– Il terzo giro è andato a ordinarlo proprio lui, per non aspettare. C’era molta confusione quella sera.
– Non ha visto chi gliel’ha servito?
– No, mi dispiace. Può darsi che qualcuno al Buddha bar se lo ricordi, anche se temo che sia quasi impossibile.
– Proverò a chiedere. Non si sa mai.

 

Delgado tornò in Calle del Huerto del Rey, già rassegnato all’idea che nessuno potesse ricordarsi di un particolare tanto insignificante, soprattutto in una serata affollata com’era stata quella del 14 febbraio. Del resto, quella era stata anche una delle domande di routine ai presenti, ma nei verbali che aveva letto non si accennava a qualcuno che avesse risposto. E ormai era trascorso troppo tempo. Delgado interrogò nuovamente i camerieri presenti, senza ottenere nulla di nuovo, tranne la reazione di uno sguardo corrucciato da parte di uno degli interrogati, il genere di espressione che si assume quando si tenta di ricordare qualcosa che ci sfugge.
Una volta fuori, fatti pochi passi, si sentì chiamare. Delgado si voltò. Uno dei camerieri lo raggiunse, asciugandosi le mani in un grembiule.
– Commissario, mi sono ricordato che quella sera una ragazza ha scambiato due parole con il signor Rodrigo, al bancone. Ricordo che gli ha mescolato velocemente il Mojito con la cannuccia e lui l’ha rimproverata. Anch’io avrei fatto lo stesso, perciò me lo ricordo. Il Mojito si mescola con delicatezza. Rodrigo ha sfilato la cannuccia con rabbia dal bicchiere, gettandola via, la ragazza si è offesa e si è allontanata, mentre lui ha portato il vassoio con le altre consumazioni al tavolo dov’erano i suoi amici.
– Soltanto lui ha preso un Mojito?
– No, i Mojito erano due, gli altri quella notte andavano a birra e Gin Fizz.
– Com’era questa ragazza?
– Piccolina, carina, bruna con gli occhi verdi e le lentiggini. L’avevo notata altre volte al locale.
– Quindi saprebbe riconoscerla, se la vedesse di nuovo.
– Certamente.
– Grazie. Se ce ne sarà bisogno, la convocherò in commissariato.
– D’accordo.
Delgado aveva già visto una ragazza che rispondeva a quella descrizione: Angelina Blanca. Che cosa diavolo c’entrava lei con tutto quel casino?

Fernando Gil trasalì al richiamo di Delgado. Non si era neppure accorto della sua presenza, immerso com’era nella descrizione del Palazzo di Cnosso e nella delusione di scoprire che si trattava di un’ignobile ricostruzione in cemento armato.
– Vieni nel mio ufficio – gli ordinò Delgado.
– Agli ordini, commissario.
– Gil, bisogna di nuovo parlare con tutta quella gente dell’Arco Iris. Voglio vita, miracoli e soprattutto amori di Angelina Blanca.
– Vado subito, capo.
– Vedi di non farti scoprire da lei. Non voglio che pensi che la sospettiamo, se è possibile.
– La sospettiamo?
– Esatto. Non fare quella faccia da pesce lesso. Ho capito, devo spiegarti tutto dall’inizio.
Delgado sintetizzò quello che aveva potuto appurare fino a quel momento dalle varie testimonianze, vi aggiunse poi le sue ipotesi, i suoi dubbi e quello che ancora non riusciva a capire.
– È tutto chiaro?
– Sì, commissario.
– Bene, allora vai, adelante!
Gil si allontanò con passo spedito. Avrebbe rallentato una volta uscito dal campo visivo del suo capo.
Bene, si disse Delgado, facciamo il punto della situazione. Cos’ha trovato la scientifica? Rileggendo la relazione, trovò il passo in cui si diceva che le impronte sul bicchiere di Rodrigo appartenevano a lui e a un paio di camerieri. Quindi, se a mettere il nitrito nel suo bicchiere ci aveva pensato Angelina, lo aveva fatto stando bene attenta a non toccarlo. Era ovvio. Però si era premurata di mescolare velocemente la bibita, per far sciogliere la polverina. Con che cosa? Ah, sì, con una cannuccia. E della cannuccia che ne era stato?
Chiamò Anson della scientifica al telefono.
– Non c’era nessuna cannuccia, nel bicchiere di Solinas.
– Lo so, l’ha gettata in un cestino. Non avete raccolto qualche reperto in giro per il locale?
– No, non sembrava che ce ne fosse motivo. Saremmo stati più accurati, se avessimo saputo che si trattava di avvelenamento.
– Non potevamo saperlo, Anson.
– Avremmo dovuto mettere il locale sotto sequestro.
– Del senno di poi son piene le fosse. Non preoccuparti, Anson, ci arrangeremo.

 

Semiaccecato dai flash che scattavano a ripetizione, Gil osservava la giovane modella avvolta nei veli colorati. Affascinanti bracciali dorati le ricoprivano il dorso dei piedi. A un invito di Ramón, la ragazza smise di spostare il velo con cui nascondeva il viso, lasciandolo cadere. Il fotografo si avvicinò a lei, brontolando, sfilò tre o quattro veli dalla cintura dorata che li teneva fermi in vita, mettendo a nudo un ventre appena tondeggiante, in mezzo al quale spiccava l’ombelico ornato di piercing. Gil deglutì, mentre Ramón faceva scorrere il fondale di velluto rosso, scoprendo quello sottostante, color arcobaleno, e poi tornava alla fotocamera invitando la ragazza a girare su se stessa come un derviscio. Gil attese che finissero, piacevolmente distratto da quella scena, infine si ricordò il motivo per cui si trovava lì.
– Signor Sedano, sono costretto a disturbarla nuovamente.
– Mi dica – rispose il fotografo, rassegnato.
– Ecco, io, se non le dispiace, vorrei ricominciare tutto da capo.
Un gemito fu l’unica risposta di Ramón.

Tra coloro che non aveva ancora avuto modo di sentire, c’erano le due assistenti dello studio dentistico. Delgado era convinto che le donne parlassero molto più volentieri degli uomini e che fossero più sensibili a certi particolari, quindi sperava di ricevere da loro qualche notizia più approfondita sui rapporti intercorrenti tra i due soci. Ramiro Alvarez non lo convinceva. Sembrava nascondere qualcosa, ma di che genere e per quale motivo, questo non gli era ancora chiaro. Aveva convocato le due assistenti in commissariato per permettere loro di sentirsi più libere di esprimersi. Non appena giunsero davanti al suo ufficio, Gil fece passare la prima, che era molto giovane.
– Elena, mi dica, com’erano, secondo il suo parere, i rapporti tra Rodrigo Solinas e Ramiro Alvarez?
– Normali – disse la ragazza, col tono di chi risponde a una domanda che ritiene sciocca.
– Da quanto tempo lavora nello studio dentistico?
– Quasi un anno.
– Si trova bene?
– Non mi posso lamentare.
– Lei assisteva il dottor Solinas, giusto?
– A volte anche Alvarez, secondo le necessità.
– E l’altra assistente?
– Lo stesso. Facciamo i turni.
– Ha mai notato niente di strano allo studio?
– In che senso?
– Qualcosa che le ha dato da pensare, qualcosa di diverso dal solito.
– Non saprei. Ultimamente, poiché c’era più lavoro, eravamo costrette a prolungare il turno pomeridiano.
– I due soci erano contenti di questo?
– Alvarez sì, ma Solinas a volte si lamentava.
– Naturalmente vi pagavano di più, quando vi trattenevate fuori orario.
– Certo.
– Grazie mille. Può andare.
Delgado si grattò la testa, scompigliando ulteriormente i suoi capelli corvini. Quel giorno sembrava un pazzo. Gil si affacciò alla porta.
– Faccio entrare l’altra assistente?
– Sì, falla passare.
Vedendola, Delgado ebbe un attimo di smarrimento. La donna aveva l’aspetto di una lottatrice di sumo. Le sue mani sembravano capaci di piegare una barra di metallo e il suo sguardo di piegare la volontà di un uomo.
– Signora Tejero, può dirmi com’erano i rapporti tra i due soci dello studio, Solinas e Alvarez?
– Rapporti di lavoro.
– Certo, volevo dire se erano cordiali o freddi, se c’era qualche attrito, qualche motivo di malumore.
– Si occupavano di settori diversi, non avevano molti scambi di opinione.
– Insomma, secondo lei, andavano d’amore e d’accordo.
– No, secondo me evitavano di parlarsi per non litigare davanti a noi e ai pazienti.
Delgado aguzzò le orecchie.
– Sicuramente lei si è fatta una sua idea personale dei motivi per cui evitavano di parlarsi.
La donna lo guardò fisso negli occhi con l’aria di soppesarlo. Delgado rimase impassibile sotto il fuoco del giudizio.
– Lei pensa che Ramiro abbia ucciso Rodrigo. È per questo che mi chiede un motivo. Beh, io il motivo non glielo so dare, ma secondo me è fuori strada. Ramiro non farebbe del male a una mosca.
– Però non mi ha risposto.
– Non c’entra con il lavoro. C’entrano le donne.
– Cosa sa, esattamente?
– Poco. Qualche volta li ho sentiti discutere perché Rodrigo cambiava ragazza come si cambiano gli abiti. E siccome le sue ragazze frequentavano anche Ramiro, poi quelle andavano a fare la lagna da lui. Ramiro ne era stufo. Tutto qui.
– Non era un buon motivo per ammazzarlo, ha ragione.
– Senta, secondo me, lei deve cercare tra quelle ragazze. Qualcuna più incazzata delle altre deve aver deciso di mettere fine ai suoi divertimenti.
Delgado assentì. L’assistente non aveva tutti i torti.
Quando la Tejero uscì infine dal suo ufficio, Delgado chiamò Fernando Gil. A quest’ultimo sembrò il ruggito di un leone.
– Sì, capo.
– Adesso siediti qui e facciamo il punto della situazione.
Gil si sedette di fronte a lui, agitandosi sulla poltroncina azzurra per qualche secondo, finché non trovò la posizione giusta per il suo fondoschiena.
– Che cosa hai saputo di Angelina Blanca?
– Angelina è un po’ fuori dal giro, a quanto pare. Non frequenta molto i suoi colleghi oltre l'orario di lavoro. L’unico che vede con più regolarità è Ramón Sedano. Se vuole la mia impressione, quei due si assomigliano. Ho saputo che quando Ramón si è messo con Maribel Muñoz, lei era fortemente contraria. Aveva capito che la sua collega lo stava usando, ma Ramón non ha voluto ascoltarla. Per un po’ Angelina ha smesso di frequentarlo, anche perché Ramón era diversamente impegnato e non aveva più tempo per lei.
– Sarà stata gelosa?
– Questo dovremmo chiederlo a lei.
– Secondo te, perché diavolo avrebbe dovuto uccidere Rodrigo?
– Non vedo un nesso tra lei e la vittima, capo. Da quel che ho potuto appurare, si conoscevano appena.
– Le hai chiesto conferma della sua presenza al Buddha bar quella sera?
– Sì, c’era, ma, quando è andata via, Rodrigo era ancora vivo, per questo non appariva nella lista dei testimoni.
– Chi l’ha voluto morto, ha usato lo stesso metodo con cui Rodrigo ha fatto fuori Maribel, sempre che sia stato davvero Rodrigo. Chi ci dice che dal loro tavolo non sia passato qualcuno che conoscevano, e che ha trovato il modo di avvelenare la bevanda di Maribel?
– In effetti, viene proprio spontaneo pensare che sia stata la stessa mano ad ammazzarli tutti e due. Magari è stato qualcuno che hanno fatto incazzare parecchio, quando stavano insieme.
– Sono stati insieme solo due mesi.
– Sono abbastanza per combinare guai.
– Hai ragione, Gil, ma questo ci lascia al punto di partenza. Hai saputo qualcosa di nuovo dagli altri?
– Di nuovo proprio no, ma ho avuto la conferma che Lola si era presa una bella sbandata per Ramón. Una sua collega dice che gli sbavava dietro fino a pochi giorni fa.
– Lola, eh?
– Ah, un’altra cosa. Il secondo Mojito l’aveva ordinato Ramón.
Delgado tamburellò le dita sulla scrivania, meditando.
Gil si agitò di nuovo sulla poltroncina.
– Stai scomodo, Gil?
– No, capo.
– Dovresti. Quelle sedie sono fatte per sentirsi a disagio.
– Davvero?
– Gil, smettila di cadere dalle nuvole per qualunque cosa dica.
– Stava scherzando?
– Ti sembro uno che scherza?
– No, capo.
– Bene, vai pure. Medita, scava, trova un nesso, un movente, un appiglio. Vai a lavorare. La pausa è finita.
– Certo, capo – disse Gil, alzandosi in piedi e incamminandosi fuori dall’ufficio.
Delgado tornò a osservare la sua griglia. Poi afferrò un foglio bianco. In cima, con un pennarello blu, scrisse Buddha bar 14 febbraio. Quindi disegnò un ovale, afferrò la lista dei testimoni e vi trascrisse intorno, a raggera, i nomi di quelli che erano seduti allo stesso tavolo di Rodrigo.
 
Le luci sono scarse, smorzate, simili a candele accese intorno alle venti statue del Buddha, che luccicano dorate nel buio, disposte a distanza regolare tutto intorno alle pareti. Il tavolino ovale dove sono seduti Rodrigo, Lola, Ramón, Ramiro, Ines e Miguel, è quasi di fronte al bancone del bar. Anche gli altri tavolini sono tutti occupati, così come gli alti sgabelli disposti lungo il bancone di legno di ciliegio, lucido, che riflette le luci soffuse. C’è gente in piedi. La porta di cristallo si apre e si chiude continuamente. Ogni volta, un po’ del gelo esterno entra a rinfrescare l’aria surriscaldata. Le vetrine sono appannate dal vapore acqueo. In sottofondo, aleggiano le note degli ultimi successi delle hit parade internazionali. I camerieri si muovono velocemente. I bicchieri vanno pieni e tornano vuoti. Lola e Ramón sono impegnati in una fitta conversazione. Ramiro o parla con Rodrigo. Poi, Ines chiede se qualcuno si fa un altro giro. Tutti concordano, ma quando Ines sta per alzarsi, Rodrigo la blocca, dicendo: – Ci penso io. – Si dirige al bancone, fendendo la piccola folla. Ramiro lo perde di vista. Si volta a parlare con Ines e Miguel. Rodrigo scambia poche parole con Angelina, mentre il barman prepara le consumazioni, posandole sul bancone davanti a Rodrigo, che chiede un vassoio. Angelina mescola velocemente uno dei Mojito, e subito Rodrigo la rimprovera. Angelina si offende, si allontana, forse esce dal locale. Rodrigo torna al tavolo con le consumazioni. Prende il bicchiere con il Mojito e beve. Poco dopo crolla a terra.

 

Delgado uscì dal suo ufficio, avvicinandosi alla scrivania di Gil.
– Cosa sappiamo di Ines e Miguel?
Gil fissò gli occhi azzurri su di lui.
– Non si sono allontanati dalle dichiarazioni di quella notte. Non hanno notato nulla di strano. All’improvviso, Rodrigo è scivolato a terra, come al rallentatore, con gli occhi chiusi. A nessuno dei due è sembrato che avesse un’espressione sofferente.
– Sai se si frequentavano spesso?
– Sono amici di Lola. Erano là con lei. Era già successo altre volte, che si sedessero allo stesso tavolo.
– Rapporti diretti?
– No, non risulta.
– Gil, io me ne vado a casa. Per oggi ne ho piene le scatole.
– Buona serata, capo.
Delgado grugnì qualcosa, allontanandosi. A Gil sembrò che la sua espressione assumesse una nota di disgusto. Possibile che le sue serate fossero sempre pessime? Non poteva cercarsi qualcosa di divertente da fare? Doveva pur esserci qualcosa che gli piacesse. O forse no?

C’era un velo di stanchezza e d’inquietudine, nelle serate vagabonde di Delgado. In effetti, non trovava niente d’interessante da fare, niente di divertente nella sua vita solitaria e schiva. Da una parte avrebbe ancora voluto trovare qualcuno che gli facesse vedere il mondo con occhi diversi, ma dall’altra non aveva più la voglia di cercare. Così si adagiava in quella meschina routine, amandola e odiandola allo stesso tempo. Inoltre, non sopportava la vista di uomini a caccia, perché gli suggerivano il pensiero che chi cerca trova. Lui aveva smesso di cercare, ma un demone dispettoso dentro di lui aspettava ancora di essere trovato. La sua insoddisfazione vorticava come un cane che tenta di mordersi la coda. A volte rimpiangeva Antón. Se non gli avesse permesso di trasferirsi altrove… Se avesse ascoltato quello che gli dicevano i suoi occhi, durante i silenzi che piombavano tra loro… Se avesse ammesso, anche per un solo momento, che la vita in due può farsi più piacevole… Ma no, cosa andava a pensare? Non aveva più l’età per quelle stronzate.
 
Quel mattino Delgado arrivò in ufficio con un enorme ritardo, un diavolo per capello e un insistente mal di testa. Vedere poi Consuelo Torres nel suo ufficio, circondata dalle relazioni sul caso che lui e Gil stavano seguendo, con l’aggravante di trovarsi seduta sulla sua poltrona e avere sotto gli occhi la sua griglia, gli fece perdere immediatamente il controllo.
– Siete abituati così a Madrid? Beh, qui da noi è diverso. Si alzi immediatamente dalla mia scrivania!
– Agli ordini, signor commissario.
Consuelo balzò in piedi di scatto e si pose di fronte a lui esibendo un saluto militare.
– Quella è la sua scrivania – disse Delgado, accennando con la testa dietro di lui.
Consuelo Torres guardò la montagna di carte che sovrastava un tavolo con due cassetti per parte.
– Che cosa devo fare di tutti quei fascicoli?
– Puoi approfittarne per metterli in ordine nello schedario.
Consuelo respirò a denti stretti, poi si diresse al casellario, aprendone e chiudendone i cassetti bruscamente, uno per volta. Che Delgado fosse passato con quella noncuranza a darle del tu, senza prima chiederle il consenso, la fece montare su tutte le furie.
– Ma sono vuoti!
– Gli schedari sono nuovi. A te l’onore di inaugurarli.
– Grazie, ne sono profondamente commossa.
– Gil! – urlò Delgado verso la porta.
– Dica, commissario – rispose lui, accorrendo immediatamente.
– Porta qui tutti i fascicoli da riporre nello schedario. Ci pensa la mia vice.
Consuelo si voltò a guardare Fernando con espressione ostile, accentuata da uno sguardo glaciale. Gil deglutì, e per un attimo pensò che avere a che fare contemporaneamente con Delgado e con un suo clone in versione femminile, gli avrebbe reso la vita definitivamente impossibile.

 

Ma Delgado non poteva sapere che Consuelo non era tipo da lasciarsi emarginare alla condizione di segretaria tuttofare oppure da lasciarsi intimorire dal suo carattere di merda. Ne aveva viste ben altre. Era allenata a questo genere di atteggiamento, ma con la caparbietà che la caratterizzava, voleva innanzi tutto essere rispettata per le sue capacità. Consuelo sapeva che quel rispetto non sarebbe mai stato gratuito, che avrebbe faticato per meritarselo e che il suo ottenimento avrebbe richiesto uno sforzo maggiore di quanto ce ne sarebbe voluto se fosse stata un uomo.
Nonostante fosse impegnata nella sistemazione dell’archivio, Consuelo s’interessò del caso che in quel momento teneva impegnato Delgado. Quando finì di leggere tutte le testimonianze, si formò nella sua mente un’idea. Un’idea da donna. Era appena arrivata a Burgos, quindi non conosceva nessuno, ma, soprattutto, nessuno conosceva lei. Questo l’avrebbe aiutata a fare amicizia con un’altra donna che in quel momento non sembrava molto felice.

Nella penombra arabescata di scintillii, che rimbalzavano dalle possenti epe dei Buddha, Consuelo cercava di non perdersi nemmeno un’espressione degli occhi e del viso di Lola Trueba, seduta accanto a lei. Non era la prima volta che s’incontravano. Le era servito un po’ di tempo e altrettanta pazienza per far breccia nelle simpatie di Lola, ma quella sera Consuelo sentiva che i tempi erano ormai maturi. L’aveva fatta bere, parecchio, ma non conosceva i limiti della giovane donna. Non sapeva quale fosse la giusta dose di alcol per smuovere le sue barriere. Però aveva una sua idea, Consuelo, e la seguiva tenacemente fino in fondo.
Lola aveva la sbronza triste. La frangia rossiccia e scalata, più chiara del resto dei capelli, le ricadeva continuamente sull’occhio destro, e lei ripeteva con instancabile monotonia il gesto di spostarlo verso l’orecchio. Aveva le palpebre pesanti di chi è colto dalla sonnolenza, ma non ha alcuna intenzione di arrendervisi.
– Nessuno mi ama – si lamentò Lola, strascicando le parole.
Ecco, si disse Consuelo, è il momento buono.
– Non è giusto. Sei una così bella ragazza.
– Hai ragione, non è giusto. Cos’ho che non va?
– Assolutamente niente. Sei bellissima.
– Allora perché non riesco a farmi amare da nessuno?
– Da nessuno o da qualcuno in particolare? Chi è questo mostro che non riesce ad apprezzare la tua bellezza?
– Ramón… Oh, perché non gli piaccio? Cos’ho in meno di Maribel?
Perché lei sì, e io no? Oh, vorrei vederlo morto!
– Hai ragione, meriterebbe di essere spazzato via come una foglia secca.
– Già!
– Se vuoi, ti aiuto io.
– Ci ho già provato, ma purtroppo è andata male.
– Questa volta andrà meglio. Vuoi che ti procuri un po’ di veleno?
– Quello ce l’ho.
– Cianuro? Arsenico?
– No, nitrito di sodio.
– E funziona?
– Certo che funziona!
– Allora come mai è andata male?
– L’ha bevuto la persona sbagliata.
– Che sfortuna, questa non ci voleva. Ma non ti scoraggiare. Questa volta andrà meglio. E Maribel resterà a bocca asciutta.
– Ah, no, Maribel non c’è più.
– Ci hai pensato tu?
– Certo. Quella troietta doveva sparire prima di tutti.
– Ne hai altri in lista?
– Solo Angelina.
Consuelo riaccompagnò a casa Lola, che non si reggeva molto bene sulle gambe. Poteva fidarsi a lasciarla libera ancora per un giorno.

 

Delgado la ricevette a rapporto con un lieve stupore. Non gli era neanche passato per la testa che Consuelo potesse intromettersi nelle sue indagini.
– Lola ha ucciso Maribel e tentato di uccidere Ramón, ma il Mojito di Ramón l’ha poi bevuto Rodrigo, scambiando il bicchiere con il suo.
– Cosa te lo fa pensare? – le chiese Delgado, corrugando la fronte.
– Me l’ha confessato lei. È tutto registrato – disse Consuelo, tirando fuori il suo registratore digitale miniaturizzato Tiny 16.
Delgado osservò per un momento il piccolo aggeggio elettronico, poi fissò Consuelo dritto negli occhi, con quella fissità propria dei momenti in cui ciò che aveva sentito non corrispondeva esattamente a ciò che si aspettava. Consuelo mantenne lo sguardo fermo nel suo, senza provocazione, ma con la serenità di chi è sicuro del fatto suo.
Delgado si schiarì la voce.
– Allora, Torres, che aspetti a farmelo sentire?
– Agli ordini, capo.

L’interrogatorio fu un’esperienza inquietante per Consuelo. Conoscendo Lola ormai piuttosto bene, tentava di porle le domande più adatte per indurla a confessare, mentre Delgado, senza un minimo di diplomazia, la accusava anticipando le sue risposte, con l’unico risultato di ostacolare lei e di spingere Lola a impuntarsi in un silenzio ostinato, che non li conduceva da nessuna parte. Incredibilmente, fu proprio Lola Trueba a evidenziare questa contraddizione, accusando il commissario di non saperci fare. Consuelo nascose un sorriso. Poi Lola affermò che avrebbe raccontato tutto solo se Delgado fosse uscito dalla stanza degli interrogatori. Fu uno spettacolo davvero inconsueto vedere il commissario fare un passo indietro in favore di un suo vice. Al posto di Delgado, entrò Fernando Gil, con la consegna di limitarsi a stare zitto e ascoltare.
– Così, tu saresti una poliziotta – disse Lola, ignorando completamente l'ingresso di Gil.
– Sì, è così.
– Pensi di avere capito tutto, vero?
– No, al contrario, non ho capito come hai fatto a uccidere Maribel.
– Semplice. Le ho offerto da bere, a lei e a Rodrigo. Sono andata al loro tavolo con un’offerta di pace. Verso Rodrigo non nutrivo risentimenti, in fondo. Mi bastava che fosse accusato lui della morte di Maribel. Ma lei ormai la odiavo. Quel giorno avevamo di nuovo litigato. Così sono andata a prendere un po’ del nitrito di sodio che Ramón teneva nella camera oscura. Ho seguito Maribel sapendo che doveva vedersi con Rodrigo e una volta al Candilejas, li ho studiati da lontano. Quando stavano per finire le loro bibite, ne ho ordinate due uguali, ho condito a dovere quella di Maribel e gliele ho portate al tavolo, con la scusa di fare pace. Lei ha accettato, io poco dopo ho finto di rispondere a una telefonata e me ne sono andata, senza aspettare che bevesse. Quando è morta, io ero già lontana.
– E Rodrigo?
– Te l’ho detto, quello è stato un incidente. Avevo appena messo il nitrito nel Mojito di Ramón, quando quell’imbecille di Rodrigo gli ha scambiato il bicchiere sotto il naso, borbottando qualcosa a proposito di cannucce.
– Ho capito. Angelina aveva mescolato velocemente il suo Mojito, cosa che a quanto pare non riusciva a sopportare. Così l’ha scambiato con l’altro, che nessuno aveva ancora toccato. Ma come mai nemmeno nell’altro bicchiere è stata trovata la cannuccia?
– Rodrigo l’ha lanciata contro il muro. Era piuttosto brillo.
– Capisco.
– Abbiamo finito?
– No. Mi puoi dire perché volevi mandare all’altro mondo Ramón?
– Ma te l’ho già detto! Sei tonta?
– Non dovevo essere molto sobria, non me lo ricordo.
– Lo sai perché. A me preferiva Maribel e persino Angelina.
– Era per questo che volevi ammazzare anche lei?
– Sì, ma poi ci ho ripensato.
– Perché?
– Perché quei due babbei si meritano a vicenda.

 

Per Fernando Gil domani non era un avverbio di tempo dai parametri ben definiti, bensì un'irresoluta intenzione di futuro. Domani faccio questo, domani faccio quello, domani ti telefono, domani ti faccio sapere. Ma quel domani era sempre un altro giorno.
Consuelo lo comprese presto e automaticamente smise di contare su di lui. Consuelo, infatti, riteneva fondamentale rispettare la parola data. Con lei, quelli che non la mantenevano, finivano subito nella sua lista nera. L’unico problema era che quella lista aveva preso a crescere a dismisura, mentre quella bianca era ancora vuota. A Burgos non si aspettava una vita facile, ma nemmeno tanto difficile. E per giunta non riusciva a trovare un locale in affitto. Si era adattata a vivere in una camera d’Hostal con il bagno in comune. La promessa di Gil di aiutarla a trovare di meglio, si era scontrata con la sua inaffidabilità. In quel momento, l’organizzazione del suo viaggio a Creta aveva la priorità su tutto il resto.
Nel frattempo, Delgado le aveva concesso l’onore di diventare la sua autista. Con un pizzico di autoironia, Consuelo si diceva che stava facendo carriera. Se non l’avesse portato a schiantarsi contro un albero, prima o poi, chissà, si sarebbe convinto che poteva approfittare anche delle sue doti di investigatrice. Ma ci voleva tempo, per certe cose.

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La banda del gas