Avete mai notato l’implacabilità con cui certi numeri si affacciano nella nostra vita, senza una ragione apparente?

Le note sono sette; sette i colori dell’arcobaleno; i gatti hanno sette vite ed io sono da sette minuti bloccata in questo ascensore, fermo al settimo piano, con uno sconosciuto dall’aria poco raccomandabile.
Ci guardiamo. Non abbiamo altro da fare. Abbiamo già sfogato la nostra ansia su tutti i pulsanti del diabolico aggeggio. Ogni tanto, il tizio che condivide la mia tragedia torna a premere il pulsante dell’allarme, come per ribadire che siamo ancora qui, vivi.
– Lei non soffre di claustrofobia, vero? – sento all’improvviso.
E mi chiedo da dove sia giunta questa melodiosa voce rassicurante, ricca di toni caldi e teneri insieme. Sollevo lo sguardo sullo sconosciuto appoggiato con disinvoltura alla parete opposta della cabina dell’ascensore. Ha l’espressione attenta di qualcuno che attenda una risposta, ma benché a parlare non possa essere stato che lui, mi riesce difficile associare quella voce al suo volto.
– No – rispondo.
Lui mi sorride. Ha un sorriso bellissimo.
– Menomale, perché ho la vaga sensazione che qui si andrà per le 
lunghe. Forse è meglio mettersi comodi.
Così dicendo, si siede tranquillamente, incrociando le gambe come un Apache.
– Si sieda anche lei. È inutile restare in piedi, nell’attesa che qualcuno si decida a tirarci fuori da qui.
Io osservo il pavimento di moquette grigia, chiedendomi quando sia stata l’ultima volta che ha avuto un incontro ravvicinato con un aspirapolvere, poi guardo i miei pantaloni bianchi e mi domando cosa mi abbia spinto ad indossarli proprio oggi. Quando infine mi accingo a sedermi, rassegnata, il tizio mi fa segno di aspettare. Tira fuori un giornale arrotolato dalla tasca posteriore dei suoi jeans, lo apre per bene, lo distende sul pavimento, lisciando le pieghe, con un chiaro invito a sedermici sopra.
– Grazie – gli dico.
– Mi chiamo Remo – si presenta, porgendomi la mano.
– Anita – rispondo.
– Come la donna di Garibaldi?
– Già. E lei, come il gemello di Romolo?
– Già – risponde sorridendo.
Guardo l’orologio. Dovrei essere al mio colloquio di lavoro, al decimo piano. Ormai è saltato. Mi rassegno. Cade all’improvviso tutta l’ansia che mi si era accumulata dentro. Mi rilasso, non posso fare altro.
– Di aria ne abbiamo abbastanza – commenta.
– Non ci avevo pensato. Grazie per avermi fornito questo nuovo spunto di riflessione.
Lui ride.
– Non ti preoccupare. Usciremo di qui molto presto
Il fatto che mi sia seduta sul suo giornale gli concede pieno diritto di darmi del tu.
– Non sono preoccupata – lo tranquillizzo.
– Lo vedo. Nervi d’acciaio in un involucro dall’aspetto ingannevolmente delicato.
Lui invece ha un aspetto rude che sembra racchiudere, però, un cuore gentile.
– Cosa fai nella vita? – mi chiede.
– Cerco lavoro.
– Interessante occupazione.
– Poco remunerativa, purtroppo.
Remo ride di nuovo.
– Qual è il tuo campo? – mi domanda.
– Pubblicità.
– Copy o art?
– Copy.
– Interessante.
Per lui è tutto interessante.
– Quali sono i tuoi piatti preferiti? – mi chiede, passando di palo in frasca, convincendomi che questa conversazione abbia l’unico scopo di distrarci dalla nostra incresciosa situazione.
– La pizza, decisamente – rispondo, stando al gioco.
– Anch’io l’adoro. Conosco un posto dove te la fanno della misura che preferisci, con qualunque condimento ti passi per la testa. Una volta ho visto un tizio che se n’è fatta fare una grande come un tavolino, ed è stato capace di mangiarsela tutta.
– Interessante. – commento, lasciandomi contagiare.
– Quale headline metteresti sulla foto di quel tizio con la pizza gigante?
Ci rifletto per un nanosecondo.
– Sempre a misura del tuo appetito – butto là, tanto per dire qualcosa.
– E come te lo immagini il tizio?
– Veramente, ci vedrei Stanlio e Ollio. Stanlio con una pizzetta misera misera e Ollio davanti a quella gigante.
– Simpatica – commenta, dimenticandosi di “interessante”.
– Ti piace viaggiare?
Un'altra deviazione per distrarmi.
– Sì, ma ho viaggiato poco. Le mie finanze non me lo permettono. – Immagino che tu conosca le lingue.
– Inglese e spagnolo.
– È perfetto, con quelle vai dappertutto.
– E tu dove sei stato? – gli chiedo, per sviare l’attenzione da me.
– In giro per l’Europa, qualche volta in America, ma quasi sempre per lavoro. Non ho avuto il piacere di andarmene a spasso come avrei voluto. E poi ci sono posti che mi sogno di notte, dove non sono mai stato, ma che vorrei tanto vedere, il deserto del Sahara, il Nepal, la Polinesia – conclude con voce sognante e un sospiro.
– La Polinesia – gli faccio eco – piacerebbe anche a me. Me la immagino dall’alto, quella miriade di isole verdi che punteggiano il blu dell’oceano. Intorno alle isole il colore si schiarisce fino a un celeste pallido, là dove le barriere coralline salgono dai fondali sabbiosi.
– La geografia che diventa poesia – dice Remo, guardandomi con curiosità.
M’imbarazzo. Non mi ero resa conto di parlare ad alta voce.
– Mi fumerei una sigaretta – mormora, guardandomi le labbra.
– Anch’io – affermo, ancora imbarazzata, tamburellando con le dita sulla mia coscia.
A quel punto si sente un rumore metallico e voci che incitano a stare tranquilli. Infine, dopo qualche minuto e qualche scossone, le porte si aprono. 
– Tutto bene? – ci chiede un tecnico degli ascensori.
– Benissimo, grazie – risponde Remo, saltando in piedi come un pupazzo a molla e tendendomi la mano per aiutarmi a tornare in posizione eretta. Si riprende il giornale e usciamo sul corridoio del settimo piano.
– Io vado al decimo, a piedi, e forse andrò a piedi per il resto della mia vita. E tu? – mi domanda.
– Io me ne vado. Il mio appuntamento, ormai, è saltato.
– Arrivederci. Piacere di averti conosciuta – mi dice, con un sorriso disarmante, stringendomi la mano con calore.
– Arrivederci – rispondo, con la certezza interiore, e un po’ rammaricata, che non lo rivedrò mai più.
Mentre scendo i sette piani di scale, ripenso a Remo. Potrebbe fare l’attore. Lo vedrei bene in un film western, con uno di quei tipici cappelli impolverati, cinturone con le colt dall’impugnatura di madreperla, in groppa a un cavallo dall’andatura nervosa. Ha il viso giusto, duro, rude, a metà strada tra Luciano Ligabue e un Charles Bronson molto giovane. Volto di cartavetrata, voce di velluto e cuore di panna. Quasi mi dispiace non rivederlo più.
Giunta al portone del palazzo, l’ho già dimenticato.

 

Sono nata il sette luglio. Il sette mi ha sempre portato fortuna. Mi domando come mai, proprio questa volta, che per me era tanto importante, la sfiga mi abbia colto proprio al settimo piano. Chiamo Betty, art director, coinquilina e amica del cuore.
– Anita! Allora com’è andata?
– Niente. Non ci sono andata – le rispondo con voce mesta.
– Ma come? Sei impazzita?
– No. Sono rimasta bloccata dentro l’ascensore.
– Accidenti, non ci voleva. Ma richiamali, spiega tutto e fatti fissare un altro appuntamento.
– No, Betty, l’ascensore si è bloccato al settimo piano.
– E allora?
– Il sette è il mio numero fortunato, lo sai.
– E allora? – ripete, spazientita.
– Doveva andare così. È un segno. Si vede che a quel colloquio era meglio che non andassi.
– Ma ti sei bevuta il cervello? Piantala con le tue stupide superstizioni. La vita non ha niente a che fare con i tuoi numeri.
– Ci penserò – dico a Betty, cambiando poi argomento repentinamente.

Torno alla mia vita spericolata. Studio tutti gli annunci dei giornali, cerco lavoro su internet, distribuisco curriculum a destra e a manca. Le solite cose. Ogni tanto esco con Betty. Ci piace passeggiare per il centro a guardare le vetrine e i bei ragazzi che passeggiano come noi, con l’espressione di non avere uno scopo nella vita. Generazione di sbandati.
Oggi siamo preda di un’ansia priva di fondamento. Odio le giornate come questa.
– Ma che futuro abbiamo? – mi dice Betty.
– Lo so, non c’è di che stare allegri, ma non sarà così per sempre. Prima o poi la crisi finirà e troveremo un posto anche noi. Siamo ancora giovani.
– Per quanto? Abbiamo già venticinque anni. Se non troviamo lavoro subito, poi sarà troppo tardi.
– Smettila, Betty. Quando fai così, mi fai venire la depressione.
– Dobbiamo inventarci qualcosa. Dobbiamo diventare imprenditrici di noi stesse.
– Senti, imprenditrice di te stessa, a quanto ammontano le tue finanze?
– Lo sai che sono a secco – mormora lei, abbattuta.
– Allora piantala di sognare. Continua a spedire curriculum.
– Discutere con te è sempre un piacere.

 

Prima di salire in casa, guardo sempre nella cassetta della posta. Lo faccio per abitudine, nonostante ci trovi invariabilmente pubblicità o bollette da pagare. Anche questa volta, una busta bianca occhieggia dal vetro. La bolletta della luce? La temo come un’influenza. Sulla busta c’è un logo che mi sembra di conoscere, anche se non ricordo dove l’ho già visto. Apro, leggo e svengo. Svengo in piedi, senza darlo a vedere. Chi mi passasse vicino, noterebbe soltanto una giovane donna con un foglio in mano, che guarda fisso nel vuoto. Potrei passare per una che si sta concentrando su un pensiero qualunque, che so, la quadratura del cerchio, la teoria della relatività, la ricetta dello strüdel.
Rinvengo e salgo in casa. Mi siedo sul divano e comincio a pensare che c’è stato un errore. Non posso essere io la destinataria di questa lettera di assunzione. Non mi ricordo di aver mai fatto un colloquio alla RBPubblicità S.r.l., al massimo avrò mandato un curriculum, perché il nome non mi risulta nuovo. Che devo fare? Qui c’è scritto di presentarmi il 7 febbraio alle ore 9,00. È tra quattro giorni. Decido che, nonostante lo scambio di persona, io mi presenterò. Il sette è sempre stato il mio numero fortunato.

Betty non crede ai suoi occhi, mentre legge la lettera che le ho messo in mano.
– Ma come pensi che sia successo? Uno scambio di curriculum? La svista di una segretaria?
– Io ci vado lo stesso – affermo, con decisione.
– Niente panico. Pensa soltanto a presentarti bene. Hai un tailleur adatto?
– Tailleur? Lo sai che non ce l’ho mai avuto un tailleur. Mi metterò quello che ho portato sempre, pantaloni e maglione.
– Il primo giorno di lavoro?
– Appunto, il primo giorno, che sarà anche l’ultimo, quando si accorgeranno di non avermi mai vista prima.
– Mi domando cosa ci vai a fare, se parti con questi presupposti.
– Ci vado perché è il sette febbraio, e il sette è il mio giorno fortunato.
– Appunto – dice Betty, guardandomi con espressione perplessa.

 

Oggi è il gran giorno. Guardandomi allo specchio, mi accorgo che i capelli mi sono cresciuti. Mi arrivano quasi alle spalle. Penso che prima o poi dovrò fare qualcosa per il colore. Non sono proprio biondi, ma nemmeno castani. Sono indecisi, esattamente come i miei occhi, color miele con schegge color castagna.
Quando giungo all’indirizzo della RBP mi rendo conto di esserci già stata. È proprio dove sono rimasta chiusa in ascensore. Resto disorientata per qualche istante, poi mi decido ad entrare. Guardo l’ascensore, con il gruppetto di persone raccolto in attesa davanti alle porte chiuse. Non ce la faccio. Questa volta salgo a piedi. Al quinto piano ho già il fiatone, ma non demordo. Al settimo incontro un altro scalatore che ansima come il Darth Vader di Guerre Stellari. Lo sorpasso, ma devo fermarmi a riprendere fiato all’ottavo piano e lui mi raggiunge. Ci guardiamo. Ci riconosciamo.
– Ciao, Anita – ha la forza di dire.
– Ciao, Remo – rispondo, col fiato a malapena sufficiente.
Trovo strano che ci ricordiamo l’uno il nome dell’altra.
– Ancora due – commenta, stremato.
– Ce la possiamo fare – affermo eroicamente, riprendendo a salire.
Al decimo c’è un divano, proprio di fronte alla tromba delle scale. Mi ci butto, distrutta. Remo mi raggiunge e si siede accanto a me. Quando si riprende dal fiatone, mi dice:
– Ce l’ho fatto mettere da quando siamo rimasti bloccati in ascensore. Da allora salgo a piedi.
– Ottima idea. La approvo in pieno.
– Bene. Sei pronta? Devi passare in amministrazione.
– Come fai a saperlo? – gli chiedo, stupita.
– Io so sempre tutto. Mi pagano per questo. Non metterci troppo, il capo vuole vederti tra un quarto d’ora.
– No, guarda, sono venuta soltanto a chiarire un malinteso.
– Davvero? E quale? – mi chiede Remo.
– C’è stato uno scambio di persona. Mi hanno mandato una lettera di assunzione, ma io qui non ho mai fatto alcun colloquio.
– Bene. Ti accompagno – mi dice alzandosi e offrendomi la mano per tirare su anche me.
– Pronta?
– Prontissima. Da che parte?
Remo mi fa strada fino a un box di vetro, chiama un tizio completamente calvo che sta parlando al cellulare e gli fa un gesto strano. Quello annuisce precipitandosi da noi.
– Fai presto. Al capo non piace aspettare – afferma. Poi se ne va.
– Ciao, Anita, io sono Alessio. Dovresti compilarmi una scheda.   
– No, guarda, c’è stato un errore. Non sono io quella che volevate assumere.
– Non sei Anita Ferrari?
– Sì, ma...
– Allora non c’è nessun errore. Compila la scheda, per favore. E non omettere niente.
Io lo guardo, stralunata. Poi penso che tanto non ho niente da fare. È divertente far perdere un po’ di tempo a quelli che lavorano. Quando si renderanno conto che non sono io quella che volevano, mi limiterò a dichiarare:
– Ve l’avevo detto.
Compilo la scheda, in ogni sua parte, compresa la piccola intervista dove si fanno i fatti miei, in campo di hobby, letture preferite e preferenze cinematografiche. A che gli servirà?
– Fatto – gli annuncio.
– Bene. Lascialo lì. Ti accompagno dal capo.
Percorriamo l’intero corridoio fino all’ultima porta. Alessio bussa, apre, mi fa passare e richiude la porta alle mie spalle. Mi trovo in una stanza davvero spaziosa, ben arredata, con grandi finestre che si affacciano sul parco. La mia esplorazione viene interrotta da una voce che conosco.
– Ti piace?
– Sì, è un bell’ufficio. Ma dov’è il capo?
– Ce l’hai davanti – mi rivela, sorridendo.
– Corbezzoli – esclamo, lievemente stupita.
Remo ride.
– Adesso ti è chiaro, quand’è che hai fatto il colloquio?
– Nell’ascensore? Davvero il più strano che mi sia mai capitato. – commento.
– Devo ammettere che anche per me è stata la prima volta. Quando sono venuto su, quel giorno, e ho visto il tuo nome sulla lista degli appuntamenti, ho capito. Non ci sono molte Anita in giro. D’altra parte, quando mi hai detto che ti occupavi di pubblicità, m’è venuto spontaneo farti quel piccolo test. Te la sei cavata bene, senza pensarci neanche un attimo. Sei sveglia, determinata, sicura di te al punto giusto. Ho apprezzato anche che tu non sia venuta lo stesso all’appuntamento, adducendo la scusa che il tuo ritardo fosse dovuto ad un incidente tecnico. Chiunque altro lo avrebbe fatto.
– Odio arrivare tardi ad un appuntamento – esclamo.
– Anch’io – mi confessa Remo. – Ho studiato il tuo curriculum. Mi sono informato presso l’agenzia in cui hai fatto lo stage. Mi sembri adatta per il nuovo team che sto creando. Adesso credo che potremo metterci al lavoro. Ti faccio conoscere gli altri. Vieni.

E così ho un lavoro. Il mio capo, Remo Beltrami, fondatore della RBPubblicità, sembra proprio una persona in gamba. Fa il duro, ma io non posso lasciarmi ingannare completamente: l’ho conosciuto in un ristretto ambiente avulso dall’agenzia. In quell’occasione mi ha mostrato un volto diverso, come quando mi ha accolta nel suo ufficio per svelarmi simpaticamente chi fosse. Devo ammettere che la sua maschera da rude cow-boy del Far West gli sta proprio a pennello. Si accorda col suo viso e con la sua posizione di leader. I miei colleghi sembrerebbero simpatici, ma mi hanno accolta un po’ freddamente. Di sicuro avranno i loro motivi e non tarderò a scoprirli. L’importante è lavorare. Sul campo saprò farmi valere e poi ne riparleremo. La nostra prima sfida è un prodotto di bellezza. Sull’argomento sono ferratissima. Il mio cervello ha già iniziato a ronzare.

 

Anche Betty ha trovato un lavoro e me lo comunica a cena.
– Finalmente un po’ di respiro. Non era il sogno della mia vita, ma per il momento ci pago l’affitto.
– Che lavoro è? – le chiedo, con curiosità.
– Ho un box in un call center.
– No! Non è possibile. Davvero hai accettato?
– Anita, non mi posso più permettere di rifiutare un lavoro, qualunque esso sia, tranne ovviamente quelli che si svolgono per strada e che includono un protettore. Finora me ne sono tenuta alla larga, ma se continuava così, avrei dovuto farci un pensierino.
– Vabbè, intanto ti parcheggi là, poi vedremo.
– Mi raccomanderai per un colloquio alla tua agenzia? 
– Ci puoi giurare. Lasciami il tempo di ambientarmi. Ancora non sono molto addentro.
– Com’è il tuo art?
– Non è come te. Ma ancora non l’ho inquadrato bene. Mi sembra un po’ il genere artista distratto, sai quelli che sembrano chiedersi continuamente “perché sono qui?”
– Comunque ci sta, e invece io, da domani, e chissà per quanto tempo, starò in un call center.

Stamattina sono la prima ad arrivare. Sulle scale mi sono fermata solo due volte. Sono certa che, con un po’ di allenamento, riuscirò a farmi dieci piani senza fermarmi a riprendere fiato. La sosta al divano è comunque irrinunciabile.
Sto studiando tutte le campagne precedenti di questa agenzia. Trovo fondamentale adattarmi ai loro sistemi.
– Che stai facendo? – mi chiede Remo, appena arrivato anche lui.
– Cerco di assimilare il vostro stile.
– Lascia stare. Voglio idee nuove e originali. Se guardi quella roba, ti rovini.
– Capisco – dico, richiudendo l’annual.
– Vieni. Ci vuole un caffè.
Mi porta alle macchinette, a metà del corridoio, proprio di fronte all’amministrazione.
– Sei arrivata presto.
– Preferisco essere sempre in anticipo.
– Il tuo ragazzo ne sarà felice.
– Non ce l’ho un ragazzo – gli confesso.
– Ma che cos’hanno nella testa i giovani d’oggi? – si domanda, interdetto.
Pur pronunciata sbrigativamente, questa frase mi suona quasi come un complimento.
Quando vede arrivare gli altri, Remo indossa la sua maschera da boss, getta il bicchiere nel cestino, mi augura buona giornata e va a rinchiudersi nel suo ufficio. Io raggiungo il mio, dove ho appena visto entrare Luca, la mia metà. Copywriter e art director sono una coppia indissolubile. Lavorare insieme è come un matrimonio. Il problema della nostra convivenza sta nel fatto che il nostro non è un matrimonio d’amore, ma che si tratta di un’unione combinata, da Remo. E noi non ci conosciamo ancora.
– Ciao, Luca – dico entrando.
– Ciao – risponde lui.
Sono quasi convinta che non si ricordi neppure il mio nome.
– Ho preparato una lista di headline per la crema viso.
– E io ho qui i miei visual – ribatte.
Senza tanti complimenti, iniziamo a lavorare.
Prima di pranzo abbiamo già pronti alcuni roughs da mostrare.
– Pensavo peggio. Sei svelta – mi dice Luca.
– Anche tu – ricambio.
Ricambiare un complimento è il primo passo per andare d’accordo col proprio art.
– Vieni a mangiare? Qui sotto c’è un bar che prepara dei piatti leggeri.
– Volentieri.
Davanti all’ascensore, però, recalcitro come un puledro imbizzarrito.
– No, vado a piedi. Ci vediamo di sotto.
– Come vuoi – si rassegna Luca.
Una volta al bar, con le nostre insalate davanti, Luca mi chiede che problemi abbia con l’ascensore. Quando gli racconto la mia avventura col capo, si mette a ridere.
– Ecco da dove sei sbucata! E noi che pensavamo fossi stata raccomandata da qualche suo amico.
– Raccomandata? No, stavo venendo su a fare il colloquio, quando quel bastardo di ascensore si è bloccato. Il capo mi ha fatto l’interrogatorio lì per lì, e il bello è che non sapevo neanche chi fosse.
– Che storia! Però io sono in prova.
– Anch’io. Assunta in prova. Se fallisco mi sbatte fuori a calci nel sedere. È ovvio.
– È ovvio – conferma Luca, con espressione rasserenata.

Questi tre mesi non sono stati proprio una passeggiata, ma adoro il mio lavoro. Non ho più una vita privata, ma a questo ero già preparata: quand’ero una stagista, non tornavo mai a casa prima delle nove. Luca ed io abbiamo raggiunto un affiatamento sufficiente a semplificarci la vita a vicenda, e questo è un gran risultato, perché significa che qualche volta riusciamo ad imporre le nostre idee al direttore creativo e una volta l’abbiamo spuntata persino con Remo, il nostro grande capo-account. Ho scoperto che il suo soprannome, qui in agenzia, è “La Iena” e che lui ne ha affibbiato uno a me, “La Tigre”. Trovo che il mio sia più carino. Sul lavoro mi tratta come tutti gli altri, sbraitandomi in faccia da rude cow-boy, ma quando ci incontriamo sul divano è decisamente molto diverso, come se quel momento tutto nostro (siamo gli unici folli a salire per le scale), avesse creato una bolla nel tempo e nello spazio e là tornassimo ad essere quelle due strane creature scampate ad un black-out dell’ascensore. È il nostro momento privato, in cui possiamo permetterci di essere noi stessi, abbandonando per un attimo le vesti di quegli animali che siamo, una iena e una tigre, pronti a sbranarsi.
È piuttosto difficile conoscere gli altri, per i ritmi di lavoro che non concedono lunghe pause. L’unico con cui ho avuto qualche scambio di battute è Alessio dell’amministrazione, che ho incontrato qualche volta nella saletta fumatori, una specie di camera a gas con finestra sul parco, gentilmente messa a disposizione da Remo, il terzo drogato dell’agenzia. Tutti gli altri hanno smesso o non hanno mai iniziato. Altro luogo deputato allo scambio di opinioni è il distributore di bibite e caffè, dal quale ho ben presto imparato a stare alla larga, quando nelle vicinanze si aggira il direttore creativo, che deve aver deciso di condurre una sua personale crociata contro la caffeina. Ogni volta che vede qualcuno con il bicchierino in mano, va a torturarlo per qualche consegna, inducendo il malcapitato ad ustionarsi velocemente e tornare di corsa nel suo ufficio. Sono molti i caffè a cui ho rinunciato, saltando direttamente alla sigaretta.

 

Betty ha ricominciato a trascorrere il tempo libero inviando curriculum a tutto il mondo. Il suo lavoro al call center è l’esatto opposto di quello che avrebbe voluto fare. La capisco. Anche i rapporti umani, da lei, sono molto limitati. E per di più si annoia.
– Come va con il tuo boss? – mi chiede.
– Benone. A volte ho a che fare con Mister Hide e a volte col dottor Jekyll.
– E di quale dei due ti sei innamorata?
– Cosa? Che? Sei impazzita? Non potrei mai.
– Sì, certo. Non potresti mai. È per questo che quando parli di lui ti brillano gli occhi.
– Quello è l’effetto del computer.

Stamattina Remo mi ha ricordato quel posto dove fanno la pizza a misura di fame e mi ha chiesto se volevo andarci con lui. La mia adesione è stata forse troppo entusiastica, perché mi ha guardato in un modo strano, ma tant’è.
Sono le otto passate e credo che per oggi possa bastare. Sto aspettando che Remo si decida anche lui a guardare l’orologio, se proprio si rifiuta di ascoltare i brontolii del suo stomaco. Il difficile cliente – ma sono difficili tutti – che si è intrattenuto con lui nelle ultime due ore, se n’è andato dieci minuti fa.

 

In pizzeria siamo arrivati alle nove. Con mio grande stupore, proprio di fronte alla porta d’ingresso, giganteggia una foto di Stanlio ed Ollio con due pizze proporzionate alle dimensioni e lo slogan Sempre a misura del tuo appetito.
– Ma… ma quella è… – balbetto.
– La tua prima campagna.
– Ma io non ci ho lavorato.
– No, ci ho lavorato io, però l’idea è stata tua. Ti piace?
– Abbastanza.
– C’è una regola base. Devi sempre apprezzare un lavoro approvato dal tuo account, anche se non assomiglia più a quello che avevi in mente.
– Ne prendo nota – affermo, sorridendo.
– Bene, adesso decidi la tua misura – mi dice, mostrandomi l’altra parete, su cui sono appesi piatti di tutte le dimensioni, ciascuno contrassegnato da un numero.
Sarei tentata dal numero sette, ma mi ci vorrebbero altri due stomaci a rimorchio.
– La due è perfetta.
– Per me la tre – aggiunge Remo.
Ci sediamo a un tavolo d’angolo e ci dedichiamo compulsivamente a spazzolare i grissini, scolandoci due birre medie, di cui, all’arrivo delle pizze, non è rimasto più nulla. Ne ordiniamo altre due.
Vorrei tanto conoscerlo meglio, ma dovrei fargli un’intervista che in questo momento m’intimidisce.
– Sempre senza ragazzo? – mi chiede, improvvisamente.
– Sempre. E tu sei sposato?
– Lo ero. Ma questo lavoro è come un buco nero che risucchia tutto. Alla fine non ti resta tempo neppure per dormire.
– Lo so, però qualche scampolo di tempo libero bisognerebbe ritagliarselo. La vita non può ridursi al solo lavoro.
– Chi ci riesce non sta lavorando come dovrebbe e non riuscirà mai ad ottenere quello che vuole.
– Già. È sicuramente così.
So per certo che è il boss che parla, in questo momento, non l’essere umano che una volta albergava in lui.
– Allora pensi che questo lavoro ti impegni troppo?
– No, no. Amo il mio lavoro. Non vorrei mai fare nient’altro nella vita – affermo con decisione.
– Allora ti confermo l’assunzione – mi annuncia.
– Davvero? E al mio art?
– Anche Luca è in gamba. Avete formato una bella coppia. Sono soltanto un po’ stupito che non siate entrati in competizione, come accade di solito. Ho la vaga sensazione che Luca si sia un po’ innamorato di te.
– Luca? No, me ne sarei accorta.
– Sei sicura di accorgertene sempre? A volte gli uomini non lo danno a vedere.
– Ma certo – confermo, con tutta la convinzione di cui sono capace.

Quando racconto a Betty che Remo mi ha confermato l’incarico, è più felice di me.
– E vai! Bisogna festeggiare.
– Con la coca cola ti va bene?
– Ma sì, basta il pensiero.
– Nella pizzeria dove mi ha portato stasera, c’era un pannello gigante con un’idea che gli ho dato io, quando siamo rimasti chiusi in ascensore.
– Davvero? Ti ha rubato l’idea?
– Lui me l’ha prospettata diversamente. Mi ha detto: questa è la tua prima campagna.
– Sì, voglio proprio vedere se l’ha detto al cliente, che era un’idea venuta fuori da una perfetta sconosciuta incontrata in ascensore.
– Certo che no. Ma non mi interessa. Quello che conta è che abbia apprezzato il mio input.
– Ti accontenti di poco.
– Beh, comunque avrebbe potuto non mostrarmelo mai.
– L’ha fatto per pararsi il culo. Sai che figura di merda se l’avessi scoperto per caso…
– Già, non hai tutti i torti.

Operazione di naming. Un tormento che ho sempre odiato, dare un nome ad un nuovo prodotto. È una pellicola che si attacca perfettamente ai piani cottura, impedendo che si sporchino mentre si cucina e, nonostante sia completamente trasparente come un velo di plastica, non brucia. Ommioddio, come cavolo lo possiamo battezzare? Sono qui da due ore a guardare i pesci del desktop che spariscono alla destra del video per riapparire dalla sinistra. Nonostante mi sia ormai autoipnotizzata, non mi è venuto in mente altro che pianbel, pulipian, splendorpian, traspian, ODIOPIAN.
– A che punto sei? – mi chiede Remo, facendomi sobbalzare.
– A buon punto, a buon punto, sto ritoccando alcune idee.
– Ti dispiacerebbe rendermene partecipe? – mi dice col suo tono più brusco.
– Splendorpian? – propongo, timidamente.
– Ti prego... – geme.
– Traspian?
– Ma dai!
– Pulipian?
– Vuoi scherzare?
– Odiospork? – lo provoco.
– Odiospork? Ma di che acidi ti fai? – mi urla.
– Pianbel! – esplodo, disperata.
– Pianbel... Pianbel non suona male – commenta a bassa voce, pensieroso, permettendo quasi al suo tono di velluto di far capolino.
– Cosa? Fa schifo! – mi oppongo.
– Pianbel suona benissimo – dissente Remo, decisamente, attaccandosi al cellulare col cliente.
Non ci posso credere. Al cliente piace Pianbel. È stato il primo che mi è venuto in mente e mi faceva vomitare. Sono stata qui a scervellarmi per due ore, tentando di fare la creativa temeraria, arrampicandomi sugli specchi, e loro si innamorano di pianbel? Questo lavoro non lo capirò mai.
Sto per uscire con Luca, alle sette, quando Remo mi blocca in corridoio.
– Andate da qualche parte? – mi chiede, con fare minaccioso.
Io e Luca ci guardiamo smarriti, per un istante.
– No – rispondiamo in coro.
– Allora vieni un attimo nel mio ufficio – mi ordina, congedando Luca, che si precipita verso l’ascensore, come temendo che possa cambiare idea, bloccando anche lui.
"Vigliacco!" gli urlo silenziosamente dentro di me, seguendo il capo, come se mi conducesse al macello.
Entrando nel suo ufficio, prego che si tratti di una cosa veloce e soprattutto indolore.
– Ottimo lavoro.
– Grazie – rispondo, sbalordita, perché è la prima volta in assoluto che gli sento dire una cosa del genere e per giunta, in questo caso, del tutto immeritata.
– Ti va di tornare alla pizzeria di Stanlio e Ollio?
– Certo! – rispondo, con entusiasmo.
– Davvero tu e Luca non stavate andando insieme da qualche parte?
– Davvero. Non ci frequentiamo, al di fuori dell’agenzia – preciso.
– Allora, andiamo. Mi sarebbe dispiaciuto rovinarti la serata.
– Al contrario. Sono contenta di uscire con te.
Lui mi guarda un po’ di fronte e un po’ di traverso, come indeciso tra due opzioni: lo sto prendendo in giro o gli sto leccando il culo? Dubbio amletico.
In realtà a me piace, mi ci trovo bene, anzi benissimo, soprattutto fuori di qui, quando torna a essere quasi umano.
Stasera ci facciamo due numero tre. Ho fame anch’io. Ma prima di tutto una birra. Sui grissini soprassiedo.
– Nessun ragazzo all’orizzonte? – mi chiede.
– Perché ti interessa tanto la mia vita sentimentale? – gli domando a mia volta.
– Così. Mi stupisce che una bella ragazza come te sia sola.
– Come fai a stupirtene, se sono in agenzia dalle dieci alle dodici ore al giorno? Dove lo troverei il tempo per andarmi a cercare un ragazzo? E poi, se anche lo trovassi, quando potrei vederlo? Quanto pensi che mi durerebbe? Lo sai che non si può avere una vita privata, con questo lavoro.
– Hai ragione – dice Remo, con la sua voce di velluto, ridendo.
– È per questo che di solito nascono storie solo all’interno delle agenzie. Per disperazione – aggiungo.
– Hai ragione, lo so – ammette ancora.
Remo mi racconta che, all’inizio della sua carriera, era indeciso se fare il copy o l’art e ha finito per farli, a turno, entrambi, finché non ci si è sentito stretto ed è passato a fare l’account. In seguito, maturata una bella dose di esperienza, ha ritenuto più congeniale mettersi in proprio, fondando l’attuale agenzia. È comunque uno che vuole avere l’ultima parola, anche se non sembra molto propenso a parlare, soprattutto di sé. Del suo matrimonio mi dice soltanto che la moglie se n’è andata, da otto anni, perché lui passava tutto il suo tempo in agenzia, ma non ci voleva certo un genio per capirlo. Le parole “ne ho sofferto come un cane” gli sono sfuggite suo malgrado, sottolineate da un gesto della mano sul viso, come a cancellare una lavagna, per impedirmi di leggervi la sua espressione sofferta. Dopo otto anni è ancora in queste condizioni? È un caso disperato. Forse l’ama ancora, tanto che non ha più cercato altre storie. La sindrome di Rebecca ha colpito ancora. Uomini che s’inchiodano al ricordo di una donna e lo tengono vivo come alibi per non vivere altre esperienze, mi risultano patetici, ma mi provocano l’irrefrenabile desiderio di aiutarli. I più furbi lo sanno e la usano come tecnica di conquista.
Poi inizia a parlarmi della sua vita, prima che si trasformasse in iena. Ha trentasette anni, provenienza da famiglia incasinata, genitori divorziati, fratelli divorziati, geneticamente inadatti ai rapporti di lunga durata. Rassegnato alla solitudine per osmosi familiare. La sua voce mi dà i brividi, quando pronuncia la parola “solitudine”, inducendo il mio sguardo ad addolcirsi. Vorrei poter compiere un miracolo per lui. Vorrei una bacchetta magica, per offrirgli una vita diversa. Il suo volto si indurisce all’improvviso.
– Cambia mestiere. Trovati un lavoro più umano – mi consiglia.
– Questo è il mestiere che ho sempre sognato. Non vorrei fare nient’altro, te l’ho già detto.
– Un giorno te ne pentirai.
– Quel giorno, cambierò – lo rassicuro.
– Ma sarà troppo tardi.
Io sospiro.
– Se la pensi così, perché tu lo fai ancora?
– Perché non vorrei fare nient’altro – ammette, facendo suo il mio slogan, e sorridendomi con uno sguardo pieno di calore.

 

Da ormai due mesi la pizzeria di Stanlio e Ollio è la nostra meta fissa del venerdì sera. Dovrebbe essere il saluto prima del week–end, ma ci capita spesso di ritrovarci in agenzia anche di sabato e una volta persino di domenica, per una scadenza che ci ha esauriti all’inverosimile. Odio le scadenze. Anzi, odio come trasforma la gente. Remo va in paranoia, mentre gli altri raggiungono, in crescendo, svariati vertici di parossismo, fino alla follia pura del direttore creativo, Marco Tiberi. Soprattutto quest’ultimo, raggiunge culmini di nevrastenia da immediato ricovero in strutture d’igiene mentale. Bisogna però ammettere che, gestendo diversi team, quando le scadenze cadono in concomitanza, ovviamente, gli si moltiplica lo stress. Ma è il genere d’uomo che senza stress non saprebbe vivere, l’ho capito subito. Quando si può lavorare tranquilli, lui cade in depressione. Si annoia. Remo invece no. Sa godere di quei meravigliosi quarti d’ora in cui nessun cliente lo tampina. Sa apprezzare la pace, soprattutto il venerdì sera, in pizzeria, con me. In una di queste occasioni, mi ha fatto una confidenza incredibile, forse perché si era già scolato la terza birra media. Mi ha raccontato che ai colloqui, ai quali io, quel fatidico giorno, ho rinunciato, c’erano candidati più referenziati di me, ma che lui mi ha preferita a tutti, perché quella notte mi ha sognata e quel sogno gli è sembrato premonitore. Di quale sogno si sia trattato, non mi ha specificato. – Questo non lo saprai mai. – mi ha assicurato, quando gliel’ho chiesto.  E affermerei che un lievissimo rossore si sia insinuato sulla sua pelle di cartavetrata, mentre me lo diceva. Ma è stata l’impressione di un istante, non potrei giurarci.

Luca è sotto sfratto e sta cercando disperatamente un tetto sotto cui andare a dormire. Non c’è niente di peggio che lavorare con un art che ha preoccupazioni personali. Lo perdi. Onde evitare che tutto il lavoro ricada sulle spalle del copy, quest’ultimo si decide a condividere i suoi problemi, sperando di risolverli più in fretta. Nel mio caso si risolve così:
– Betty, che ne diresti se dividessimo l’affitto con un altro?
– Sei impazzita? Qui siamo già strette. E poi chi sarebbe?
– È Luca, il mio art.
– È carino?
– Abbastanza.
– Etero?
– Sembrerebbe.
– Possiamo farlo dormire sul divano-letto del soggiorno.
– Sapevo che avresti trovato una soluzione.
Luca e Betty, art entrambi, si sono piaciuti subito. Ne ero convinta. Il nostro lavoro ne ha guadagnato. Adesso ho di nuovo un compagno.
Luca, come Betty e me, è un fuori-sede, nel senso che si è trasferito qui per gli studi e poi è rimasto per lavoro. Ha ventisette anni, viene da Roma, ma non gli è rimasto nemmeno un briciolo di accento romanesco: sembra uno che abbia studiato dizione.  Betty si è innamorata della sua aria svagata, del suo ciuffo viola e delle sue magliette con le immagini di films cult. Ne ha un’intera collezione. Canta sotto la doccia, dorme in boxer, non mangia carne, è fissato col jazz e ragiona per immagini. A parte quest’ultimo particolare, non hanno altro in comune, ma Betty si è presa una cotta colossale. Forse si completano a vicenda. Dev’essere così, perché il colpo di fulmine è stato reciproco. In conseguenza di ciò, l’espressione da ebete di Luca, non ha fatto che peggiorare. Se prima era solo un po’ distratto, adesso si è definitivamente perso tra le nuvole.
Betty invece mantiene il suo contatto con la terraferma, nonostante l’innamoramento le conferisca un’espressione più raddolcita e una forma di compassione umana che prima non le riconoscevo. È proprio vero: l’amore fa miracoli. L’unico neo è che vorrebbe anche lei i capelli viola. Spero che il suo parrucchiere glielo impedisca.

 

Luca è andato in amministrazione per informarli del suo cambio di indirizzo, mentre io sono alle prese con una brochure particolarmente odiosa. Quando torna ha una faccia strana.
– Che ti è successo? – gli chiedo.
– C’era il boss alle macchinette del caffè, quando sono arrivato da Alessio. Prima di andarsene è venuto a ficcare il naso in quello che stavo facendo. A quello lì non sfugge mai niente.
– Beh, è la sua agenzia. È giusto che sia sempre al corrente di tutto.
– Se lo dici tu.
– Beh, tu al suo posto, non lo faresti?
– Non potrei mai essere al suo posto. E tu, comunque, ti sei accorta che lo giustifichi sempre?
– Davvero? – mi stupisco.
– Sì, qualunque cosa faccia, per te va sempre bene.
– Non proprio sempre, Luca.

Ultimamente Remo mi ringhia addosso con più accanimento. Forse è colpa di un attacco di sciatica, che lo ha inoltre convinto a riprendere l’uso dell’ascensore. Sono finiti, così, i nostri incontri sul divano, che facevano tanto terapia psicanalitica e mi ha dato buca già due volte in pizzeria. Sciatica o no, Remo pare abbia messo una bella distanza tra noi. Che peccato. Sulla stessa traccia si può allineare la giornata odierna, durante la quale sono stati distrutti due interi giorni di lavoro e una decina di bozzetti, di cui almeno due veramente ben fatti. Il cliente ha osato manifestare la sua approvazione al riguardo, subito zittito da un Remo molto incazzato. Tutto da rifare. E in gran fretta. Temo che passeremo qui la notte.
Verso le dieci fa capolino il capo, chiedendoci a che punto siamo. Luca, stravolto, mi guarda, come per invitarmi a rispondere, perché lui non ne ha più la forza.
– Ci stiamo lavorando, capo – rispondo.
– Questo lo vedo. Ma a che punto siete?
– A un punto morto – osa commentare Luca. – Le idee migliori ce le hai già bocciate.
– Provate a pensare che si tratti di un nuovo cliente. Ricominciate tutto da capo.
– Ho capito – dico, sperando che ci lasci in pace.
– Non mi sembra – afferma con espressione bellicosa.
– Senti, io vado a mangiare, sennò svengo e non servo più a niente. Mi alzo dalla poltroncina girevole, di scatto. Adesso anch’io sono incazzata nera.
– Vi porto qualcosa? – chiedo, per educazione.
Remo sospira, come se avesse trattenuto il fiato per troppo tempo.
– Lascia perdere. Andate a casa. Sono sicuro che stasera non riuscite a combinare più niente – risponde lui.
– No, che non lascio perdere. Devo solo fornire un po’ di carburante a questo corpo di semplice carne – mi ostino, passandogli sotto il naso.
– Anita! – mi chiama.
– Che c’è?
– Portami un panino e una birra. E per te, Luca?
– Lo stesso e una coca.
– Va bene. Torno subito – dico, pensando che dopo tutto un briciolo di umanità gli sia rimasto, almeno nei riguardi del suo stomaco.

 

Alle sette del mattino Luca e io ci facciamo aprire dal portiere. Abbiamo dormito quattro ore, poi ne abbiamo discusso a casa, ragionando come ci ha suggerito il capo, pensando che si tratti di un nuovo cliente, e qualcosa è venuto fuori. Remo arriva alle nove e si affaccia alla nostra porta.
– Il portiere mi ha detto che siete arrivati all’alba.
– Spione – commento.
– Vi aspetto tra un’ora – ci minaccia.
– Saremo pronti – ribadisco, mentre una muta indignazione mi sale dentro.
Non riesco ancora a capire perché abbia rifiutato la scelta del cliente. Non è giusto. E inoltre, non ci ha nemmeno detto buongiorno. Veramente, neanche noi. È quello che si merita. 
Stavolta, la scena che si svolge in sala riunioni, è da ricordare. L’account-capo temporeggia davanti alle nuove proposte. Il cliente resta interdetto, poi s’imbizzarrisce e pretende di rivedere i bozzetti di ieri.
– Voglio questo – afferma, determinato, indicando quello dei due che io preferivo.
Remo tenta un’opposizione piuttosto blanda, poi finge di acconsentire senza convinzione, solo perché il cliente lo sta chiedendo.
Il committente è contento. Abbiamo finito di soffrire.
Ma io ormai lo conosco troppo bene, il capo. Anche a lui piaceva quella soluzione. Ne sono certa. Allora perché ha fatto tante storie? Perché?
– Secondo te, perché Remo ha fatto finta che non gli piacesse il rough che ha scelto il cliente? – chiedo a Luca, una volta a casa.
– Mah, ho come l’impressione che ce l’abbia su con noi – mi risponde, indeciso.
– Perché, che gli avete fatto? – interviene Betty.
– Niente, che io sappia – rispondo.
– Quello è pazzo, ve lo dico io – commenta Luca.
– Ma non è una condizione permanente. A volte torna quasi normale – tento di difenderlo.
– Davvero? E come mai non me ne sono mai accorto?
– Forse perché, in quelle occasioni, tu non eri presente… – insinua Betty.

È venerdì pomeriggio. Luca e io siamo davanti al distributore di caffè.
– Dove andate tu e Betty, stasera? – chiedo a Luca.
– Ci andiamo a vedere un film – mi risponde, stranamente titubante, lanciando uno sguardo oltre le mie spalle.
– Bene. Divertitevi – gli auguro, poi getto il bicchiere nel cestino, roteando su me stessa, per tornare in ufficio.
Ma una massa umana me lo impedisce. Mi ritrovo tra le braccia del capo, il cui passo silenzioso, come quello degli Apaches, non è percepibile al mio orecchio normodotato.
– Scusa – gli dico freddamente, districandomi dalle sue braccia e aggirandolo in tutta fretta.
– Non c’è di che – risponde, con voce innaturalmente dolce.
Alle sette Luca se ne va. Io mi trattengo ancora, per portarmi avanti su un lavoro che ho lasciato a metà. Poco dopo, il capo fa capolino nella stanza e mi guarda, senza parlare.
Io gli restituisco uno sguardo interrogativo, che dice chiaramente “Che diavolo vuoi?”
Lui entra e mi si para davanti.
– Hai programmi per stasera? – mi chiede.
– Come va la sciatica? – domando a mia volta, evitando di rispondere, perché non sono affari suoi.
– Guarita – ammette.
Bene. Una scusa in meno per il suo comportamento oltraggiosamente e gratuitamente aggressivo.
–  Mi fa piacere – commento, mentendo spudoratamente.
L’acuto dolore fisico è una delle cose che gli ho caldamente augurato negli ultimi giorni.
– Vieni a mangiarti una pizza da Stanlio e Ollio? – mi invita.
– No, grazie. Sono piuttosto stanca. Credo che andrò a dormire presto.
– Capisco. Allora, buona serata.
– Anche a te – rispondo, con la speranza che risulti invece assolutamente pessima.

 

Questa settimana è stata troppo tranquilla. Comincio a mettermi in allarme. Cosa sta succedendo? Sì, è vero, non ci sono state scadenze assillanti. Però comincio a pensarla come Tiberi, tutta questa calma mi annoia. Arrivo al venerdì che prego per un po’ di movimento, per qualche cazziata asciutta ed immotivata di Remo, per qualche diversivo, sia pur un banale incidente di percorso. Invece, calma piatta.
Esco dall’ufficio alle sette con Luca per tornarcene a casa. Lui prende l’ascensore, mentre io scendo a piedi. Davanti alla portineria troneggia Remo.
– Vieni a mangiarti una pizza con me? – mi chiede, mentre Luca mi sta aspettando davanti al portone.
– Ti ringrazio, ma ho una forte emicrania e… 
– …te ne vuoi andare a letto presto – completa lui.
– Appunto. Buon week-end – gli auguro, riprendendo a camminare verso l’uscita.
Lui mi afferra per un braccio, mi fa fare mezza piroetta e mi dice, guardandomi fisso negli occhi:
– Ce l’hai con me?
– No, perché dovrei?
Un copy non ce l’ha mai col suo capo. Lo odia e basta.
– Mi stai evitando.
– Io??? – ribatto, con l’espressione più stupita che riesco a trovare, pensando alla sua faccia di bronzo.
– Senti, io… – e si interrompe lì.
– Sì? – lo invito a proseguire, sfidandolo freddamente con lo sguardo.
– Niente – mi dice, abbassando la testa.
Con me non attacca.
– Allora ciao – gli dico, riprendendo la mia strada.
– Ciao – mi risponde, in ritardo, mentre sono quasi al portone.
– Che voleva il capo? – mi chiede Luca.
– E che ne so? – gli rispondo distrattamente.
Che voleva il capo? Farsi odiare un po’ meno? Riprendere un vago rapporto immotivatamente interrotto? Mostrare a qualcuno il suo volto umano? Beh, quel qualcuno non posso più essere io.

Incappo nel boss, mentre mi fumo una sigaretta nella camera a gas. Lui l’ha già accesa in corridoio, quando entra, dirigendosi subito verso la finestra. Guarda fuori con attenzione, come se cercasse qualcosa. Ma c’è solo il solito traffico, un cielo grigiastro non troppo piacevole da osservare, gli alberi striminziti ai bordi del parco e, in fondo, le chiome di un boschetto di tigli. Poi si volta verso di me e mi chiede:
– Luca ha una nuova ragazza, vero?
– Sì. Certo che t'interessi parecchio della vita sentimentale dei tuoi dipendenti – commento.
– Se i miei collaboratori hanno una vita felice, lavorano meglio. Sono contento per lui.
– Glielo riferirò – concludo, mentre spengo la sigaretta a metà, pur di allontanarmi in fretta da lui.
Mentre vado verso la porta, sento il suo sguardo fisso su di me.

 

Attenti a quello che desiderate, perché potrebbe anche avverarsi. Cinque giorni di pura follia. Giuro che non mi lamenterò mai più di una settimana di calma piatta. Nonostante l’agitazione frenetica e dilagante, il boss non mi ha urlato in faccia neppure una volta. Sono preoccupata. Abbiamo fatto le ore piccole quasi tutti i giorni, ma oggi, venerdì, possiamo andarcene alle otto. È relativamente presto. Mi accontento.
Quando arrivo alle scale, trovo Remo seduto sul divano.
– Vieni a mangiarti una pizza con me? – mi chiede.
Sta diventando una forma di fissazione psicotica? Cosa posso inventarmi stavolta? Vuoto pneumatico. Ho perso la mia elasticità mentale. Questo lavoro mi sta logorando.
– Tempo scaduto. Chi tace acconsente – afferma, pronunciando uno dei proverbi che odio di più al mondo.
In realtà mi ha preso per stanchezza. Annuisco con rassegnazione e mi avvio verso le scale, senza trovare la forza di replicare.
– Non è poi così male l’ascensore.
– No, grazie. Io vado a piedi. Mi aiuta a mantenere la linea.

Una volta in pizzeria, parla di lavoro, di colleghi, di clienti.
– E come va Luca con la nuova ragazza?
– Bene – rispondo, laconica.
– Mi fa piacere. La conosci?
– È la mia coinquilina. Era la mia art, quando ho fatto lo stage. Eravamo una coppia molto affiatata – gli spiego.
– Peccato che al momento non ci sia posto per lei.
– Senti Remo, che ne diresti di staccare la spina? Non si può parlare sempre di lavoro, colleghi e clienti.
– Hai ragione, scusa.
Spero che trovi altri argomenti di conversazione, più neutri, ma dev’essere una ricerca piuttosto complicata, perché cala un penoso silenzio.
– E tu, hai trovato qualcuno? – mi chiede, dopo un po’.
Preferivo che parlasse di lavoro.
– No, sono single a oltranza – rispondo, stizzita.
– Meglio così, rendi di più sul lavoro – commenta, bastardamente.
A questo punto, mi faccio un punto d’onore di trovare al più presto un uomo, di qualunque età, razza, religione, condizione sociale, appartenenza politica. La prossima volta gli dirò “Sì, ce l’ho un ragazzo.” E gli parlerò di lui per tutta la serata, così non mi stresserà più.
– E tu, quando te la trovi una donna? – gli chiedo, immaginando che, se comincio anch’io con questa solfa, si renda conto di quanto possa essere scocciante.
– E chi vuoi che mi sopporti?
– Se mostrassi il tuo lato migliore, non sarebbe difficile – affermo, senza capire nemmeno io tanto bene cosa stia blaterando.
– Forse ci vuole troppa energia.
– Al contrario, bisognerebbe che imparassi a rilassarti.
Remo sospira. Mi guarda negli occhi e mi sorride.
– Tu l’hai mai visto un lato migliore, in me? – mi chiede, con una buona dose di autoironia.
– Quando sei fuori dall’agenzia e riesci a non rimanerci attaccato con la mente, può anche succedere. Sono rari guizzi, ma l’ho visto accadere.
– Sei l’unica che li vede, a quanto pare – commenta, con la sua più esemplare voce di velluto e uno sguardo tra il perplesso e il malinconico.

 

Qualche giorno prima di Natale, andiamo tutti a festeggiare al ristorante. È la classica cena aziendale in cui ciascuno porta qualcuno. Io riesco solo a chiedermi cosa ci sia da festeggiare.
Remo ed io siamo gli unici che non porteranno nessuno e siamo anche gli ultimi a lasciare l’agenzia. Davanti all’ascensore, lui mi afferra per un braccio e mi costringe con la forza ad entrare nell’odiata cabina.
– Ce la puoi fare. Se ci sono riuscito io, puoi riuscirci anche tu – mi dice, quasi dolcemente, vicino a un orecchio.
Poi pigia il pulsante del pianoterra, e mi tiene stretta, continuando a parlare a vanvera, come si fa con un pazzo nel bel mezzo di un attacco furioso.
Io lo guardo. Lui sostiene il mio sguardo, ammutolendo di colpo. Stiamo giocando a chi abbassa gli occhi per primo?
Il movimento dell’ascensore mi provoca un vuoto allo stomaco. O è solo fame? O è solo che mi trovo abbracciata al mio boss, dentro l’ascensore dove l’ho conosciuto, continuando a fissarlo negli occhi?
La cabina si ferma. Le porte si aprono. Lui mi lascia andare.
– Hai visto? Non è stato difficile – mi dice, con voce malferma.
– Neanche tanto facile – rispondo, leggermente stordita.

Oggi pago i postumi di una sonora sbronza. Nel mio cervello si aggira una fitta nebbia, in volute eleganti ma dense. Ricordo vagamente un sogno che ho fatto stanotte, in cui Remo, dopo la cena, mi riaccompagna a casa e mi saluta con un vero bacio appassionato, uno di quelli da filmone romantico. È decisamente un sogno da ubriachi. Arrivo in cucina come una zombi, trovandoci Betty e Luca che stanno facendo colazione e che mi dicono in coro buongiorno.
– B.ng.n – farfuglio in sbronzese.
Mi tendono un tazzone di caffè. Ne ho proprio bisogno.
– Cosa è successo ieri sera? – chiedo, quando riacquisto l’uso della favella.
– Hai bevuto troppo – sintetizza Betty.
– Questo lo so. Mi avete riportato a casa voi, vero?
– No, è stato il capo – mi informa Luca.
– Perché?
– Ha insistito tanto, con una faccia da boss a cui è inutile dire di no.
– Capisco.
In realtà, capisco soltanto che ci potrebbe essere la remota e indecifrabile possibilità che il sogno che ho sognato non fosse proprio un sogno, ma non ho nessuna voglia di approfondire, adesso. Anche se, per un attimo, nel regno indistinto tra sonno e veglia, prima di riaprire gli occhi poco fa, sono stata abbracciata dalla sensazione di vivere il preludio a una supposta felicità. Purtroppo la felicità ha la deprimente tendenza a trasformarsi in mera illusione, e quanto alla supposta, saprei già dove ficcarmela.

 

A ogni inizio di anno mi impongo un compito da eseguire nel corso dei dodici mesi che ho davanti. Non so bene perché lo faccia, ma so che trovo masochisticamente deprimente, a fine anno, constatare come mi riesca facile non portarlo a termine o dimenticarmene strada facendo. Per quest’anno ho deciso di vivere coi piedi ben piantati per terra. Ne sento l’urgente necessità, dopo che Betty e Luca mi hanno annunciato di voler convolare a giuste nozze. Il mio primo pensiero è stato che il loro fornitore li avesse fregati con roba tagliata male. Il secondo, che si fossero fatti contagiare dalla follia dilagante in agenzia. Il terzo, che qualche adepto di una delle enigmatiche sette in circolazione li avesse convinti dell’esistenza di un mondo in cui possano esistere progetti di vita, e in tal caso costui meriterebbe il patibolo. Cos’è oggi un progetto di vita? Un sogno a occhi aperti da cui la razionalità è stata cacciata fuori a pedate nel culo e che si rifiuta di prendere in considerazione tre fondamentali punti chiave: il precariato, la crisi degli affitti e l’insostenibile leggerezza dei rapporti umani.

Nonostante il mio sogno ai confini della realtà, in agenzia nulla è cambiato, se non in peggio. Come per un’estrema punizione, ci sono state affidate le brochure di hotels e centri benessere dove sicuramente non andremo mai. Ma chi è che legge le brochure? Di solito si utilizzano come segnalibri. Ci è stato consigliato caldamente di mantenerci nella più piatta mediocrità. Certo, dev’essere dura vivere senza talento, ma dover dimenticare di possederne, per mantenersi un lavoro, è ancora peggio. D’altra parte, in un paese che premia la mediocrità, bisogna adattarsi. Io ci sto provando.
Remo deve avere qualche problema, perché ultimamente accetta i nostri lavori senza le abituali mortificanti critiche. Poco fa, davanti ad un cliente, era persino distratto, tanto che quello ha approvato il nostro bozzetto per un annuncio sul giornale, mentre Remo non ha battuto ciglio, dimenticando di farci apportare le solite dovute modifiche. A memoria di agenzia, un simile evento non si era mai verificato ed è giunto talmente inaspettato che la segretaria gli ha chiesto se aveva mal di testa, offrendosi di portargli un’aspirina.
Quando siamo tornati in ufficio Luca ha commentato:
– Il capo è strano.
– Se te ne sei accorto anche tu, allora non possono esserci dubbi.
– Che vuoi dire?
– Voglio dire che da un po’ di tempo a questa parte sei molto distratto e non noti niente di quello che ti accade intorno.
– È perché sono innamorato – si giustifica, sorridendo, con una faccia da ebete.
– Vabbè, ho capito – passo e chiudo.

 

A casa, Betty mi mostra un libro che ha trovato su una bancarella dell’usato. S’intitola Nomi & Nomi.
– Siete già alla scelta del nome per l’erede? – le chiedo allibita.
– No, che c’entra? Mi incuriosiva e l’ho preso. Senti cosa dice di quelli che si chiamano Remo. Introverso fino al narcisismo, inquieto, teso, ha grandi difficoltà nel comunicare con gli altri. Preferisce indossare delle maschere che non gli si adattano mai bene. Non sappiamo mai, pertanto, con che uomo stiamo parlando, sebbene intuiamo che di fronte a noi vi è un falso. Remo è dotato di una straordinaria generosità che lo affranca, a tratti, dalla schiavitù dei vincoli che si pone. Che te ne pare?
– Potrebbe esserci un bel fondo di verità.
– Avete fatto pace?
– Non abbiamo mica litigato. Gli girava male, tutto qua. Forse era la sciatica, ma adesso che gli è passata, sembra che si sia ripreso, perlomeno con me.
– E a che punto sei del tuo innamoramento?
– Ma perché ti sei fissata con questa convinzione? – le dico, piuttosto scocciata.
– Ma possibile che non te ne renda conto? Sei cotta di lui. È evidente.
– A te forse parrà evidente, ma a me no.
– Lasciati andare, Anita. Capisco perfettamente che non è un tipo facile, ma credo che ti piacciano le sfide e questa è decisamente bella grossa. Luca dice che in riunione, anche se ci sono dieci persone, Remo guarda solo te. E che se ne sia accorto uno come Luca, che ha sempre la testa tra le nuvole, mi fa pensare che ormai lo sappiano anche i mobili dell’ufficio. Remo si è innamorato di te.
– Il nostro è un rapporto di amicizia. Il fatto che usciamo insieme non significa obbligatoriamente che ci sia sotto dell’altro. A me piace, è vero, ci sto bene insieme, ma siamo comunque molto distanti, non so come spiegarti.
– Eppure io resto convinta che siate solo ai preliminari.
– Pensala come vuoi, se ti fa piacere, tanto non mi cambia nulla  – commento, più freddamente di quanto sia mia intenzione.

Alle sette di venerdì, Remo mi raggiunge nella mia valle di lacrime e mi propone di mollare tutto per andarci a mangiare una pizza. Mi domando quand’è che lo hanno clonato e come mai, fino ad oggi, nessuno se ne sia accorto.
Accetto immediatamente, senza farmelo ripetere. Il capo ha sempre ragione. In questo caso, mollare tutto non è una scelta, ma una conseguenza, che io accolgo controvoglia e con un profondo senso di colpa. Ovviamente, scherzo.
Luca lo guarda in modo strano, ma per fortuna è abbastanza discreto da tacere. Non vorrei che il boss ci ripensasse.
– Ti dispiace se passo prima in lavanderia? – mi domanda  Remo, mentre entriamo in macchina.
– Naturalmente no – rispondo. Lo hanno clonato davvero.
Accende la radio e canticchia sottovoce un pezzo dei Nickelback. Dieci minuti di silenzio mi convincono che non si ricordi più che sono in macchina con lui. Non so perché, trovo la cosa divertente. Anch’io non devo essere troppo normale. In tempi non sospetti, me ne sarei imbarazzata moltissimo.
Giunti alla lavanderia, scende dall’auto senza dirmi neppure di aspettare. Ma io aspetto lo stesso. Dopo due minuti si presenta con mezzo armadio di roba stipata in due enormi sacchi di plastica celestina.
– Passiamo un’attimo da casa. Ti dispiace? – mi chiede, forse ricordandosi improvvisamente della mia presenza.
– Naturalmente no – ripeto.
Una volta sotto casa sua, non posso esimermi dall’offrirmi di aiutarlo.
– Grazie – mi dice, appioppandomi un sacco di venti chili, che non so da che parte afferrare.
Ma lui è già arrivato al portone.
Per fortuna c’è l’ascensore. Sì, per fortuna. A piedi non ce la farei mai.  Del resto, il mio problema con gli ascensori  non  è generico, ma si riferisce specificatamente a quello dell’agenzia.
Entrati nel suo appartamento, afferra il mio sacco e mi dice di sedermi, mentre lui sparisce da qualche parte. Io mi guardo intorno nel soggiorno pieno di libri, di cd e dvd. Quando troverà il tempo per tutti questi passatempi? Io non riesco più nemmeno a guardarmi un film.
Dopo un po’, riappare.
– Vuoi una coca? – mi dice.
– Non disturbarti.
– Dai, non fare complimenti. Preferisci una birra?
– Per quella, aspetto la pizza.
– E se ce la facessimo portare qui?
Io lo guardo un attimo spaesata. Qui? Io e te da soli a casa tua a mangiare una pizza da asporto?
– Perché no?
– Telefono subito. Come la vuoi?
Guardiamo un film, in attesa della pizza, come due vecchi amici che non hanno più nulla da dirsi, limitandosi a passare insieme il tempo. È molto rilassante. Arriva la pizza. Ci beviamo sopra due birre. Quando il film finisce, cominciamo a discuterlo, analizzarlo, criticarlo, riscriverlo, rigirarlo. Alla fine abbiamo dato vita a un nuovo film che nessuno girerà mai, ma è stato divertente.
– Si è fatto tardi – commento.
– Hai un intero week-end per dormire.
– Non ci avevo pensato.
– Che progetti hai?
– Progetti? Guarda che questo termine l'hanno abolito tempo fa.
– Programmi ti piace di più?
– Ma è un sinonimo!
– Ti va di venire al mare con me? – taglia corto.
– Al mare in gennaio? – mi stupisco.
– Mi manca, il mare. Ho bisogno di andarlo a vedere, ogni tanto, anche in pieno inverno. Ti va di venirci con me?
– Sì – rispondo, moderando al minimo il mio entusiasmo, memore degli sguardi che mi lancia quando me lo lascio sfuggire.
– Allora ti accompagno a casa. Ti vengo a prendere alle nove. È un orario decente, per te?
– Più che decente – concordo.
– Bene.
Mentre facciamo il percorso inverso, in macchina, mi parla di altri film che ha visto ultimamente e che gli piacerebbe rivedere con me. Credo di intuire il suo desiderio che questa serata si ripeta, senza la scusa della lavanderia. Ma non lo dice direttamente, ci gira semplicemente intorno. Io mi limito ad approvare. Stiamo giocando a nascondino?
Al momento di salutarmi, sotto casa, lo vedo leggermente imbarazzato, così decido di semplificargli la vita, allontanandomi velocemente. A domani, boss.
Luca e Betty sono ancora in soggiorno, con la tele accesa. Da quando hanno piazzato un altro letto nella camera di Betty, per farsi un bel matrimoniale, il soggiorno è ritornato alle sue funzioni originarie.
– Domani vado al mare con il capo – annuncio.
Entrambi mi fissano con l’identica espressione perplessa.
– Al mare? Col capo? E che ci andate a fare? – mi chiede Betty.
– Una gita.
– Ma allora è vero che c’è del tenero tra voi! – commenta la mia amica.
– No. Siamo solo amici.
– Sì, un’amicizia di genere trombesco? – chiede Luca.
– Primo, non ti ho autorizzato a farti gli affari miei. Secondo, siamo solo amici.
– Anita, dimmi la verità, ti sei presa una scuffia per lui?
– Non insistere, Betty. Ti ho già detto di no.
– Ma lui se l’è presa per te – afferma Luca, con convinzione.
– Cosa te lo fa pensare?
– Si vede lontano un miglio.
– Non dire stronzate – lo stronco.

 

Mare d’inverno, come la canzone, ma in una giornata talmente limpida che il sole riesce persino a scaldarci. Una sorta di miracolo nel miracolo, Remo ed io seduti tranquillamente su una panchina del lungomare di Alassio, come due pensionati con nulla da fare al mondo, tranne che guardarsi intorno e godersi la pace e la vista inebriante del mare. C’è del feeling, tra noi. Riusciamo a tacere sentendoci uniti in qualcosa che non ha bisogno di tanti discorsi. Considerando che il nostro mestiere sono le parole, ci stiamo prendendo una bella vacanza. Passeggiamo con calma verso un ristorante che conosce, passando vicino agli stabilimenti sbarrati e imbevendoci di quest’atmosfera da chiuso per fuori stagione. All’improvviso mi passa per la mente l’idea che questo sia, per entrambi, esattamente il momento giusto per essere qui. Con un sesto senso di cui non conoscevo l’esistenza, o per effetto della telepatia, probabilmente acuita dal silenzio, Remo commenta:
– Questo è il momento giusto per godere della pace che ci può dare il mare, in inverno, quando non c’è nessuno, perché tutti se ne stanno altrove.
– Non ti facevo tanto amante della pace e della tranquillità.
– Perché no? È l’esatto opposto della vita frenetica e invasata a cui siamo costretti ogni giorno.
– Hai ragione, è proprio così – concordo.
Dopo mangiato, continuiamo la nostra passeggiata con l’aria di una vecchia coppia che gode della reciproca compagnia, senza farsi problemi di dire qualcosa a tutti i costi. Il nostro silenzio non è di quelli opprimenti o imbarazzanti, ma piuttosto una scelta che si manifesta nella libertà di tacere volontariamente. Lo trovo molto rilassante.
– Potremmo restare qui stanotte, e rientrare domani sera. Che ne dici? – mi propone Remo, all’improvviso.
– Per me va bene – rispondo, sempre più convinta di aver contratto una grave malattia mentale, di quelle così subdole che quando te ne accorgi è troppo tardi per curarle.
– Speriamo di trovare un albergo aperto – mi dice, quasi stupito, sorridendo.
Non si aspettava che accettassi? Veramente, neanch’io.

Camere separate. Cena a base di ostriche, tagliolini al salmone e spigola. Questo intero week-end va ascritto a titolo di rimborso spese, con la mia più completa e assoluta gratitudine. Remo sa benissimo che riesco a malapena a pagarmi l’affitto.
Al momento di darci la buonanotte, il mio boss mi saluta con un lieve bacio su una guancia. Me la sento bruciare per buoni tre minuti, come se vi avesse posato un tizzone ardente. Perché sono così idiota? Devo, a più riprese, ricordarmi il mio proposito dell’anno: resta con i piedi per terra.
Mentre mi rigiro nel letto, rifiuto pensieri che sfrecciano come saette attraverso la mia mente. Che amicizia è la nostra? Cosa si aspetta da me? Cosa mi aspetto da lui? Perché siamo qui? E altri analoghi, che non fanno in tempo ad attraversarla, che io li ho già fiondati via. Non voglio pensarci. Non voglio saperlo. Non mi pongo domande.

 

Oggi il mare è più agitato, si è alzato un vento fastidioso che solleva mulinelli di sabbia sulla spiaggia. Il cielo si è rannuvolato e fa piuttosto freddo. Ci andiamo a riparare in un bar, poi in un altro, poi in un ristorante. Dopo mangiato decidiamo di tornarcene a casa. Il nostro idillio col mare è finito. In macchina canticchiamo le canzoni di Battisti, poi quelle dei Dik-Dik. Mi chiedo da dove abbia riesumato queste antichità, però piacciono anche a me. Ridiamo. Ci fermiamo a un autogrill a prendere un caffè. Attraversando l’intero store, per raggiungere l’uscita, Remo si ferma davanti a una montagna di peluche e me ne regala uno: è un riccio, col musetto simpatico. Torniamo in macchina. Parliamo delle vacanze, dei pochi viaggi che ho fatto all’estero, di quelli che ha fatto lui. Arriviamo sotto casa mia. Già mi dispiace che sia finita. Forse dispiace anche a lui, perché, prima che apra la portiera per uscire, mi propone di andarci a mangiare una pizza. E io gli rispondo di sì. Riparte a razzo, temendo forse che possa pentirmene. In pizzeria continua la nostra conversazione, in maniera leggera e divertente. Ma alle dieci pretendo che mi riaccompagni a casa. Domani si torna in agenzia. Sotto casa, prima di uscire in fretta dalla macchina, lo saluto con un bacio sulla guancia. Mi auguro che gli faccia lo stesso effetto che il suo ha fatto a me. Bruciante. E che non sia in grado di trovare un estintore.
– Gita lunga – commenta Betty, appena rimetto piede in casa.
– Si stava così bene che abbiamo deciso di restare.
– E com’è andata? – mi domanda Luca, con espressione maliziosa.
– Non come pensi tu.
– Ancora niente? Ma che aspetta?
– Piantala, Luca. Mi dai sui nervi.
– Se è così, allora dev’essere vero. Sono amici e basta – gli dice Betty, con l’espressione di una che finalmente ha capito di essersi sbagliata, ma comunque è dispiaciuta per la sua amica.

Stamattina ho deciso di dare un calcio alle mie stupide fobie. Chiamo l’ascensore e aspetto che le porte si aprano, salgo a bordo e vedo Remo correre verso di me, attraverso l’atrio.
– Ciao, Anita.
– Ciao, Remo – gli rispondo, schiacciando il pulsante del decimo piano.
Remo mi sorride. Io faccio altrettanto.
– Ti va di vedere un film con me, stasera? – mi domanda.
– Volentieri.
Nei suoi occhi si muove qualcosa, sul suo volto di cartavetrata passa una specie di fremito. All’improvviso si china su di me e mi bacia. Questo assomiglia decisamente al bacio del mio sogno da ubriaca.
L’ascensore si ferma, ma lui schiaccia un pulsante a caso, mentre le nostre labbra non vogliono saperne di staccarsi. Quando finalmente ci riusciamo, siamo al settimo. Io schiaccio di nuovo il decimo, senza fiatare. Ci guardiamo. Lui mi fissa come se volesse dire qualcosa, ma non trova le parole. Per due che fanno il nostro mestiere, questa defaillance è davvero sconcertante. Arriviamo all’agenzia con l’espressione peculiare dei sonnambuli. Davanti al distributore del caffè, ci fermiamo.
– Anita, io…
– Remo…
Un grandioso dialogo ricco di significati reconditi. Intanto arriva qualcuno a interrompere la nostra già scarsa concentrazione. Le parole ci sfuggono e fuggiamo anche noi, ciascuno verso il tranquillizzante rifugio del proprio ufficio.
Ecco, è successo. Adesso che ne sarà del mio proposito di restare con i piedi per terra? Prelevo il mio riccio-peluche dallo zainetto e lo piazzo tra la tastiera e il video del mio PC. Questo è il posto che si merita. Devo concentrarmi sul lavoro, devo riprendere in mano la situazione. Luca arriva proprio mentre mi sto chiedendo come farò a trovare la concentrazione giusta. So già che neppure lui può essermi di alcun aiuto.
Poi arriva Tiberi e subito l’atmosfera cambia. Lui sì, che ci sa fare. Non vedo il capo per tutto il giorno. Ho quasi l’impressione che mi stia evitando.
Alle sette abbiamo concluso e decidiamo di andarcene. Vorrei andare da Remo e dirgli che ho finito, ma è una cosa che non ho mai fatto. Mi viene in mente che posso mandargli un messaggino.
Lui mi risponde “aspettami, arrivo”.
Saluto Luca e gli dico di andare pure a casa.
– Che devi fare, ancora? – mi chiede, ingenuamente.
– Niente. Non preoccuparti, vado a cena fuori.
– Capisco. Ci si vede – mi saluta, facendomi l’occhietto.
– Sì, ci si vede – forse.
Subito dopo, Remo si affaccia alla mia porta. Siamo rimasti solo noi.
– Andiamo? – mi chiede, con un sorriso.
– Ottima idea.
Sull’ascensore mi abbranca e ricomincia a baciarmi. Ho la vaga sensazione che stasera non vedremo nessun film.
Poi mi porta a casa sua, senza fiatare. Questo rapporto è fermamente carente di comunicazione verbale, ma esasperatamente eccitante.
Una volta chiusa la porta, ricomincia a baciarmi. Lo sapevo che sarebbe andata così, in fondo ci sono venuta apposta.
– Anita…
– Remo…
A quanto pare, gli ormoni impazziti creano uno scollegamento neuronale nel lobo preposto alla formazione del linguaggio. Nessuno me ne aveva mai parlato. Se si tratta di una condizione permanente, siamo fregati.
Dopo i fuochi d’artificio, ci siamo fatti portare una pizza. Temo che continuare a nutrirmi di sola pizza, a lungo andare darà i suoi tragici effetti. Poi abbiamo iniziato a vedere un film, ma a metà ci siamo distratti. Restare vicini senza toccarci sta diventando molto problematico.
– Ti riporto a casa? – mi chiede a mezzanotte.
– Sì, grazie.
– O potresti dormire qui – mi propone.
– Potrei?
– Resta – mi invita, con uno sguardo al quale non posso negare nulla.
Poi mi bacia.
– La sera della cena aziendale, quando mi hai riaccompagnata a casa, mi hai baciata? – lo interrogo, per togliermi questo dubbio, una volta per tutte.
– Sì. Non ne eri sicura?
– Pensavo di averlo sognato. Ero ubriaca.
– È per questo che hai fatto finta di niente? E io che pensavo che te ne fossi pentita.
– Pentita di che?
– Ma non ricordi proprio niente?
– No – affermo, decisa.
– Allora quello che mi hai detto non era vero?
– Che cosa ti ho detto?
– Mi hai detto di esserti innamorata di me.
– Davvero ho fatto questo!? – esclamo, sbigottita.
– Sì, l’hai detto.
– Caspita!
Come avrò fatto a dirgli qualcosa che non so neppure adesso?
– E tu cosa mi hai risposto? – gli chiedo.
– Niente.
– Beh, te lo chiedo adesso.
– Anita… tu mi piaci molto... – mi dice, imbarazzato, senza nemmeno guardarmi negli occhi.
Sta mentendo? Nemmeno gli piaccio? Pensa che io sia il classico tipo da una botta e via?
– Capisco. Riaccompagnami a casa, adesso.
– Resta qui.
– No. Non ho portato lo spazzolino da denti.
– Ne ho uno nuovo.
– Riportami a casa.
– Resta qui.
Mi alzo dal divano, indosso il cappotto, la sciarpa, i guanti e il cappello, esattamente in quest’ordine, lo saluto ed esco richiudendomi la porta alle spalle.
Preferisco andare a piedi fino a casa, che restare con uno che mi dice “mi piaci molto.” Non ho tutta questa smania di sesso. Quando vorrò un bodycall, saprò cercarmelo da sola.
Sono anche fortunata, perché riesco a prendere l’ultimo autobus. Dal finestrino vedo l’auto di Remo, che è uscito a cercarmi, ma troppo tardi.
È troppo tardi per un sacco di cose.

 

Due di notte. Mi sveglia il cellulare. Con gli occhi ancora semichiusi e il cervello completamente atrofizzato, guardo il display illuminato, su cui appare il nome di Remo. Lo spengo e torno a dormire. Che godimento spegnere il cellulare. È un atto simbolico, dal significato molto chiaro. Lui capirà.

L’unica cosa che non ho considerato è che Remo, quale mio boss, possiede nelle sue mani il mio destino lavorativo.
Benché abbia troncato con lui il vago rapporto extra-agenzia, evitandolo con ogni possibile stratagemma, me lo ritrovo sui calli ogni giorno, con tutte le conseguenze del caso. Il mobbing di cui tutti si lamentano, personalmente, raggiunge vertici esasperanti. Non ce la faccio più. Probabilmente sta aspettando che mi licenzi, ma io non ho aspirazioni suicide. Se proprio ci tiene, dovrà farlo lui. Non sono una che si arrenda facilmente, so lottare fino in fondo, con le unghie e coi denti. Se poi, ogni tanto, mi ritrovo a piangere in bagno, sono solo affari miei.
La sua furia aggressiva nei miei confronti è direttamente proporzionale alla dolcezza che mi ha dimostrato nei pochi giorni in cui ci siamo frequentati come piùcheamiciquasialtro. A volte ho nostalgia di quell’uomo. Chissà dov’è finito? Chissà se è mai esistito? Adesso so perché Remo è solo. Si dedica al lavoro come via di fuga e vi riesce egregiamente, perché non si concede distrazioni. Uno così non si innamora mai. È questo il segreto del suo successo lavorativo.
Ma nella vita privata è e rimarrà sempre uno sfigato, intenzionalmente, consapevolmente e programmaticamente votato all’insuccesso. Contento lui! Fallire nella propria vita sentimentale è un diritto inalienabile.
Da parte mia, ho dovuto fare un bell’esame di coscienza, convincendomi che Betty aveva ragione. Sono decisamente innamorata di lui, e da molto più tempo di quanto mi piaccia pensare. Benché non volessi rifletterci, mi illudevo che anche lui nutrisse un qualche sentimento per me. Il motivo per cui mi sono tirata indietro, sta nella frase che Remo mi ha detto quella sera: “Tu mi piaci molto.” Questo avrebbe potuto bastarmi, se si fosse trattato di un rapporto puramente “trombesco”, come dice Luca, ma non può bastare quando si pretende la reciprocità dei sentimenti. Se sono innamorata, voglio essere amata. Averlo compreso con tanto ritardo, mi ha portato a commettere un sacco di errori che avrei potuto evitare. Ma ormai è troppo tardi. Evidentemente, anche il mio destino si compie nel fallimento. Eppure ci sono momenti in cui mi sembra di leggere nei suoi occhi un’ombra di disperazione. Perché si dispera? Mi infila in un tritacarne di improperi sfrenati e si dispera lui? E io che dovrei dire?
Ogni tanto, mentre naufrago in internet, guardo il mio riccio dal muso simpatico e lui mi ricambia con uno sguardo interrogativo. Sì, anch’io mi chiedo per quanto ancora resisterò, ma è troppo presto per arrendermi. Fino a domani, mi dico. Fino a domani, e un’altra settimana è passata, e un altro mese se n’è andato. Agli alcolisti anonimi insegnano a resistere un giorno alla volta. Ho fatto mia questa prerogativa. Oggi posso farcela, domani è un altro giorno e si vedrà.
Giorno dopo giorno, siamo arrivati a primavera.

 

E qui si apre il giallo del riccio. È sparito. L’ho cercato per due giorni, entrando con una scusa in tutti gli uffici, ma le mie ricerche sono rimaste miseramente infruttuose. Qualcuno deve averlo buttato nel cesso. Cosa se ne farebbero di un peluche, che a forza di essere palpato nei momenti di nervosismo, si è quasi completamente depilato? Poi mi sono arresa e sono passata alla più semplice delle soluzioni: la proliferazione dei ricci. Ne ho comprato un altro, che non è esattamente identico, ma me lo ricorda molto. Non so perché l’ho fatto. In fondo, me l’aveva regalato Remo. Avrei dovuto essere felice che qualcuno me lo avesse fatto sparire. Invece no, mi mancava. La cosa più stravagante è che nessuno ci ha badato, tranne il capo, che, vedendolo, ha trasalito. Ne sono certa, perché lo stavo guardando, proprio in quel momento. Darei mezzo stipendio per sapere cos’ha pensato, davanti a questa inusuale metamorfosi.

È il sette aprile. Con tutte le rogne che ho avuto il sette di ogni mese, negli ultimi tempi, mi è passata la fissazione di dire che è il mio giorno fortunato. Betty è l’unica che ne abbia gioito, anche se non ne comprendo il motivo. Ma, in questo momento, è sorta spontanea in me un’altra bislacca convinzione. Credo che il sette mi porti decisamente sfiga. Sarà che sono bloccata al settimo piano, su un ascensore su cui avevo giurato di non salire mai più. Sarà che sono seduta sulla moquette grigia, ignorandone la sporcizia e fissando ostinatamente lo sguardo sulle suole delle scarpe di Remo.  Sarà che da dieci minuti siamo qui senza pronunciare neppure una parola, tranne i primi ovvi e inevitabili improperi, che tralascio di descrivere. Giusto epilogo di una storia che poteva essere diversa, se solo io fossi diversa o se Remo fosse un essere umano.
All’improvviso sento un rumore strano, una specie di pigolio sordo. Vedo le scarpe di Remo tremare. Lo guardo in faccia, incuriosita. Sta ridendo. Ha iniziato in sordina, ma col passare dei secondi, il volume aumenta, trasformandosi in una vera e propria risata, piuttosto contagiosa. Rido anch’io. È liberatorio. Lo guardo e rido e più rido, più mi sento leggera. La situazione, in effetti, è sorprendentemente ridicola. Dopo un po’, per assenza di fiato, ci calmiamo. Il volto di cartavetrata resta sorridente.
– Ci risiamo, – dice – approfittane.
– In che senso?
– Sfogati. Dimmi tutto il peggio che pensi di me. Nessuno lo saprà mai, e ti giuro che non mi arrabbierò.
– A me invece piacerebbe di più sapere quello che tu pensi di te stesso. Confessati, tanto nessuno lo saprà mai.
Lui ci riflette sopra per qualche momento, poi prende fiato.
– Hai vinto. Sono stato un coglione.
– Prego?
– Quella sera che ti ho baciato sotto casa, tu non mi hai detto proprio niente. Eri troppo ubriaca e io, vigliaccamente, ne ho approfittato.
– Me l’ero immaginata – commento, guardandolo negli occhi, serenamente.
– Comunque, anche se adesso mi odi, sappi che non sono davvero uno stronzo irrecuperabile.
– E come pensi di recuperare?
– Dicendoti la verità.
– E cioè?
– Sono innamorato di te. Dalla prima volta che siamo rimasti bloccati in questo ascensore.
– E perché me lo dici solo adesso?
– Perché adesso so di essere al riparo. Ormai sei arrivata a odiarmi abbastanza, perché ti sia impossibile fare marcia indietro.
– Mi stupisce che tu conosca così poco le donne! – commento, avvicinandomi a lui.
Quando si riaprono le porte dell’ascensore, ci stiamo ancora baciando. Qualcuno tossicchia là fuori. Remo gli fa cenno con la mano di andarsene. La tosse aumenta d’intensità. Ci stacchiamo a fatica.
– Cos’è tutta questa fretta? – chiede Remo, esasperato.
– Signore, dovremmo fare una verifica sull’ascensore – gli spiega un tale, con espressione molto seria.
– Va bene. Ce ne andiamo – dice lui, portandomi fuori.
Scendiamo le scale ridacchiando e andiamo a prendere la sua macchina.
Sono a casa sua da due minuti, quando mi cade lo sguardo sul mio riccio spelacchiato, placidamente seduto in poltrona.
– Perché te lo sei ripreso? – gli chiedo, stupefatta e offesa.
– Ero convinto di farti un piacere. Non mi sarei mai aspettato che lo sostituissi con un sosia. Ti mancava tanto?
– Certo. Era mio, e poi me l'avevi regalato tu. Non avevi il diritto. Perché te lo sei ripreso?
– Perché era tuo. Ti basta, come spiegazione?
– Non credo.
Poi cambia argomento come se nulla fosse.
– Senti, volevo parlarti seriamente. Ti ho raccomandato a un mio amico che ha aperto un’altra agenzia, che ormai è ben avviata. Vorrei che andassi a lavorare da lui.
– Mi stai licenziando? – gli domando, sbigottita.
– Non posso più lavorare con te, Anita. Ogni volta che ci troviamo nella stessa stanza, non capisco più niente. Abbi pietà di me. Se continua così, rischio di far fallire l’agenzia.
– Non ti credo.
– È così. Devo separare la mia vita lavorativa da quella privata, se voglio salvare almeno una delle due.
– Ma tu non ce l’hai una vita privata – obietto.
– Questo dipende solo da te – mormora, lanciandomi uno sguardo al napalm.
– Che vuoi dire?
– Ti sto chiedendo di venire a vivere con me.
– Stai scherzando? – esclamo, ripensando a tutto quello che mi ha fatto passare negli ultimi tempi.
– No. E non sono né ubriaco, né fatto. Mi arrendo all’evidenza. Sono innamorato di te. Ho bisogno di te. Decidi in fretta, però, perché sto cominciando a sudare freddo. Forse sono sotto infarto.
– Decisamente inappropriato, come momento. Comunque sei fortunato: ti curo io. So fare la respirazione bocca a bocca.
Travolta da una tempesta ormonale, ho deciso di buttarmi in questa nuova eccitante avventura. La coppia iena-sadica/tigre-masochista potrebbe anche funzionare.
Ho volontariamente dimenticato tutto quello che è avvenuto dal 27 gennaio a oggi. In fondo, è stata soprattutto colpa mia. Se avessi voluto porre delle condizioni al nostro rapporto, avrei dovuto farlo prima di buttarmi tra le sue braccia. Un uomo ci prova. È la sua natura. Sta alla donna mettere paletti, mentre io non ne avevo piantati. Cosa pretendevo? 

 

Remo non scherzava, quando mi ha detto che non mi voleva più in agenzia. Leggermente delusa, ho almeno tentato un piccolo ricatto in favore di Betty, costringendo Remo a presentarci, all’agenzia del suo amico, come coppia copy-art già collaudata. Per fortuna ci hanno prese entrambe, con nostra grande soddisfazione. L’inesperienza di Betty sul campo, sarà coperta dalla mia poca esperienza alla RBP.
Roberto Manini, il grande capo della Light Progect, è un altro quarantenne rampante sempre sull’orlo di una crisi di nervi, rientrando pienamente nello standard “se non sei pazzo non fai questo mestiere”. Ha dalla sua il vantaggio dell’età, essendo riuscito, come Remo, a costruirsi un’agenzia tutta sua, prima dei sessant’anni. Il direttore creativo è una donna, tale Teresa Suzzani, che si impone più col suo carisma e le sue tette, che con le urlate isteriche, tipiche invece di Tiberi. Suppongo che ci troveremo bene. Naturalmente i lavori più ingrati e meno creativi (sempre che di creativi ne esistano ancora), ricadranno su di noi, povere junior alle prime armi, ma la gavetta è necessaria, nonché inevitabile. 

Naturalmente, anche quest’anno niente ferie. Sono destini pure questi. Comunque, l’agenzia resta chiusa per una settimana, a ferragosto, un regalo che dovrò recuperare per qualche sabato. Pazienza, ci sono abituata. Remo ha deciso di portarmi a Vulcano, full immersion in una natura addomesticata solo nei limiti del possibile. “Mare, amore e fantasia” sarà il sottotitolo della nostra prima vera vacanza insieme.
Remo dice che, nonostante in agenzia io gli manchi, lavora meglio senza avermi tra i piedi. Sono commossa al pensiero.
Mi sto trasferendo da lui un poco alla volta, come se mi fosse rimasto il timore che non si tratti di una storia vera e che all’improvviso possa dirmi “Anita, ho scherzato”. Un paio di volte alla settimana, vado a casa, riempio un borsone con un po’ di vestiti e lo porto da Remo. Ormai, però, c’è rimasto ben poco.  Lui non ha seguito questo strano trasloco rateale. Riesce a tornare a casa verso le otto, come se il lavoro in agenzia scarseggiasse, ma io so che non è così. Cuciniamo insieme, o mi porta fuori a cena, poi rientriamo in fretta e ce ne andiamo a letto. Il letto è il mobile più frequentato di questo appartamento, il luogo in cui la parte più umana di Remo riesce ad emergere totalmente, cancellando qualunque altra maschera abbia mai indossato. Ho scoperto un uomo appassionato, dolce, allegro, vitale e per nulla votato alla solitudine. Ciò che più mi riempie di gioia è che questo lato di lui rimanga nascosto a tutti gli altri. Forse sono egoista, oppure gelosa, o forse solo un po’ pazza, non so, ma di una cosa sono sicura: questo è esattamente l’uomo che amo.

 

Peccato che non si riesca a mettere i puntini sulle “i” del nostro rapporto. È un argomento tabù. Dei nostri sentimenti non si parla. Devono rimanere un segreto, tra me e me, tra lui e lui. Le parole taciute vengono sostituite da sguardi di fuoco, tenerezze, coccole e tutta una serie di piccole attenzioni che, comunque, mi fanno scoppiare il cuore e mi sciolgono tutta. Mi sento amata. Spero che anche per lui sia lo stesso.

Il sette di luglio, giorno del mio compleanno, Remo mi ha regalato un anello, per l’esattezza un piccolo solitario, quello che di solito si dona come anello di fidanzamento. Quando me l'ha messo al dito – anulare della mano sinistra – aveva uno sguardo malizioso, e un sorrisetto che tentava di nascondere.
– Potrei spacciarlo per un anello di fidanzamento – ho commentato, osservandolo.
– Sì, potresti – mi ha risposto, lasciandosi sfuggire un sorriso da bastardo.
Qualcosa mi ha impedito di fare una battuta ironica e pungente. E qualcos’altro ha impedito a lui di fare altrettanto. Chissà perché. Stiamo trattando il nostro rapporto come se fosse un oggetto molto fragile, delicato e prezioso, che non potrebbe sopportare scosse brutali. Vuol dire che non siamo certi dei nostri sentimenti? Abbiamo paura di perderci? Temiamo di soffrire? Cos’è tutta questa maniacale attenzione alle parole? La certezza che possiedano sempre il loro peso e che difficilmente si possano modificare, una volta pronunciate? In fondo, noi viviamo di parole.

 

Giornataccia. Si prospetta una nottata di lavoro. Betty chiama Luca per avvertirlo, mentre io chiamo Remo.
– Allora resto anch’io, ho un po’ di lavoro da smaltire – mi risponde – però ti passo a prendere. Fammi sapere quando avete finito.
– Va bene, capo.
– Non sono più il tuo capo – mi corregge.
– Scusa, non mi sembrava offensivo.
– Non mi sono offeso, volevo solo ricordartelo.
– D’accordo. A dopo. Ciao.
– Ciao, amore – mi saluta.
È la prima volta che mi chiama amore. Resto a gustarmelo per qualche secondo, poi mi guardo l’anello. Forse è tutto vero. Forse è giunta l’ora che me ne renda conto.
Betty mi guarda e mi dice:
– Allora? Hai finito di sognare? Qui c’è del lavoro che ti aspetta.
– Ci sono, ci sono, stavo solo riflettendo su questa campagna.
– Sì, infatti, te lo leggo negli occhi – afferma Betty, ironica.
Io sospiro.
– Anita, non lasciarti distrarre, sennò facciamo l’alba.
Da quando ho dovuto confessarle che aveva avuto ragione, nell’intuire che mi ero innamorata del boss, si permette, a volte, una certa espressione di superiorità.
A mezzanotte viene a prenderci Remo. Accompagniamo Betty e poi torniamo a casa.
– Giornata dura? – mi chiede.
– Non più di tante altre – minimizzo.
– Ma tu non ti lamenti mai? – mi domanda, incuriosito.
– Come potrei lamentarmi di un lavoro che amo?
– Adesso mi spiego… – mormora.
– Che cosa?
– Come hai fatto a sopportare per tanto tempo che io ti torturassi, senza rinfacciarmelo mai.
– E cioè, perché? – lo sfido.
– Perché mi ami.
– Non sospettavo che avessi tanto intuito – commento, ironica.
– Dimmelo almeno una volta, per favore – mi prega, mentre sul suo volto di cartavetrata passa una lieve espressione malinconica.
Io vado in apnea, poi in iperventilazione, ma alla fine cedo.
– Ti amo – mormoro.
– Era così difficile?
– No. È come prendere un ascensore.
– Vorrei che l’ascensore della nostra vita restasse bloccato per sempre al settimo piano – afferma Remo, sospirando.
– Ti amo – gli ripeto, saltandogli al collo, con un entusiasmo che non ho più alcun timore di mostrargli.

In quest’ultimo periodo il lavoro è stato faticoso, ma trascorrere tante ore in agenzia non ci è pesato, grazie a un perfetto impianto di aria condizionata. Fuori invece fa un caldo asfissiante.
È accaduta una cosa molto strana: Remo mi ha chiesto pareri telefonici, quasi ogni giorno, mentre, quando lavoravo con lui, se ne guardava bene. Stasera gliel’ho fatto notare e lui mi ha risposto:
– Lo facevo continuamente, ma in modo che non te ne accorgessi. Ti ho già detto che mi manchi tremendamente, in agenzia?
– Credo di sì, ma sei tu che hai voluto allontanarmi – ho ribattuto.
– Temo di aver commesso un errore macroscopico.
– Mi rivorresti indietro? 
Lui mi cova con uno sguardo rovente, poi decide:
– No. Meglio di no. 
Intanto, preparo le valigie. Domani, finalmente, si parte.

 

Siamo affacciati al davanzale della veranda di una casina bianca arroccata a metà della montagna, circondata da cespugli di capperi in fiore, timo, rosmarino, ginestre, e più a valle, alberi di limone, aranci e mandarini, lecci, fichi d’india, e un’intera distesa del fico degli ottentotti. Un eden dal quale allontanarci ci procurerà, già lo so, un dolore straziante.
Remo si muove trasognato, così rilassato che temo possa sciogliersi da un momento all’altro, trasformandosi in un blob.
E in mezzo a questa insostenibile bellezza quasi irreale, non fa che dirmi quanto sono bella.
Ieri sera, in un ristorante, il proprietario gli ha fatto i complimenti per la bella “moglie” e lui se li è tenuti con orgoglio, senza pensare neanche lontanamente di correggerlo.
Guardo il suo profilo che si staglia nel blu del mare e mi sento orgogliosa anch’io, perché mi ha scelta, perché mi ha voluta con sé e perché credo che sia l’uomo migliore del mondo.
Quest’isola è pazzesca. Non vorrei mai andarmene.
– Come faremo ad andarcene da qui? – mi dice Remo, a un tratto, dimostrandomi che la telepatia tra noi si fa sempre più innegabile.
– Non lo so. Forse dovremmo pagare qualcuno per farci rapire e trasferirci coattamente sulla terraferma, preferibilmente incappucciati.
Remo mi sorride.
Il rosso del cielo al tramonto si sfilaccia in nastri di giallo dorato, verde e arancione. Due barche a vela lasciano la scia in un mare che non è più solo blu, ma che riflette i colori del cielo. Mi sento il cuore oppresso da tanto splendore. Sarà che sono innamorata, ed è diventato tenero come il burro lasciato fuori dal frigorifero, sarà che la calda mano di Remo mi sta accarezzando la nuca, procurandomi un brivido lungo la schiena, sarà che mi sento all’interno di un sogno da cui non voglio assolutamente svegliarmi. 

Non abbiamo pianto, ma ci è mancato davvero poco. La settimana è volata e con essa si è esaurita la nostra incredibile tranquillità. Peccato. È stato bello. Racconto a Betty tutto quello che ricordo, mostrandole le foto, di cui si appropria per eventuali utilizzi professionali. Lei mi descrive la sua settimana dai futuri suoceri, a Roma, e di come la città eterna l’abbia affascinata. Finito lo scambio di news, riprecipitiamo nella routine lavorativa, senza neppure avere il tempo di una decompressione. Ma si sa, la vita è così.

 

E arriva Natale in un lampo. Che fine fa il tempo? Scivola via alla velocità di un fiume in piena, con fotogrammi velocissimi, alla stessa maniera dei primi film muti, in bianco e nero. Potrei farne un riassunto molto efficace: lavoro, lavoro, lavoro e, tutte le sere, teneramente Remo.
– Il tempo ha preso la rincorsa – gli dico, mentre lo guardo appendere una ghirlanda fuori dalla porta. – Perché lo fai?
– Per passare inosservato.
– Pensi di fare anche l’albero di Natale?
– Me ne guarderei bene. Io le odio queste feste.
– È strano, anch’io.
– Di solito sono costretto a passarle da mia madre o da mio padre, ma quest’anno voglio restare con te, qui, a casa nostra.
Quando dice “casa nostra” di solito provo un brivido, perché, dentro di me, mi ostino a considerarla casa sua.
– Per me va bene.
– Sicura che non ti dispiaccia non andare dai tuoi?
– No. Dirò che andiamo in montagna, così non si offenderanno.
– In montagna? Però, che bell’idea. Perché no?
– Ma tu odi la montagna.
– Odio sciare, ma andare a rinchiudersi al calduccio di una baita, non ha mai fatto male a nessuno.
– Sarà impossibile trovare posto, ormai. Sarà tutto prenotato.
– Non è detto – mi corregge lui, con lo sguardo fisso nel vuoto, tipico di quando sta progettando qualcosa.

Ci bastano tre giorni in mezzo alle montagne innevate, in un delizioso chalet affittato all’ultimo momento, per rilassarci e ritrovare la carica. Abbiamo viveri per un esercito e non abbiamo nemmeno messo il naso all’esterno. I cellulari non hanno campo e siamo tagliati fuori dal mondo. È magnifico.
Remo ha un sorriso pacato e indecifrabile. Mi abbraccia.
– Amore mio, – mi mormora tra i capelli – torna a lavorare con me.
– Davvero mi rivuoi con te in agenzia?
– Davvero. Mi manchi troppo.
– Però vengo con Betty. È lei la mia art.
– Non c’è problema. Ogni tuo desiderio è un ordine.
– Lo sai, vero, che dovrai ricominciare a cazziarmi come fai con tutti gli altri? Ce la farai?
– Se poi non ci portiamo il lavoro a casa, ce la farò.
– Per questo ci penso io. Sono brava a farti staccare la spina.
– Lo so. Ma tu sei proprio sicura di potermi sopportare sul lavoro? Non te ne pentirai?
– Ho sopportato tutto il possibile, con te. Non credo che potrà mai essere peggio di quello che mi hai già fatto passare.
– Perdonami.
– Ti ho già perdonato, no?
– Una volta ti ho sentita piangere, in bagno. Avrei voluto tirarmi un colpo.
– È stato il giorno in cui mi hai rapito il riccio, vero?
– Sì. Non sapevo più nemmeno cosa stavo facendo. Ero fuori di testa. Quella notte non sono riuscito a chiudere occhio. Il giorno dopo ho chiamato Roberto. Mi sembrava di aver superato il limite della sopportazione. Gli ho parlato di te per un’ora intera, finché lui ha capito che c’era qualcosa che non quadrava e mi ha detto “Senti, Remo, perché non te la sposi, invece di cacciarla via?”. Beh, aveva ragione. È questa la soluzione giusta. Non trovi?
Qualcuno ha detto che davanti a una prova, l’uomo non ha che tre scelte:
1) combattere
2) non fare niente
3) fuggire.
Io sono tentata da ciascuna di esse, nel medesimo tempo. Combattere le mie paure insensate per saltargli al collo, urlando “Sì, ti sposo!”.
Rimanere immobile come una statua di marmo, lasciando che la sua dichiarazione venga inghiottita dal silenzio, fingendo di non aver capito. E cambiare subito discorso.
Fuggire immediatamente, adducendo una scusa qualunque, per ritrovare intatta la mia libertà, anche col rischio di congelare in mezzo alla neve.
“Ma come?” mi potreste chiedere, “Non hai affermato di amarlo?”. Già. Ma l’amore non basta.
Mi torna alla mente quell’arguto detto popolare: il matrimonio è la tomba dell’amore. Mi chiedo se sono pronta a seppellirlo, questo amore ancora in fasce, che non ha neppure imparato a camminare sulle sue gambette storte. Mi fa tenerezza, ma al contempo mi incute un sacro terrore.
– Raccontami il tuo sogno, quello che ti ha fatto decidere di assumermi su due piedi – lo invito.
Remo è disorientato. Si aspettava un altro genere di risposta. Il suo volto di cartavetrata si colora lievemente di una calda tonalità rosata. Poi cede.
– Eravamo nell’ascensore che si era bloccato. Mi chiedevi dei miei viaggi. Ti ho parlato del mio desiderio di andare in Polinesia. Tu, allora, con un semplice gesto della mano, hai aperto le porte dell’ascensore, e ci siamo trovati là, su una spiaggia deserta di sabbia finissima, bianca. Mi hai preso per mano e mi hai portato sotto le palme. Mi hai abbracciato, mi hai baciato e poi mi hai detto “ti amo.” Come accade nei sogni, anche quelli più strani, mi sembrava la cosa più naturale del mondo e mi faceva stare bene, mi piaceva. Quell’idea non ha mai smesso di piacermi.
Nello spazio di tempo tra un respiro e l’altro, penso che adesso dovrei dire qualcosa, ma mi si è inceppato il cervello. Così lui riprende a parlare.
– Se non vuoi sposarmi non m’importa. A me basta che restiamo insieme.
La telepatia è la naturale conseguenza evolutiva di coloro che non possiedono capacità di parola. 
 
Polinesia, il sogno di Remo. Una miriade di isole incastonate nel blu dell’oceano, con mitiche lagune dagli infiniti toni di indaco, giada e turchese. Le vedete, dall’alto? Ora guardate Kaukura, quella a ferro di cavallo. Vedete due puntolini sulla spiaggia bianca, circondata dalle palme? Quelli siamo noi.