Ero appena arrivata alla libreria e stavo aprendo la porta a vetri, che già il telefono squillava. Mi precipitai all’interno, lanciando la borsa su una sedia e gettandomi sulla cornetta.
- Pronto. Libreria Pensieri e Parole.
- Ciao, Alba, sei in ritardo? Hai il fiatone. – mi apostrofò Sirio, ridacchiando.
- Ti ho risposto, no? Quindi non sono affatto in ritardo. Sono le nove in punto. – ribattei.

- Sì, sì, avanti, togliti il cappotto e mettiti comoda. Devo parlarti.

Mi chiesi se non avesse nascosto qualche telecamera in mezzo ai libri e mi venne spontaneo guardarmi intorno.
- Dimmi tutto, sono già comoda. – lo invitai, mentre mi sfilavo il cappotto, passando la cornetta da un orecchio all’altro, per non dargliela vinta.
- Senti, dall’ultimo inventario risulta che mancano all’appello una ventina di testi. Ho qui l’elenco. Te lo mando via e-mail. Dacci un’occhiata e vedi di individuare chi potrebbe essere il nostro roditore. Questa storia deve finire. Va bene? – disse Sirio, con intonazione decisamente seccata.
- Va bene. – acconsentii, accendendo il computer.
- Se questo tizio pensa di continuare così, siamo fottuti. E poi, a questo punto, sarà meglio che piazziamo un po’ di telecamere in giro. – propose.
- Sei sicuro che sia uno solo? – gli chiesi, perplessa.
- Leggi la lista. – mi ordinò.
Aprii la posta elettronica e il file che mi aveva mandato.
- Capisco, è monotematico. – rilevai, cominciando ad essere d’accordo con lui.
- Appunto. C’è anche un’altra cosa da fare subito. Spostiamo l’intero scaffale vicino alla cassa. –
- Questo posso farlo oggi stesso. – accettai, vedendo entrare Marco, tanto infagottato da sembrare l’omino della Michelin.
Sirio mi salutò, invitandomi a mettermi subito al lavoro.
- Agli ordini, capo. – gli dissi, chiudendo la comunicazione.
- Ciao, Marco. – salutai.
- Ciao, Alba. Era già il capo? Che voleva a quest’ora? – mi chiese, tirandosi via il berretto nero, che gli aveva ben schiacciato sul cranio la sua bella chioma rosso fuoco.
- Vai a sistemarti, prima. Se entra un cliente e ti vede così, si spaventa. – gli consigliai.
- Vado, vado. – mi rispose, riavviandosi i capelli con entrambe le mani.
Lavoravo per Sirio da dieci anni e gli affari erano andati sempre peggiorando, costringendo il titolare a fare a meno di altri due commessi. Era rimasto solo Marco, che, molto probabilmente, se le cose non fossero migliorate, rischiava di fare la stessa fine. Marco lo sapeva benissimo, e, per questo, si dava molto da fare. Purtroppo, la gente non leggeva più, e ben presto non ci sarebbe rimasto che chiudere. I furti, poi, non facevano che aggravare una situazione già intollerabile. Sirio possedeva un’altra libreria, in centro, e quella, per fortuna, riusciva a coprire il deficit della nostra. Ma Sirio aveva ragione: non poteva andare avanti così.
- Allora, che voleva il capo? – mi chiese Marco, avvicinandosi alla cassa, dopo avere assunto un aspetto decisamente più umano.
- Mancano venti volumi all’appello, tutti di astronomia. Bisogna scambiare i libri di quello scaffale con questi di storia. – gli riassunsi.
- Bene, comincio subito. Hai idea di chi possa essere stato?- mi chiese, perplesso.
- Una vaga idea ce l’avrei, ma non riesco a crederci. – gli risposi. – Devo indagare. 
Mi era tornato in mente il duca. Lo chiamavo così, dentro di me, per il suo aplomb, la sua distinzione, il suo aspetto aristocratico, la sua eleganza. Era un cliente fisso, che ci onorava della sua visita almeno un paio di volte alla settimana. Insomma, era l’unico di cui mi ricordassi, che sostava spesso davanti a quello scaffale, ma era anche l’unico che ritenessi incapace di rubare.
A metà mattina, Marco aveva completato lo scambio, io avevo fatto cassa una decina di volte e Sirio aveva già richiamato per sapere come stava andando.
Marco mi sparò in faccia il suo sguardo verde oliva per dirmi:
- Che ne pensi di spostare tutto? –
- Cosa? – gli chiesi, pensando che fosse impazzito.
- Lo fanno al supermercato, continuamente. Pare che la gente, una volta memorizzato il posto dove può trovare gli articoli che lo interessano, non veda più nient’altro. Invece, spostandoli, li costringono a cercarli, e dunque a vedere anche il resto. Così, magari, si accorgono di qualcosa di cui potrebbero avere bisogno, pur esulando dai loro soliti acquisti. Capisci? Noi potremmo fare lo stesso.
- Marco, sei un genio. – dovetti ammettere.
Mi attaccai subito al telefono e riferii a Sirio l’idea di Marco. Sirio fu entusiasta e disse che avrebbe adottato la stessa idea anche da lui. Potevamo metterci all’opera.

 

        Il quartiere residenziale in cui abitavo, ormai da un decennio, era piuttosto tranquillo. Lungo il viale alberato c’era una lunga ed ininterrotta parata di negozi, bar e ristoranti, tra cui il nostro preferito, “Il Faro Blu”, a metà strada tra il mio appartamento e la libreria.
Non avevo molti svaghi, solo i libri, i film e la musica. Per il tempo libero che riuscivo a ritagliarmi, erano più che sufficienti. Un televisore al plasma 32 pollici, piazzato di fronte al mio divano, mi permetteva di guardare i miei film preferiti senza alcuna nostalgia per i cinema multisala, ormai dislocati tutti fuori città. Un noleggio video a pochi passi dalla libreria, mi forniva materiale sempre nuovo. Quando un film mi piaceva particolarmente, allora mi compravo il dvd ed entrava a far parte di diritto della mia videoteca. Negli ultimi tempi preferivo guardare film leggeri, commedie rosa made in USA, con tanto di happy end, forse perché trovavo la mia vita già grigia abbastanza, senza bisogno di sottolineature dall’esterno. Uscivo a cena raramente con le mie amiche, più spesso con Sirio, che, di solito, passava alla chiusura almeno una volta alla settimana. Sirio, quando non era nella sua libreria, preferiva starsene in giro. Non mangiava mai in casa, tanto che il suo frigo, sempre desolatamente vuoto, soffriva di solitudine. Ogni tanto mi invitava a cena a casa sua, ciò che significava che dovevo fare la spesa e cucinare io.

        Quindici giorni bastarono per veder salire il nostro fatturato. Mi congratulai con Marco e decisi che i nostri libri non avrebbero più avuto pace. Marco non ne fu estremamente felice, ma l’idea era stata sua e non poteva certo opporsi ai traslochi continui, che erano ormai stati decisi. Così facendo, però, ci accorgemmo di uno strano fenomeno. Dopo qualche tempo, i libri di astronomia, che erano mancati all’appello, erano riapparsi in mezzo ai libri di storia e su altri scaffali di svariati argomenti.
Marco ed io ci guardammo, sconcertati.
- Ma che significa? – mi chiese.
- Significa che il duca ha pensato bene di averli letti abbastanza e li ha rimessi nel primo posto che ha trovato. – ne dedussi.
- Sei sempre convinta che l’autore dei furti sia lui? – mi chiese, stupito.
- Tu che ne dici? Hai mai visto qualcun altro interessarsi all’argomento?
- No, per la verità, no. – ammise, grattandosi il mento.
- Per me è stato lui. Adesso che li ha restituiti, però, cosa facciamo? – domandai più a me stessa, che a lui.
- Niente. Che vuoi fare? Comunque avverti Sirio che sono rientrati, in perfette condizioni, come se non fossero mai stati aperti. – aggiunse.
- Certo, lo farò. –
Ma per farlo, avrei atteso che fosse presente il sospetto autore della bravata.
Non aspettai a lungo. Due giorni dopo, il duca entrò in negozio con il suo solito passo sciolto, il cappotto blu ben abbottonato e le mani in tasca. Quando si fermò a studiare i titoli delle novità, a meno di due metri da me, telefonai a Sirio per informarlo, con voce abbastanza forte da farmi sentire da lui. Intanto lo osservavo attentamente, per scoprire una sua eventuale reazione, che però non ci fu. Anche Marco lo osservava piuttosto da vicino, fingendo di riordinare libri che non avevano alcun bisogno di essere rimessi in ordine. Chiusi la telefonata con un Sirio molto soddisfatto, anche se decisamente poco convinto da quella storia e continuai ad osservare il duca. Questi, dopo un buon quarto d’ora, prese un volume con sé e si avvicinò alla cassa, porgendomelo con un sorriso.
- Senza volerlo, ho sentito quello che diceva al telefono. – esordì (ed era la prima volta che scambiavamo due parole) – Certo che c’è in giro strana gente. Non sanno che basta andare in biblioteca per prendere in prestito tutti i libri che si vuole?
- Evidentemente c’è qualcuno che trova più eccitante sottrarli a una libreria e rischiare di farsi beccare, tornando poi a restituirli. – commentai.
- Eccitante? – si sorprese, come se un’idea del genere non gli avesse mai neanche lontanamente sfiorato il pensiero.
- Sa, ci sono persone per cui la vita, senza un pizzico di rischio, non vale la pena di essere vissuta. E’ una questione di adrenalina in circolo, non so se mi spiego.
- Sì, credo di capire. – ammise, guardandomi negli occhi in modo strano, come se volesse carpire al mio sguardo quello che le mie parole non gli avevano spiegato a sufficienza.
- Diciotto euro e cinquanta. – gli dissi, mettendogli il pacchetto sotto il naso.
- Oh, sì scusi. – ribattè, porgendomi un bancomat. Era anche la prima volta che non pagava in contanti.
Edmondo De Luna, era impresso sulla carta. Un bel nome, pensai, che gli stava proprio a pennello.
Gli restituii carta e scontrino e lo salutai con un sorriso.
- Buonasera, Signor De Luna. –
Lui trasalì leggermente, rispodendo al mio saluto.
Marco, che aveva seguito attentamente la nostra conversazione, aspettò che uscisse e poi mi venne vicino.
- Secondo me, lui non c’entra niente. – affermò con sicurezza.
- Eppure, non mi viene in mente nessun altro. – risposi soprappensiero.
Prima della chiusura, si presentò il capo in persona.
- Allora, Alba, ancora nessuna notizia del ladro gentiluomo?
- Macchè, Sirio. Navighiamo nel buio. –
- Beh, domani verrà un tecnico a piazzare le telecamere a circuito chiuso. Avrai tre monitor di controllo. Spero che non sia troppo complicato per te occuparti della cassa e nello stesso tempo dare un’occhiata a quello che avviene negli angoli nascosti. – affermò ironicamente.
- No, non ti preoccupare. Ce la farò. – lo tranquillizzai, ignorando la sua ironia.
- E tu Marco? Tutto bene? – chiese.
- Tutto a gonfie vele, tranne che ogni tanto mi perdo. Questi spostamenti continui mi confondono leggermente. 
- Anche da me è lo stesso, ma i risultati sono ottimi. In fondo, è questo che conta, piuttosto che trovare un volume ad occhi chiusi… 
- Naturalmente. – rispose, seguendo distrattamente con lo sguardo un ragazzino lentigginoso che usciva senza aver comprato nulla.
- Beh, è ora di chiudere. Vieni a cena con me, Alba? – mi chiese, come faceva sempre, quando veniva alla chiusura.
- Sì, volentieri. – gli risposi, come accadeva ogni volta.
La nostra amicizia era come un buon vino, il cui sapore migliorava con l’invecchiamento. All’inizio, in un periodo della mia vita in cui rincorrevo ingenuamente la ricerca dell’uomo giusto, avevo creduto di aver trovato pane per i miei denti, ma, con lo scorrere delle stagioni, mi ero resa conto che per Sirio non ero abbastanza interessante. Avevo accettato la situazione, adattandomi al tipo di rapporto che lui mi chiedeva ed eravamo diventati ottimi amici.
Una volta al ristorante, seduti a un tavolo d’angolo, mi guardai intorno ad osservare distrattamente i clienti presenti nel locale, finchè lo sguardo non mi cadde su una strana coppia. Il duca era seduto all’altro capo della sala e aveva di fronte a sé una ragazza bionda, giovanissima e imbronciata. Come richiamato dal mio sguardo, il duca sollevò gli occhi su di me, sorrise, riconoscendomi, e mi fece un semplice cenno di saluto con la mano, al quale risposi brevemente, distogliendo subito lo sguardo e riportandolo su Sirio.
- Chi è? – mi chiese lui, incuriosito, dopo aver seguito la scena.
- Un cliente che viene spesso al negozio. – risposi.
- Solo un cliente? – insistette, con espressione ironica.
- Sì, perché? – mi venne spontaneo chiedergli.
- Lo hai guardato in un modo… diverso. – mi spiegò.
- E’ solo che sono rimasta sorpresa dalle compagnie che frequenta. – spiegai.
- E’ giovane, vero? Però, se riesce a sostenere quel tipo di frequentazioni, beato lui. – commentò ridendo.
- Invidia? – insinuai, guardandolo bene negli occhi.
- Ma no, se volessi… A me però piacciono più o meno della mia età. – mi informò, come se non lo sapessi.
I dodici anni che ci separavano erano stati, a mio parere, uno dei tanti motivi per cui tra noi non era mai nata una storia, seppur breve, come le altre a cui avevo assistito da quando lo conoscevo.
Dopo cena mi accompagnò a casa, rifiutandosi di salire a bere un caffè, come faceva a volte.
- Ti ringrazio, ma stasera sono proprio stanco. Sai, l’età si fa sentire. – commentò.
- Ha parlato matusalemme. Se già senti l’età a quarantadue anni, che farai a ottanta?
- Non farmici pensare, per favore, stasera sono troppo stanco anche per questo. Buonanotte, Alba.
- Buonanotte. – lo salutai, guardandolo rientrare in macchina.
Appena tornata nel mio appartamento, mi assalì il pensiero del duca. Lo rivedevo seduto al tavolo del ristorante con quella ragazza. La sua espressione era tranquilla e sicura come sempre, il suo aspetto, elegante, anche se convenzionale. Ogni volta che, durante la cena, avevo riportato lo sguardo su di lui, mi era parso del tutto a proprio agio, anche il paio di volte in cui i nostri sguardi si erano incrociati. La ragazza, invece, aveva costantemente mantenuto il suo atteggiamento scontroso e imbronciato. Una lite tra innamorati? C’era qualcosa che non mi convinceva, nel quadretto che mi ero immaginata. In fondo, cosa sapevo di quell’uomo? Niente.
Qualcosa in lui, però, m'incuriosiva. Doveva essere coetaneo di Sirio, a leggere il reticolo di piccole rughe che gli circondavano gli occhi. Il suo sorriso lieve, spontaneo e naturale, nasceva come un leggero soffio di vento. In lui non mi pareva di trovare nulla di forzato. In un certo senso gli invidiavo soprattutto la sua imperturbabilità, quella tranquillità, che, non conoscendolo abbastanza, non sapevo dire se fosse autentica o chimicamente indotta. Mi chiesi, ad un certo punto, perché il pensiero del duca non volesse abbandonarmi. Quella sera andai a letto con l’impressione che la mia curiosità nei suoi confronti non fosse del tutto naturale.

 

        Due giorni dopo, il duca tornò in libreria. Appena entrato, il suo sguardo mi cercò alla cassa, mi trovò e mi sorrise, prima ancora che le sue labbra esprimessero lo stesso sorriso. Fu una frazione di secondo, ma quella asintonia mi lasciò un’impressione inconsueta. Lo salutai chiamandolo per nome e aggiudicandomi lo stesso gesto naturale, con cui mi aveva salutato da lontano, al ristorante. Poi si perse in mezzo ai libri.
Attrezzata della nuova tecnologia, lo seguii dai monitors, non so se per scoprire che si trattava davvero del ladro gentiluomo o semplicemente perché trovavo estremamente gratificante guardarlo. Notai che neanche Marco lo lasciava da solo vicino agli scaffali, pur mantenendo una notevole discrezione.
Infine le ricerche del duca ebbero fine e si avvicinò alla cassa col volume che aveva scelto. Considerando che ne acquistava almeno due alla settimana, stimai che avesse molto tempo libero da dedicare alla lettura.
Presi il libro e battei cassa, guardando, senza vederlo, un ragazzino che usciva dal negozio.
- Ventitre e ottanta, signor De Luna. – gli comunicai, infilando il libro in un sacchetto.
- Adesso che sa il mio nome, non potrebbe dirmi il suo? – mi chiese, mentre mi porgeva la sua carta.
- Alba Gasperini. – gli risposi, sorridendo, mentre passavo la tessera nel pos.
- Alba, che bel nome. – commentò.
Gli restituii la carta con lo scontrino e gli dissi grazie e arrivederci, ma lui non sembrò intenzionato a lasciarsi congedare tanto in fretta.
- Alba, mi farebbe l’onore di cenare con me? – mi propose, semplicemente.
Io restai di stucco. 'Mi farebbe l’onore'? Chi parlava più così, oggigiorno? Ricevetti l’impressione di essere piombata in quel passato remoto, in cui la cortesia e la distinzione dei termini caratterizzavano il gentiluomo.
Poi, in una frazione di secondo, il pensiero mi tornò irresistibilmente alla ragazza bionda che avevo visto con lui e mi sfuggì:
- Mi spiace, credo di essere troppo vecchia per lei.
Il duca trasalì.
- Strana scusa. Poteva dirmi semplicemente di essere già impegnata. E poi cosa c’entra l’età?
- Mi pare che esca con ragazze più giovani di me. – risposi, pentendomi immediatamente della mia cattiveria, ma ormai non potevo rimangiarmi quello che mi era sfuggito.
- Se si riferisce alla ragazza che cenava con me l’altra sera, si trattava di mia figlia. – mi spiegò affabilmente, invece di invitarmi ad andare a quel paese e a farmi gli affari miei, come doverosamente avrebbe fatto chiunque altro.
Fui prontamente costretta a riposizionare alcuni dei tasselli di un gioco a incastro che mi stava riuscendo piuttosto male.
- Mi scusi, avevo creduto… - mormorai, mortificata.
- Non importa. Lei non mi conosce, come io, del resto, non conosco lei. Però ci terrei a rimediare. Sa, il rischio, l’adrenalina e tutto il resto… 
Risi, mi sciolsi ed accettai. Lui mi confermò che sarebbe venuto a prendermi all’ora di chiusura. Tutto questo, senza mai distogliere lo sguardo dal mio, che, come ipnotizzata, trovavo impossibile sganciare dal suo, nero e profondo. Non mi sentivo nemmeno imbarazzata. Avevo soltanto la netta sensazione di essere stata risucchiata in un buco nero da cui i pensieri fossero preclusi. Quando il duca se ne andò, mi risvegliai. Cosa mi aveva fatto quell’uomo? Continuai a domandarmelo, a intervalli regolari, per buona parte della giornata. Poco prima della chiusura, chiesi a Marco di sostituirmi e andai in bagno a restaurarmi. Avevo nel mio armadietto tutto ciò di cui potessi aver bisogno per evenienze del genere, compreso un abitino che potevo indossare per la sera, senza dover necessariamente passare da casa.
L’adrenalina e tutto il resto si erano già messi in moto, quando tornò il duca, rivestito di tutto il suo aplomb.

        A un bel tavolo del ristorante “Springtime Jazz”, Edmondo De Luna mi spiegò perché ci trovavamo là.
- Quando entravo in libreria, la vedevo sempre immersa nella
lettura. E’ questo che mi ha attirato verso di lei, perché anch’io, non appena posso, mi immergo nei libri. Penso che ci limitiamo a vivere le vite degli altri, vere o inventate, perché non possiamo vivere le nostre, per mancanza di tempo, per necessità, per paura, per una serie di motivi che non mi va neanche di indagare. Fino ad ora, ho sempre cercato negli altri quello che mi assomigliava, eppure mi sono reso conto che è sbagliato. Quello che può arricchirci e completarci è, all’opposto, ciò che noi non siamo e che possiamo trovare solo nel prossimo. La mia vita resta immobile da troppo tempo, ma oggi non mi rassegno all’idea che tutto ciò che il destino aveva previsto per me, sia ormai alle mie spalle. Per questo, ho voluto conoscerla. E’ un tuffo alla cieca in quel futuro che non mi riesce più di vedere, ma so che esiste. Forse lei potrebbe aiutarmi a vederlo. Non la sto annoiando troppo, spero.
- No, al contrario. Anche lei mi incuriosiva molto, per questo
ho accettato di uscire con lei. Forse potremmo darci del tu.
osai proporre, imbarazzata, per aver infilato due “lei” nella
stessa frase.
- Volentieri, bando ai formalismi. – accettò il duca,
sorridendo.
Formalismi. Questa parola mi fece notare quale fosse la nota stonata in ciò che vedevo in lui: la sua eccessiva imperturbabilità, che lo conduceva a non mostrare sentimenti, benché parlasse di se stesso così apertamente, con una sconosciuta. Il suo distacco e la sua compostezza mi avevano fornito l’impressione che mi stesse raccontando di qualcun altro.
- A parte il tuo lavoro alla libreria, cosa fai nella vita? – mi chiese.
- Praticamente nulla. – confessai.
- Sei troppo giovane, per questo. – mi rimproverò.
- Hai ragione, ma non ho molto tempo libero. – mi difesi. – E tu che lavoro fai?
- Sono un musicista. Più che altro compongo colonne sonore per il cinema e la pubblicità. 
- Affascinante. – commentai.
- A volte è difficile. Dipende dagli spunti della trama. Se il film mi piace, allora tutto scorre liscio, altrimenti… - concluse, con un gesto di rassegnazione molto eloquente.
- E non hanno niente a che vedere i tuoi stati d’animo? Non so, se sei felice o triste, fa differenza? – gli chiesi, incuriosita.
- Sì, fa molta differenza. Per esempio, una serie di giornate tristi, mi spinge a comporre melodie piuttosto sofferte, a metà strada tra jazz e blues, che trovo decisamente soddisfacenti. Non posso lamentarmi, i miei lavori più riusciti sono scaturiti in giorni come quelli. 
- Quindi, la felicità non ti ispira. – ne dedussi.
- Felicità? Non credo di frequentarla molto. – mi confessò.
- Eppure sembri così sicuro di te, così disinvolto. – commentai, senza neppure capire a cosa mi riferissi.
- E cosa c’entra con la felicità? – mi chiese, infatti.
- Effettivamente, non so. – confessai, con la certezza che mi avrebbe trovata poco intelligente.
- Tu confondi la felicità con il sentirsi a proprio agio nel ruolo che ci siamo scelti. La felicità non è che l’illusione di un momento. La vita di ciascuno è disseminata da pochi momenti davvero felici, e di solito sono talmente imprevisti e sorprendenti che ce li lasciamo sfuggire. Ce ne accorgiamo soltanto quando sono irrimediabilmente passati. 
- Forse la felicità di cui parli è un sentimento che io non conosco nemmeno, perché a me sembra di essere spesso felice. Trovo gioia nelle piccole cose, in certe frasi che leggo, in un brano musicale, in una pianta che fiorisce sul mio balcone, in un barattolo di nutella. – gli spiegai.
Il duca mi sorrise.
- Hai ragione, Alba. Godere delle piccole gioie della vita, è un modo di essere felici.
- Credo che sia alla portata di tutti. – aggiunsi.
- Tu sei una che si accontenta. – giudicò.
- Non sempre, ho anch’io le mie aspirazioni. – precisai, temendo che mi ritenesse una sempliciotta senza attrattive.
- Quali, ad esempio? – mi chiese.
- Te lo dirò un’altra volta. – risposi, perché l’unica che mi veniva in mente, in quel momento, era che volevo trovare un compagno per la vita e temevo che la mia dichiarazione venisse scambiata per una proposta sentimentale.
- Spero di non essere stato troppo invadente. – commentò.
- No, Edmondo, niente affatto. Ma in questo periodo sto rivalutando alcune convinzioni e ho le idee un po’ confuse.
La musica in sottofondo riemerse in primo piano grazie al nostro silenzio. Sassofono, pianoforte, batteria, basso. Il genere di jazz che preferivo. Sarei tornata in quel locale con Sirio. Ero certa che gli sarebbe piaciuto.
Dopo cena, il duca mi riaccompagnò a casa. Mi trattenni dall’invitarlo a prendere un caffè da me. Mi sembrava prematuro. Ci stavamo ancora studiando. Non sapevo quale piega avrebbe assunto il nostro rapporto, anzi non ero neanche certa che quella cena avrebbe avuto un seguito. Forse lo avevo deluso. Mi ero tenuta un po’ troppo sulla difensiva. Il duca invece aveva mantenuto le promesse. Lo trovavo davvero affascinante, con la sua ostentazione di tranquillità e la nonchalance con cui si apriva alla confidenza. Sembrava avesse raggiunto un’equilibrio interiore che gli permetteva di scoprirsi, senza temere alcun turbamento dall’esterno. Beato lui. Sì, lo invidiavo un po’. Ma forse non avrei dovuto. Chissà per quali vie era arrivato a raggiungere quel traguardo? Forse un giorno glielo avrei chiesto. Gli avrei chiesto di sua moglie e di sua figlia e della sua vita in generale. Ero curiosa, ma anche trattenuta da un senso di pudore nei confronti dei suoi sentimenti, che, a parte la felicità, doveva pur provare. E poi aveva delle mani bellissime, lunghe e affusolate, che mi avevano dato un brivido, quando mi aveva stretto la mano, nel salutarmi. Il duca mi piaceva. Ed era dalla notte dei tempi, che non mi sentivo così piena di aspettativa, curiosità ed eccitazione. Quell’uomo stava compiendo un vero miracolo.
Mi era rimasto un desiderio di musica, che continuava a girarmi nella testa, da quando eravamo usciti dal locale. Sapevo cosa avrei voluto sentire. Cercai un cd di Peter Cincotti e lo piazzai nello stereo. Quella musica mi cullò tra un pensiero e l’altro, il cui unico collegamento era sempre e soltanto il duca. Non gli avevo chiesto se si interessava di astronomia, ma prima o poi lo avrei scoperto.

 

        Il giorno successivo, Sirio mi telefonò, informandomi che riteneva inutile lasciare aperto il negozio a Sant’Ambrogio. L’anno precedente era stato un fiasco clamoroso, perchè tutti si riversavano in centro per studiare le vetrine, in previsione degli acquisti natalizi, così aveva deciso che sarebbe rimasto aperto solo lui. Mi augurò un buon ponte dell’Immacolata e mi salutò. Mi resi conto che avevo davanti a me tre lunghi giorni di riposo, perché l’Immacolata cadeva di sabato, ed io non avevo programmato nulla. Il duca aveva ragione. Ero troppo giovane per non fare nulla della mia vita. Ma cosa potevo fare? Informai Marco che l’indomani saremmo rimasti chiusi.
- Wow! Tre giorni di vacanza! E’ meraviglioso. – esclamò con entusiasmo.
- Cos'hai in programma? – gli chiesi.
- Di riposarmi. Dormire, guardare qualche film, uscire a passeggio con la mia ragazza. – mi rispose, pronto. – E tu che farai? 
- Non ci ho ancora pensato. – risposi, con un vago senso d’inquietudine.
- Beh, qualcosa ti verrà in mente. – mi consolò, tornando al lavoro.
All’improvviso mi sembrò essenziale non sprecare quel tempo prezioso che si parava davanti a me, come una manna dal cielo. Mi venne persino in mente di prendere il treno e andare a trovare i miei, ma poi pensai che comunque ci sarei andata a Natale, e lasciai cadere l’idea. Cosa avrei fatto per tre giorni?
Chiamai le uniche due amiche che mi erano rimaste dai tempi del liceo ed entrambe erano già occupate, Mara sarebbe andata in montagna e Antonella aveva prenotato un viaggio a Vienna con il suo fidanzato.
Ero a questo punto dei miei vaghi programmi, quando il telefono squillò e attraverso la cornetta mi giunse la voce del duca. Lo riconobbi immediatamente, dal tono di profondo velluto. Mi chiese subito quali progetti avessi per il ponte ed io, imbarazzata, gli confessai che ci stavo ancora riflettendo.
- Ti andrebbe di cenare con me, domani sera? – mi chiese, senza preamboli.
- D’accordo. – risposi, senza rifletterci un attimo.
- Ti passo a prendere alla chiusura.
- Domani restiamo chiusi. Potresti venirmi a prendere a casa, oppure ci vediamo da qualche parte. – gli proposi.
- Ti vengo a prendere a casa. – decise.
Fu così che il duca mise piede per la prima volta nel mio appartamento, presentandosi premeditatamente con mezz’ora di anticipo.
- Scusami, non sono ancora pronta. – gli dissi, ben consapevole che a scusarsi avrebbe dovuto essere lui.
- Non scusarti. Ho esagerato. Nel timore di arrivare in ritardo, sono partito con eccessivo anticipo. 
- Non importa. Siediti pure. Io vado ad asciugarmi i capelli. - gli comunicai, reggendo l’asciugamano in cui avevo avvolto la mia modesta chioma.
Mi aveva irritato che m’avesse vista senza trucco, in accappatoio bianco e turbante rosa. E mi irritava che potesse guardarsi intorno senza la mia presenza e studiare liberamente gli oggetti di cui mi circondavo. Non mi sentivo affatto pronta per questo genere di confidenza. Ci conoscevamo appena. Misi una certa fretta nei miei preparativi, per non prolungare oltre il dovuto la sua libera circolazione in soggiorno. Ma quando vi tornai, lo trovai sprofondato nella lettura di un volume che avevo lasciato aperto sui cuscini del divano, L’eleganza del riccio. Il duca sollevò lo sguardo su di me, con una vaga espressione di rimpianto, chiudendo il libro.
- Hai fatto presto. – commentò, quasi come un rimprovero.
- Se preferisci continuare a leggerlo, posso preparare qualcosa io. – gli dissi, ironicamente.
Lui sorrise.
- Scusami, l’ho trovato molto interessante. Vengo a comprarmelo lunedì.
- No, puoi tenerlo. Io l’ho già letto tre volte. Questa sarebbe la quarta. 
- Davvero? – si stupì.
- Forse è l’unico modo per smettere. - ammisi.
- Allora lo tengo. – decise. – Ti ringrazio. 
- Non c’è di che. Posso offrirti qualcosa? 
- Grazie, ma pensavo che potessimo andare a prendere un aperitivo in centro, prima di cena. 
- Allora andiamo. – concordai.
Mi aiutò ad indossare il cappotto ed uscimmo ad affrontare il gelo della sera. Il traffico era molto intenso, come se le previsioni di esodo dei telegiornali fossero state appositamente smentite, per permetterci di restare in macchina più a lungo possibile. L’abitacolo confortevole, caldo, pervaso di musica discreta, intimo e buio, ad eccezione dei led della plancia, che risplendevano di un azzurro vivo, ci invitò ad una conversazione rilassata e confidenziale. Si fece così tardi che decidemmo di dirigerci al ristorante, saltando l’aperitivo. Nel frattempo, avevo saputo che Edmondo aveva divorziato dalla moglie Ida, dieci anni prima (notizia che mi rallegrò molto), che la figlia Irene viveva con lei e che il duca lavorava esclusivamente in casa, dove aveva attrezzato uno studio di registrazione di alto livello tecnologico. Inoltre, il duca mi informò, per inciso, che il suo appartamento aveva una superficie di duecento metri quadri, cioè esattamente quattro volte il mio, sul quale non ebbe nulla da commentare, perché non l’aveva neanche guardato, subito rapito dal libro che aveva trovato accanto a lui, quando si era seduto sul mio divano. Mi pentii di non essermi truccata con maggior cura.
Tornammo allo “Springtime Jazz”, che era decisamente il suo preferito e che stava diventando anche il mio. La musica era un piacere per le orecchie. Le luci soffuse invitavano gli occhi a riposare. I piatti semplici ed eleganti, che coniugavano il vanto di aderire alla tradizione regionale, con la sfrenata fantasia votata alla sperimentazione più ardimentosa, invogliavano alla degustazione, che ci inebriava attraverso gli effluvi, il contrasto dei colori, delle consistenze, ora ruvide ora lisce, e persino con l’opposizione del caldo e del freddo. L’abbinamento dei vini, infine, era uno spettacolo pirotecnico per le papille gustative. La prima volta, imperdonabilmente, distratta dall’imbarazzo e dalla curiosità di conoscere Edmondo, non vi avevo posto un’adeguata attenzione. Ma qualcosa era già cambiato. Riuscivo a godere della sua conversazione, della sua vista (era un piacere, guardarlo) e, nello stesso tempo, a gioire delle delizie del palato. Avevo trovato il giusto equilibrio e al duca non sfuggì.
- Sono felice che tu sia più rilassata, stasera. – commentò.
- Anch’io. A volte, purtroppo, mi capita di non vedere quello che ho sotto il naso. – affermai, sorridendo.
- E’ un vero peccato. La consapevolezza è il primo passo per raggiungere la pienezza della vita. – mi disse.
- Tu sei troppo saggio. – lo accusai, scherzando.
- Non farti ingannare dalle parole. – mi ammonì, ridendo.
Poi uno struggente assolo di sassofono catturò la mia attenzione, mentre il duca batteva il tempo con le dita della mano, accanto al suo piatto vuoto. Quella vista mi affascinò.
Ci guardammo negli occhi, consci di provare il medesimo piacere. Fu un momento bellissimo.
Quando mi riaccompagnò a casa, mi propose di rivederci la sera successiva.
- Mi farebbe molto piacere. – gli risposi.
- Vorrei che venissi da me. Sono un ottimo cuoco. – mi annunciò.
La sua proposta mi sorprese leggermente, incuneando qualche secondo di silenzio, tra le sue parole e le mie.
- D’accordo. Dove abiti? – mi buttai.
- Ti vengo a prendere. – mi informò. - Non vorrei che ti perdessi.
Trascorsi la giornata prendendomela molto comoda: dormii fino a tardi, mi concessi una robusta colazione, riordinai, poi mi accomodai sul divano a guardare un film che adoravo e dal quale, nonostante avessi giurato a me stessa di disintossicarmi, non riuscivo a staccarmi: “V per Vendetta”. Quando V disse ad Evey “Non vi sono certezze, solo opportunità”, un brivido mi percorse la spina dorsale. Il resto del film fu una sequenza di immagini che scorrevano sotto i miei occhi, senza che le guardassi effettivamente, distratta da quella frase che aveva implicazioni incredibilmente attuali nel momento che stavo vivendo. Non vi erano certezze nel fatto che frequentando Edmondo qualcosa cambiasse nella mia vita, ma era sicuramente un’opportunità. Forse avrei rivissuto la deludente esperienza che avevo già conosciuto con Sirio e saremmo diventati solo buoni amici. Oppure ci saremmo resi conto di non avere nulla in comune e avremmo diradato i nostri incontri, fino a non vederci più. Oppure avremmo potuto trovare un luogo d’incontro nelle nostre vite, che ci avrebbe spinto al di là del punto di non ritorno. Quest’ultima, era l’opzione che preferivo, ma non ero abituata a vedere il futuro in rosa, perché Sirio non me lo aveva mai permesso. Avevo alle spalle tutto ciò che mi aveva donato, anni ed anni di speranze seguite da altrettante delusioni, in un’altalena di strani momenti, ora cupi, ora chiari, che mi avevano trasformata in quella che ero, una donna sola, indecisa e chiusa, che quando si guardava allo specchio, si poneva sempre la stessa domanda: “ma perché non gli piaccio?”. Allora mi studiavo con estrema attenzione. L’azzurro dei miei occhi era forse scialbo, i miei capelli non abbastanza biondi, il mio volto non era ovale a sufficienza, il mio naso era troppo diritto e sottile? Cosa accidenti c’era in me, che non aveva le proporzioni giuste per piacergli? Ogni volta mi stupivo di questa analisi e mi dicevo che no, non c’erano difetti evidenti in me, eppure non gli piacevo, col risultato che neppure io piacevo a me stessa. Tutti i miei “oppure” si infransero sulla scena della folla raccolta davanti al Parlamento, proprio quando tutte quelle maschere di Guy Fawkes, che nascondevano una moltitudine di persone qualunque, all’improvviso trasformate in eroi, venivano illuminate dalle esplosioni. Una delle scene che trovavo più belle ed esaltanti in assoluto. Decisi che avrei rivisto quel film con il duca.

        Quella sera, Edmondo arrivò in perfetto orario. Coprimmo la distanza, che separava i nostri rispettivi alloggi, in dieci minuti. Praticamente abitava dietro la libreria e mi venne da ridere pensando che mi aveva detto di temere che mi perdessi.
Mi mostrò orgogliosamente il suo appartamento, come un agente immobiliare l’avrebbe magnificato a un cliente che dovesse acquistarlo. Compresi che ne era orgoglioso, perché quello era il mondo che si era creato. Quando tornammo in soggiorno mi ricordai delle mie intenzioni.
- Ti ho portato un film. – esordii, estraendo il dvd dalla borsa.
Lui lo prese, lo guardò e scoppiò a ridere. Per rispondere alla mia espressione interrogativa, afferrò il telecomando che era sul tavolino e pigiò il tasto play. Quando lo schermo si accese, compresi all’istante che si trattava dello stesso film.
- Anche tu! – esclamai, sorpresa.
- E’ una mia piccola fissazione. Lo tengo sempre pronto nel lettore, in caso volessi rivederne uno spezzone.
- Che coincidenza! – mormorai – Anch’io me lo rivedo spesso. Non riesco a smettere, anche se lo so a memoria.
- Sono sicuro che un giorno ce ne stancheremo e passeremo ad altro. – mi consolò – In fondo, non è una malattia grave.
- Lo sai quante volte ho giurato a me stessa che era l’ultima volta?
- Me l’hai portato per questo? Per sbarazzartene come hai fatto col libro? – dubitò.
- No, volevo vederlo insieme a te. –
- Lo faremo, ma dopo cena. – mi promise.
Il duca cucinava davvero. Voglio dire che non si limitava alla classica bistecca con insalata. Ed era anche molto attento alla presentazione, curando particolari che a me non sarebbero neppure venuti in mente. Ma l’apice della serata, sarebbe stato il film. Vederlo con una persona che ne subiva lo stesso fascino, me ne avrebbe intensificato il piacere.
Alla sequenza in cui Evey Hammond veniva catturata dai castigatori ed entrava in scena V, con la sua maschera di Guy Fawkes, il duca mi guardò per un istante, con calore.
Ero elettrizzata. V stava per presentarsi. Seguimmo, con piacere rinnovato, il dialogo tra i due protagonisti.
Evey: - Chi sei?
V: - Chi? "Chi" è soltanto la forma conseguente alla funzione… ma “ciò che sono” è un uomo in maschera.
Evey: - Ah, questo lo vedo.
V: - Certo. Non metto in dubbio le tue capacità di osservazione. Sto semplicemente sottolineando il paradosso che consiste nel chiedere ad un uomo mascherato chi egli sia.
Evey: - Ah, giusto…
V: - Ma, in questa notte estremamente fausta, permettimi dunque, in luogo del più consueto nomignolo, di accennare al carattere di questa dramatis personae. Voilà. Alla Vista, un umile Veterano del Vaudeville, chiamato a fare le Veci sia della Vittima che del Violento dalle Vicissitudini del fato. Questo Viso non è Vacuo Vessillo di Vanità, ma semplice Vestigia della Vox populi, ora Vuota, ora Vana. Tuttavia, questa Visita alla Vessazione passata acquista Vigore ed è Votata alla Vittoria sui Vampiri Virulenti che aprono al Vizio, garanti della Violazione Vessatrice e Vorace della Volontà… L'unico Verdetto è Vendicarsi... Vendetta... E diventa un Voto non mai Vano poiché il suo Valore e la sua Veridicità Vendicheranno un giorno coloro che sono Vigili e Virtuosi. In Verità questa Vichyssoise Verbale Vira Verso il Verboso, quindi permettimi di aggiungere che è un grande onore per me conoscerti e che puoi chiamarmi V.
- Fantastico! – esclamò Edmondo.
- Potresti spiegarmi perché questa scena non mi stanca mai? - gli chiesi.
- No, mi dispiace. E’ una delle domande che mi pongo anch’io da un paio d’anni. – ammise.
- Non avrei mai creduto di incontrare qualcun altro con la mia medesima fissazione. – commentai, ancora stupita.
- Probabilmente questo tipo di condivisione può attenuarne il peso, sempre che per te costituisca un peso.
- No, non credo. E’ più come un cortocircuito mentale, ma non mi pesa affatto.
- Neanche a me. In fondo c’è gente che legge la Divina Commedia tutta la vita; altra che si appende in casa una copia della Gioconda e la ammira tutti i giorni; altra ancora che non può fare a meno di ascoltare continuamente Mozart. Perché mai dovremmo sentirci in colpa per questa nostra piccola mania che riguarda la settima arte? 
Questa affermazione mi restituì immediatamente e totalmente il rispetto per me stessa. Gliene fui grata.
- A proposito, ti va di sentire un po’ di musica? 
- Se si tratta della tua, sì. – gli risposi.
Edmondo spense il lettore e mi condusse nel suo studio, pregandomi di sedermi proprio in mezzo al divano, quindi armeggiò per qualche secondo tra spinotti e pulsanti. Ero convinta che mi avrebbe fatto sentire qualche registrazione e invece si sedette al pianoforte ed iniziò a suonare per me. Era davvero bravissimo. Come mi aveva già anticipato, la sua musica spaziava tra jazz e blues, ed era esattamente quella che preferivo. Quando smise di suonare, lo applaudii e mi complimentai con lui.
Poi parlammo delle nostre letture preferite e non fui molto sorpresa di scoprire che non si era mai interessato di astronomia. Ormai c’ero arrivata da sola. Stavo per dirgli che si era fatto molto tardi, quando udimmo una sequenza impressionante di tuoni e lo scroscio di una pioggia violentissima. Andammo a spiare dai vetri e restammo impressionati dalla quantità d’acqua che era già caduta, senza che ce ne accorgessimo. La strada sembrava un fiume in piena, che trascinava con sé ogni genere di oggetti, compreso qualche bidone della spazzatura. Ci guardammo allibiti.
- Tu stanotte dormi qui. – dichiarò Edmondo, con un tono di quelli a cui non ci si può opporre.
- Sì, badrone. – risposi, scoppiando a ridere.
A quel punto non aveva più molto senso che fingessi di essere stanca. Continuammo a conversare per un pezzo, osservando dai vetri il nubifraggio in atto e udendo le sirene dei pompieri in lontananza. Più tardi, il duca mi accompagnò nella camera degli ospiti, che era stata, in origine, la camera della figlia. Poiché di quel passato aveva cancellato ogni traccia, non mi sentii affatto in imbarazzo. Probabilmente sarebbe stato diverso se mi fossi ritrovata tra pelouches e orsacchiotti, con un piumino disseminato di immagini dei personaggi di Walt Disney. Prima di lasciarmi sola, il duca mi mostrò che nell’armadio c’era tutto ciò di cui potessi avere bisogno. Io approfittai di un pigiama da donna e di un paio di pantofole di spugna. Era stata una serata perfetta. Il duca era una delle poche persone che conoscessi, che sapeva davvero ascoltare. Si era interessato a me, ai miei gusti, alle mie opinioni e i suoi commenti non erano mai stati superficiali. Edmondo non era molto diverso da me. I nostri svaghi erano i medesimi: libri, film e musica, soltanto che la musica lui se la creava da solo. Era la base della sua vita. Poteva fare a meno di tutto, ma della sua musica decisamente no. Sapere che lui dormiva a pochi metri da me, non mi fu di molto aiuto per addormentarmi, ma alla fine ci riuscii. Quando spuntò il sole, però, mi svegliai, scoprendo che l’avvolgibile della finestra era completamente aperto. Svegliarmi col sole negli occhi era uno dei modi più certi per farmi alzare di pessimo umore. Tentai di evitare nel modo più assoluto di farlo pesare al duca, che non ne aveva alcuna colpa, eppure se ne accorse lo stesso. Gli spiegai il perverso meccanismo che scattava nella mia testa quando mi svegliava la luce del sole, e lui si limitò a sorriderne. Non so perché mi tornò in mente la Dott.ssa Delia, il medico legale, che chiedeva scusa a V. E gli dissi:
- E’ privo di senso chiedere scusa?
Edmondo riconobbe la battuta e mi rispose come V:
- Non lo è mai.
- Mi dispiace tanto. – ribattè la Dott.ssa Delia, con la mia voce.
- Ognuno ha i suoi nodi. Qualcuno riusciamo a scioglierlo, qualcun altro ci resta legato addosso per tutta la vita. Bisogna imparare a conviverci. La prossima volta, caleremo la tapparella.
- La prossima volta? – gli chiesi, ironicamente.
- Potrebbe imperversare una bufera di neve, prima o poi. -rispose, sorridendo solo con gli occhi - Le strade sono uno schifo. Devi proprio andare?
- Sarebbe meglio. – risposi.
- Allora ti accompagno. – decise, senza insistere perché restassi. Se lo avesse fatto, sarei rimasta.
Me n’ero pentita subito, infatti, ma non avevo avuto il coraggio di confessargli che avevo cambiato idea e lui mi lasciò sotto casa, raccomandandosi che avessi cura di me. Ero così furiosa con me stessa, che trascorsi il resto della mattina dandomi dell’idiota ad intervalli regolari. Per distrarmi, pensai bene di rivedere un film che avevo visto solo una volta all’anno, negli ultimi 18 anni, Pretty Woman. Ero conscia del fatto che mi stavo facendo del male, ma volevo dimenticare di esistere per un paio d’ore. Mentre la maggior parte delle donne si innamoravano del personaggio interpretato da Richard Gere, io mi ero innamorata del direttore dell’albergo, chissà perché. Quando riemersi da quella sorta di coma indotto, in cui ogni volta mi gettava quel film, decisi che avrei dovuto farmi forza e mangiare qualcosa, benchè non avessi appetito. Fu allora che squillò il telefono. Era Sirio.
- Come va? – gli chiesi.
- Sei impegnata, in questo momento? – mi domandò, sorvolando sulle formalità.
- No. Hai qualche proposta interessante? 
- Sì, aiutami a ripulire il negozio. Qui si è allagato tutto. Vieni appena puoi. Ah, metti gli stivali di gomma.
- Arrivo subito.
Mi rimproverai per non averci pensato prima. Era logico che l’acqua sarebbe entrata nel locale, ma io avevo la testa altrove e, a quanto pare, non nel posto giusto. Quando vi arrivai, fui enormemente sorpresa di trovare al lavoro, oltre a Sirio e Marco, anche uno spaesato Edmondo e un ragazzino dal volto piuttosto familiare.
- Ciao a tutti. Serve una mano? – dissi entrando.
- Benvenuta. La situazione non è troppo catastrofica, ma se non avessimo trovato dei volontari, ci sarebbe voluta tutta la notte. Aiuta Marco di là, per favore.
- Agli ordini, capo. – dissi, lanciando uno sguardo interrogativo al duca e dirigendomi in fondo al locale.
Marco stava finendo di raccogliere l’acqua con un bidone aspiratutto. Quando lo spense, graziandoci dal suo rumore infernale, mi disse:
- Menomale che abbiamo gli scaffali rialzati. L’acqua non è arrivata ai volumi, altrimenti…
- Che ci fa il duca, qui? E chi è quel ragazzino? – sussurrai.
- Il duca passava per caso e si è offerto di darci una mano. Il ragazzino lo abbiamo trovato che guardava dalla vetrina: era preoccupato per i nostri capolavori di astronomia. Ti dice niente? 
- Allora è lui! Lo vedevo entrare e uscire, ma non ci avevo fatto caso. 
- Neanch’io. Mi sembrava interessato soprattutto ai fumetti, invece…
- Beh, avete quasi finito qui, come mai non mi avete chiamata prima? 
- Sirio voleva evitare che ti affaticassi. Ci tiene molto a te. 
- E’ un vero amico. 
- Lo puoi dire forte. Ho la schiena a pezzi. – si lamentò.
Poi fummo interrotti da Sirio, che ci disse:
- Basta così, ragazzi. Domani mattina alle sei viene una squadra a pulire. Che ne dite di andare tutti a cena? Offro io.
Edmondo ed io ci guardammo. Era destino che ancora una volta cenassimo insieme. Stavolta, però, non saremmo stati soli. Il ragazzino, che si chiamava Ivan, declinò educatamente l’invito. Sirio gli regalò un volume di astronomia, lo ringraziò e gli disse che lo avremmo riaccompagnato subito a casa.
Anche lui abitava dietro l’angolo. Sirio lo salutò con calore e poi ci chiese dove preferivamo andare a mangiare.
- Decidi tu. – risposi per tutti.
- Allora andiamo al solito posto.
Il solito posto era il “Faro Blu”, dove avevamo incontrato Edmondo che cenava in compagnia della figlia e dove potevamo tranquillamente arrivare a piedi. E a proposito di piedi, mi resi conto che, escluso il duca, tutti indossavamo elegantissimi stivaloni di gomma.
- Lanceremo una nuova moda. – esclamai, osservandomi le calzature.
- Non preoccuparti degli accessori. Pensa piuttosto a cosa vuoi mettere sotto i denti. – obiettò Sirio, sbrigativamente.
- Stai benissimo anche così, Alba. – mi consolò il duca, rivolgendomi la parola per la prima volta, quella sera.
- Temevo non ti ricordassi più di me. – gli sussurrai, scherzando.
- Sarebbe impossibile, credimi. – mi rispose lui, con tono troppo serio.
Sirio, che ci aveva ascoltato, ci guardò in modo bizzarro.

 

        Durante la cena, Sirio ed Edmondo, seduti l’uno di fronte all’altro, si studiarono attentamente. Marco ed io, sentendoci del tutto esclusi dalla conversazione che si svolgeva fittamente tra loro, iniziammo a discutere per i fatti nostri, ignorandoli. Ogni tanto il duca mi lanciava una strana occhiata, come cercando spiegazioni o supporto a quanto Sirio andava via via affermando. Ma io, che stavo discutendo con Marco, non potevo essergli di alcun aiuto, non sapendo nemmeno di cosa stessero parlando. Quando uscimmo dal ristorante, Sirio affermò perentoriamente che mi avrebbe accompagnata a casa, salutando gli altri due, che sarebbero andati in direzione opposta. Il duca ed io, congedandoci, ci guardammo lievemente stralunati. Quando giungemmo sotto casa, salutai Sirio, ringraziandolo per la cena, ma lui non era stanco. Si trattava di una di quelle sere in cui saliva a prendere il caffè da me.
- Cosa c’è tra te e il signor De Luna? – esordì, dal divano.
- Abbiamo fatto amicizia. – gli risposi, tranquillamente.
- Questo è quello che credi tu, ma lui ha ben altri scopi.
- Sei uno che guarda avanti. Io, che pure sono la diretta interessata, ignoro ancora quali sviluppi prenderà questa storia. 
- Stai attenta alle ragazzine. – mi ammonì.
- Quella era sua figlia. – lo informai, intuendo a cosa si riferisse.
- Te l’ha detto lui?
- Sì.
- E tu gli credi? – mi chiese, osservandomi con scherno.
- Perché non dovrei?
- Conosco il tipo. Mente per sport. Hai sentito stasera cosa si è inventato? Si spaccia per l’Ennio Morricone del quartiere. Probabilmente, fare il ragioniere in qualche ditta dell’interland, gli sembra poco affascinante. 
- E’ un musicista, ho visto il suo studio, e ti posso assicurare che suona benissimo. – lo difesi.
- Ah, sei stata nel suo studio. Bene. L’avrà affittato per l’occasione. 
- Perché ci tieni tanto a denigrarlo a tutti i costi? Lo conosci appena. Ti assicuro che è una persona squisita.
- Sei già a questo punto? Va bene, allora. Spero che tu non debba pentirtene. – dichiarò, quasi fosse una minaccia.
- Sirio, cosa c’è? – gli chiesi, rendendomi conto che si stava comportando in maniera insolita.
- Niente. Non voglio che qualcuno ti faccia del male.
- Edmondo non mi farà del male. – lo rassicurai, sorpresa.
- Stai pur sicura che io non glielo permetterò. – assicurò lui, risolutamente.
- Io, non glielo permetterò. E preferirei che tu ti astenessi dall’interferire. – obiettai.

        Il mattino seguente, in libreria, mi giunse una telefonata di Edmondo, che mi comunicava di doversi allontanare per lavoro. Sarebbe rimasto per un paio di settimane a Barcellona.
- Allora, buon viaggio. Ci vediamo quando torni. – gli dissi, trafitta da una sottile punta di delusione.
- Se non ci vediamo prima, Buon Natale. – aggiunse.
- Ah, sì. Buon Natale anche a te. 
L’idea di non rivederlo per due intere settimane e forse di più, mi calò con morbidezza e con indubbio anticipo, nella plaga di tristezza che mi accompagnava da anni nel periodo prenatalizio.
Sirio riconobbe immediatamente i sintomi ed iniziò ad intensificare i nostri incontri. Mi chiese del duca soltanto una volta e quando lo informai della sua assenza, non lo nominò più. A Natale tornai dalla mia famiglia. Mia sorella ci raggiunse con il marito e i due figli. Mio fratello fece una breve apparizione con la sua nuova ragazza. Nonostante la mia tristezza di fondo, riuscii a mostrarmi quasi allegra e senza pensieri. Una telefonata di Sirio, fu la scusa scatenante per chiedermi cosa aspettavo a sistemarmi. Era quello che temevo sin dal primo istante in cui avevo rimesso piede in casa. Questa volta ebbi il coraggio di rispondere che stavo benissimo come stavo, affrontando il pistolotto che inevitabilmente ne sarebbe seguito. Comunque, fu meno dura del previsto, forse perché in loro erano subentrate la stanchezza e la rassegnazione. Stanchezza di ripetermi da anni che dovevo sistemarmi e rassegnazione a ritrovarsi una figlia zitella. Così mi chiamavano, perché nel loro gergo non aveva ancora fatto presa il termine “single”, che io mi ostinavo invece ad usare.

 

        A Santo Stefano ripresi il treno per tornarmene a casa, con un senso di sollievo più marcato del solito. Per tutto il viaggio mi tuffai nella lettura, con l’intento preciso di non pensare a nulla, ma appena giunta a casa mia, una volta chiusa la porta, mi assalì un nuovo senso di solitudine, come non avevo mai provato prima. L’angoscia devastante che mi torceva le budella, mi spinse verso la consolazione di un intero barattolo di nutella, prova di autolesionismo che mascheravo con la convinzione che la cioccolata fosse un potente antidepressivo. Ma subito dopo, pensai al duca. Anche lui avrebbe potuto costituire un efficace antistress, soltanto che non sapevo dove fosse finito. Mi venne in mente che forse mi aveva cercata, senza trovarmi. Non ci eravamo mai scambiati il numero di cellulare e in quel momento mi domandai perché. Decisi di provare all’unico numero che conoscevo, quello di casa sua.
- Pronto. – mi rispose la sua voce di velluto.
- Ciao, Edmondo. Passato bene il Natale? – gli chiesi, senza
presentarmi.
- Bene, grazie. Ma chi è?
- Sono Alba, ti ricordi di me?
- Alba. Che voce strana... Che c’è? Non stai bene? – chiese subito, con preoccupazione.
- Ho avuto momenti migliori. – risposi, chiedendomi come doveva essere la mia voce per impedirgli addirittura di riconoscermi.
- Vengo a trovarti? – si offrì.
- Sì, grazie. – accettai con gratitudine.
- Arrivo. 
E arrivò, dopo un quarto d’ora. Non avevo neppure portato la valigia in camera da letto. La trovò di fianco alla porta d’ingresso, la guardò, poi guardò me e la mia espressione dovette costituire una buona motivazione per spingerlo ad abbracciarmi. Era la prima volta.
- Che ti succede? – mi chiese, con apprensione.
- Niente. Sono appena tornata. Il Natale mi deprime. 
- Ti capisco. Anch’io ho iniziato ad odiarlo, da qualche tempo. 
- Com’è andata a Barcellona? – gli chiesi, per cambiare argomento.
- Bene. – rispose, titubante.
- Mi fa piacere. 
- E Sirio come sta? – mi chiese, un po’ freddamente.
- Sirio? Bene, credo.
- E’ il tuo fidanzato, no? – mi domandò, mettendosi le mani in tasca.
- No. E’ il mio capo, siamo amici. Come ti è venuto in mente? 
- Come? Si è comportato in maniera piuttosto possessiva con te, quella sera al ristorante. E tu lo hai lasciato fare senza opporti. Ho pensato… 
- Ti sbagli. – lo interruppi - Ero sorpresa anch’io. Di solito non si comporta in quel modo. 
- Strano, Sirio mi ha fatto il terzo grado e poi mi ha provocato. Sembrava in competizione con me. Aveva assunto il tipico atteggiamento di qualcuno che deve dimostrare che quello è il suo territorio e si riferiva chiaramente a te. Ti assicuro che mi ha lanciato segnali inequivocabili. C’è mancato soltanto che mi dicesse di sparire. Non te ne sei accorta? 
- No, – risposi, stupita – stavo parlando con Marco. -
- E’ per questo che mi sono tolto di mezzo. – mi confessò.
- Cosa? Vuoi dire che sei andato a Barcellona per non vedermi?
- Francamente, non mi sono mosso da casa. Ho soltanto fatto un po’ l’eremita. Ma se tu e Sirio siete solo amici… allora posso sperare che… – si interruppe.
Io lo fissai, tentando di dare una forma di senso compiuto a ciò che mi aveva appena rivelato e che il suo sguardo continuava a dirmi. Emozionata, gli saltai al collo e lo abbracciai, attirata irresistibilmente dal calore magnetico dei suoi occhi. Edmondo mi scostò leggermente da sé per baciarmi. Poi mi strinse ancora. Un nodo irrigidito e remoto, posizionato profondamente dentro di me, si sciolse all’improvviso.
- Quanto mi sei mancata. – mormorò, sospirando.
- Anche tu. Tremendamente. 
- Non voglio più separarmi da te. – aggiunse, con l’intonazione di voce con cui si pronunciano le decisioni irrevocabili e lo sguardo con cui si osserva un miracolo a cui non si riesce a credere.
Era la prima volta che gli vedevo abbandonare l’atarassia che lo contraddistingueva, per mostrarmi l’ardente sentimento che lo aveva sopraffatto.
All’improvviso il duca scoppiò a ridere.
- Sono felice! – affermò, con un’espressione di inopinato stupore.
- Anch’io. – risposi, ridendo con lui.
- E’ sorprendente. Credevo che non mi sarebbe mai più capitato. 
- Impossibile. C’è sempre un po’ di felicità che ci aspetta dietro l’angolo. – obiettai, sorprendendomi io stessa di quell’affermazione.
- Quindi il trucco sta nel girare l’angolo. E io che mi ostinavo ad andare sempre dritto per la mia strada! 
- Forse, dopotutto, non sei così saggio come avevo creduto.- scherzai.
- Te l’avevo detto, no? –

        Repentinamente, la mia vita prese una nuova piega, decisamente più appagante. Avevo pulsioni sessuali represse da così lungo tempo, che la stupefacente scoperta delle mie sensazioni fisiche mi assorbì completamente per parecchi giorni. Spesso passavo la notte dal duca e così, un po’ alla volta, una parte dei miei effetti personali avevano traslocato da lui. Al mattino, in cinque minuti ero in negozio. A Sirio non avevo ancora confidato la mia nuova situazione sentimentale, ma ero cosciente che prima o poi sarebbe stato meglio farlo, nonostante il timore della sua reazione. In fondo, se eravamo soltanto amici, era perché così lui aveva voluto. Edmondo fu d’accordo che continuassi a vederlo come prima, non trovando giusto che abbandonassi i miei amici per lui. In questo si dimostrava, senza dubbio, molto più aperto e comprensivo di Sirio. Una sera, mentre cenavamo al “Faro Blu”, Sirio mi chiese se avevo notizie di Edmondo. Pensai che fosse giunto il momento di chiarire la situazione.
- Sì. Ci vediamo spesso. – ammisi, semplicemente.
- Ah, e come va? – mi chiese, leggermente irritato.
- Benissimo. – risposi, con enfasi, decisa a non risparmiargli nulla.
- Addirittura! State già insieme? – intuì.
- Sì. – confessai.
- Allora è riuscito a fregarti, finalmente. E bravo il nostro signor De Luna. – disse, sarcastico.
- E’ una persona a posto. – affermai, con decisione, iniziando ad essere irritata anch’io.
- Ma non farmi ridere. Li conosco i tipi come lui. A vederli sembrano perfetti, ma quando scavi a fondo, sotto tutta quella bella patina di perbenismo, trovi la fogna. 
- Ma di che cosa stai parlando? – insorsi.
- Togliti al più presto quelle fette di salame che ti sei messa sugli occhi, forse lo vedrai finalmente com’è in realtà. – mi consigliò soltanto, senza fornirmi il benché minimo appiglio, perché un qualunque dubbio mi scaturisse dalle sue implacabili certezze.
Nonostante questo piccolo diverbio, Sirio non diradò i nostri incontri, tentò semmai di moltiplicarli, finchè non mi trovai costretta a rifiutarne qualcuno, replicando che avevo già preso un impegno con il duca. Ogni volta la sua reazione era la stessa.
- Quando ti deciderai a capire? – mi diceva, con arroganza.
Era diventato il suo ritornello preferito. Sembrava che fosse a conoscenza di notizie inquietanti sul conto di Edmondo, che si rifiutava categoricamente di convidividere con me, pretendendo, però, che ci arrivassi da sola. Ma io, più conoscevo Edmondo, più lo trovavo meraviglioso e più irritante mi appariva il superficiale ed incomprensibile atteggiamento di Sirio, conducendomi ad odiare i suoi toni mordaci e, a volte, persino violenti.

 

        Riflettendoci attentamente, l’unica giustificazione che potesse motivare l’atteggiamento di Sirio, mi parve un’inspiegabile gelosia. Incomprensibile, soprattutto, perché non ero stata io a rifiutarmi a lui, costretta piuttosto a circoscrivere entro limiti che lui stesso mi aveva imposto, sentimenti che, da parte mia, avevano spaziato ben oltre quelli che lui riteneva conformi alle sue esigenze. Del resto, in passato, Sirio si era sempre dimostrato aperto e leale nei rapporti umani. Era anticonformista, è vero, ma soltanto per opporsi a convenzioni che riteneva inutili retaggi o sterili atteggiamenti privi di consistenza. Inoltre, era profondamente attento alle libertà altrui, tanto più perché riteneva fondamentali ed inalienabili le proprie. Tutto ciò mi provocava l’impressione di un serie di incredibili contraddizioni che non erano da lui.
Quanto ad Edmondo, mi sembrava di scoprire, giorno dopo giorno, un’attitudine innata alla comprensione verso i propri simili, a una disponibilità aperta e rassicurante, che mi aveva incoraggiato a mettermi a mio agio, privandomi degli strati coriacei di cui mi ero rivestita, senza neanche prenderne coscienza, per difendermi dagli attacchi esterni che minavano le mie deboli certezze o colpivano la mia esagerata impressionabilità. Poiché non mi era facile parlare di me stessa, metteva all’opera la sua incredibile sensibilità, riuscendo a comprendere, di me, aspetti che quasi io stessa ignoravo. Nonostante tutto, Sirio ed Edmondo non mi apparivano lontani anni luce. Qualcosa che non riuscivo a definire, me li rendeva, nel pensiero e nell’impronta che lasciavano in me, non solo molto simili, ma anche inevitabilmente compatibili.
Arrivai al punto di credere che, se fossi riuscita a metterli di nuovo uno di fronte all’altro, senza preconcetti, forse avrebbero potuto diventare amici. Ma come si può liberare qualcuno dai preconcetti a cui si è affezionato? Io non lo sapevo. Annaspavo nel buio e mi rovinavo, pensandoci, i momenti di appagamento e di esultanza che il rapporto con Edmondo mi stavano regalando.

        Il 15 di marzo nevicò, come il duca, profeticamente, aveva previsto. Fu una bella bufera, come nessuno si aspettava, che bloccò l’intera città. Marco ed io aprimmo ugualmente il negozio e ci limitammo a guardare fuori dalle vetrine la neve che infuriava, fino all’ora di pranzo, senza che nessun cliente vi avesse messo piede. Telefonai a Sirio, comunicandogli che ritenevo del tutto inutile riaprire nel pomeriggio. Con la sua approvazione, Marco ed io chiudemmo la libreria e affrontammo il ritorno a casa, affondando nella neve che aveva raggiunto i trenta centimetri. Naturalmente decisi di andare a casa di Edmondo, che era proprio dietro l’angolo. Lo trovai alle prese con un brano che non riusciva a far combaciare esattamente con la sequenza di un filmato, che scivolava tra verdi paesaggi irlandesi e veloci zoomate sul mare in tempesta. Edmondo era un perfezionista che non si arrendeva mai. Se aveva in mente un’idea, si ostinava a cambiare, limare, adattare, fino a raggiungere esattamente lo scopo che si era prefisso. Io lo ammiravo per questo. Vedendolo tanto preso dalla sua opera creativa, cercai di non disturbarlo. Andai in soggiorno e mi misi alla ricerca di un film da guardare. Il duca possedeva una fornitissima videoteca, ma nel lettore c’era sempre lo stesso film e la tentazione di premere il play del telecomando, fu più forte di me. Verso la fine del film, V invitò Evey a fare un ballo con lui. La ragazza si stupì che proprio la sera della sua rivoluzione, V pensasse a ballare.
- Una rivoluzione senza un ballo, è una rivoluzione che non vale la pena di fare. – le rispose V, in coro con Edmondo, che era arrivato silenziosamente alle mie spalle.
- Vedo che non ti stai annoiando. – commentò, simpaticamente.
- Perché dovrei? Trovo sempre qualcosa da leggere o da vedere. – gli risposi, sorridendo.
- Sai, mia moglie, con me, si annoiava, - mi confidò – forse perché ero sempre in casa, mentre lei avrebbe desiderato una vita movimentata, più dinamica, più frenetica, “piena”, diceva lei. –
- E poi l’ha avuta? – gli chiesi.
- Credo di sì, ma non ne abbiamo mai parlato. Non ci parliamo più, da quando è andata via. Non riesco a parlare nemmeno con mia figlia. Le poche volte che accetta di uscire con me, preferisce mostrarmi il broncio, senza mai spiegarmi cosa ho fatto per meritarmelo. Comunque, non credo che cambierebbe qualcosa, sapere per quale motivo mi odia.
- A volte si odia qualcuno che ci ama, perché pensiamo che dovremmo ricambiarlo in egual misura, ma non ci riusciamo. E’ il senso di colpa che questo ci provoca, che odiamo, in realtà, non la persona che scatena questi sentimenti. 
- Probabilmente hai ragione, ma questo non mi aiuta a soffrire di meno. 
- Lo capisco.
- Ho composto un brano per lei. Lo vuoi sentire? – mi propose.
- Volentieri. – accettai, pensando a come ci si dovesse sentire, sapendo che qualcuno aveva creato solo per noi una musica, un quadro o una poesia.
Il brano che mi fece ascoltare era bellissimo. Chiudendo gli occhi, mi sentii trasportata in mezzo ad un mare in tempesta, con nubi bianche e grigie che si rincorrevano velocemente in un cielo d’un azzurro cobalto. Le onde si innalzavano in spume bianche e sfilacciate sino a raggiungere coraggiosi gabbiani in lotta col vento.
Quando la musica si spense, riaprii gli occhi. Edmondo mi stava guardando.
- Ti è piaciuto? – mi chiese.
- E’ bellissimo. – mormorai.
- Credi che le piacerà?
- Credo che vi si riconoscerà. – affermai.
- Lo credo anch’io. 
Più tardi, visto che eravamo in vena di confidenze, gli raccontai dei miei problemi con Sirio.
- E tu pensi che conoscendomi meglio, mi odierebbe di meno? - mi chiese, con espressione dubbiosa.
- Si renderebbe conto che le sue paure per me, sono infondate, se è questo a spingerlo. – spiegai.
- E come pretenderesti di fare?
- Vorrei che vi frequentaste. – osai.
- Io non avrei nulla in contrario, ma temo che a Sirio quest’idea non piacerebbe molto, da quello che mi hai appena raccontato. 
- Lo so, ma vorrei convincerlo in qualche modo. 
- Come? – chiese, con un sospiro.
- Non lo so. – ammisi.
Dopo qualche momento di riflessione, Edmondo mi chiese:
- Gli piace la musica?
- Sì, molto. Anche il genere che fai tu. 
- Allora gli preparerò un cd con i miei pezzi migliori. Chissà che non lo ammorbidisca.
- E’ un’ottima idea. Grazie. Lo so che lo fai solo per me. 
- Lo faccio per noi. – precisò, abbracciandomi.

 

        Alla prima occasione, consegnai il cd a Sirio, invitandolo ad ascoltarlo e spiegandogli che Edmondo lo aveva messo insieme proprio per lui, sapendo che quel genere gli piaceva.
- Troppo buono. – commentò, assumendo quel tono che odiavo.
Nonostante ciò, mi spinsi fino a confessargli che la sua ostilità nei confronti di Edmondo mi feriva e che avrei desiderato che si rivedessero, per conoscersi meglio.
Poi cambiai repentinamente argomento, per evitare che ricominciasse a parlarmi male del duca. Non lo avrei sopportato.
Qualche giorno dopo mi telefonò in libreria, dicendomi che aveva ascoltato il cd e che, effettivamente, gli era piaciuto. Mi chiedeva di ringraziarlo e, se proprio ci tenevo, di organizzare una cena per incontrarci tutti e tre insieme. Edmondo mi aveva già offerto la sua disponibilità a incontrarlo da lui, così fui in grado di proporglielo sul momento.
- A casa sua? Beh, un posto vale l’altro, ma lo faccio solo per te, visto che ci tieni tanto. – accettò.
Lo ringraziai e ne informai subito Edmondo, che rimase sorpreso che Sirio avesse accettato. Io, del resto, non lo ero di meno, ma la speranza di ripianare quella situazione spigolosa era più forte del timore di ottenere solo un fiasco clamoroso.

        La sera dell’attesa cena, quando Sirio si presentò a casa di Edmondo, notai una coincidenza che non sapevo se considerare semplicemente bizzarra oppure occultamente premonitrice. Entrambi indossavano blue-jeans e maglione blu, su una camicia azzurra. Sembravano quasi gemelli. Lo stesso colore di capelli e di occhi, lo stesso gesto per stringersi la mano, lo stesso sorriso un po’ forzato. Non avevo mai notato quanto si assomigliassero, persino nella corporatura e nell’altezza. Ma loro non ci badarono, credo, o finsero di non accorgersene.
Avevamo preparato la cena con molta cura. Io conoscevo perfettamente i gusti di Sirio, quindi era stato uno scherzo, mettere insieme i suoi piatti preferiti. Edmondo pensò a renderli anche piacevoli alla vista e ci abbinò i vini giusti. Tutta questa attenzione diede i propri frutti. Sirio si sentì coccolato e si ammorbidì via via che la serata scorreva. Giunti al dolce, eravamo tutti alcolicamente allegri.
La musica in sottofondo era molto discreta. Nei bicchieri avevamo una consistente dose di Ben Ryè, che ci raccontava dei profumi del sud, del calore rovente di vigneti assolati, dell’oro biondo dei tramonti.
- Ci vorrebbe una canna. – dichiarò Sirio, totalmente rilassato.
- Mi dispiace, non tratto l’articolo. – gli comunicò Edmondo, con espressione contrita – In sostituzione, posso offrirti un più convenzionale sigaro cubano.
Sirio rise, declinando l’offerta. Poi chiuse gli occhi per un momento, come inseguendo un pensiero su cui gli fosse necessario concentrarsi.
- Questa musica mi fa pensare ai viaggi che facevo da ragazzo - iniziò a raccontare Sirio – Allora, mi sembrava che tutto il mondo fosse a mia disposizione, che qualunque cosa desiderassi fosse lì a portata di mano e che non dovessi far altro che sceglierla tra mille ed afferrarla. Mi sentivo libero e felice, anche senza un soldo in tasca. Se mi volto indietro, non riesco a vedere quando è stato che tutto questo è cambiato. Un giorno ero libero e il giorno successivo non lo ero più, eppure quel momento, che è stato così fondamentale nella mia vita, mi sfugge, non lo ricordo per niente. Non è strano? Sono i finiti i viaggi, sono finite le avventure, è finita la giovinezza, ma mi sono rifiutato di vederlo. A volte siamo così ciechi. – concluse.
- Io, invece, ho sempre viaggiato solo col pensiero, attraverso la mia musica. E a volte penso di non aver mai vissuto veramente. Non ho storie da raccontare, persone da ricordare, o luoghi di cui avere nostalgia. Eppure la mia giovinezza se n’è andata lo stesso. Ti invidio un po’, sai. Tu almeno hai vissuto davvero. – gli disse Edmondo.
Sirio lo guardò come se lo stesse vedendo realmente solo in quel momento, gli sorrise e affermò:
- Tu mi piaci.
Pensai che fosse ubriaco.
- Anche tu mi piaci. – rispose il duca, con la sua espressione più tranquilla.
Qualcosa, inaspettatamente, era cambiato. I due uomini che, in un certo senso, avevo costretto a confrontarsi, avevano fatto cadere le loro difese e ora si riconoscevano per quello che erano: solo due esseri umani, del tutto diversi, ma inevitabilmente simili. Io restai in silenzio a guardarli. Nel bel mezzo della conversazione che seguì, il duca gli chiese:
- Che faresti tu, se tua figlia ti odiasse? 
Sirio trasalì leggermente.
- Io non ho figli. – rispose lui, indeciso – Non so se riesco a mettermi nei tuoi panni. Certo, ne sarei angosciato. Forse tenterei di capire da dove nasce la sua ostilità. Capire quale sia la causa di un problema, a volte aiuta a risolverlo, se è possibile.
- Ci ho provato in tutti i modi, ma non riesco a strapparle una parola. Non so più cosa fare. – concluse, con imbarazzo.
- Non saprei proprio come esserti d’aiuto. – si dispiacque Sirio.
- Se ti venisse in mente qualcosa, sai dove trovarmi. 
Così come avevo sperato, anche senza riuscire a crederci, quella sera una nuova complicità nacque tra loro. Era solo l’inizio di una larvata amicizia, ma era di sicuro più di quanto mi fossi aspettata.

 

        Il 15 di giugno era il diciottesimo compleanno di Irene. Edmondo decise di invitarla a pranzo e pretese che io fossi presente. Tutte le mie obiezioni fecero un buco nell’acqua. Il primo regalo che le aveva fatto era una serata in un locale notturno, affittato solo per lei, dove Irene avrebbe potuto radunare tutti i suoi amici. Ma l’aspettavano altri regali, a cui Edmondo teneva di più. Irene non si mostrò molto sorpresa di trovarmi in casa del padre, forse perché Edmondo le aveva parlato di me. Io ero un po’ sulle spine, perché ero convinta che l’ostilità che nutriva nei suoi confronti, si sarebbe trasmessa automaticamente anche a me.
Inaspettatamente, Irene mi parlò con naturalezza dei suoi amici, degli studi che desiderava intraprendere, del suo amore per l’arte. La mia curiosità mi spinse a chiederle di sua madre, ma notai che l’argomento la metteva a disagio e lo lasciai cadere immediatamente.
Al momento di consegnarle i regali, che avevamo preparato per lei, Irene insorse:
- Basta, papà. Mi hai già regalato la festa in discoteca.
- Ma a questi tengo di più. – si difese lui. – Questo è da parte di Alba.
Era una raccolta di poesie di Neruda che io, alla sua età, avevo amato molto.
- Grazie. – mi disse, dopo averlo scartato – Come facevi a sapere che amo la poesia? Non lo sa neanche mio padre! – commentò, stupita.
E un po’, ero sorpresa anch’io.
Poi fu la volta di Edmondo.
- L’ho composta solo per te. Spero che ti piaccia. – le disse, quando Irene si rigirò il cd tra le mani.
- Solo per me? Nessun altro lo sentirà mai? – si stupì.
- Solo tu. – confermò Edmondo.
E poi le consegnò una busta, dalla quale Irene estrasse un cartoncino con l’immagine di un aereo.
C’era scritto “Buono Premio per un viaggio in...”
- Un viaggio dove? – chiese lei, con gli occhi che le brillavano.
- Dove vuoi tu. – rispose il padre. – Anche in capo al mondo.
- Ci devo pensare. Ci devo pensare molto attentamente. Quanto tempo ho?
- Quanto vuoi. Decidi tu. – le rispose.
- Grazie. Grazie infinite. – mormorò, abbandonando decisamente il suo atteggiamento distaccato, che la faceva somigliare notevolmente al padre.
Nel pomeriggio, invece di andarsene subito, come avevamo previsto, si trattenne con noi. Mentre Edmondo era impegnato altrove, mi disse:
- Sono contenta che tu stia con mio padre. E’ sempre stato troppo solo.
- Anch’io sono contenta di averlo conosciuto, e anche di conoscere te. Tu mi ricordi com’ero io alla tua età. 
- Spero di no. La mia vita è un inferno.
- Hai qualche problema, Irene? Posso aiutarti? – mi offrii.
- Nessuno può aiutarmi. – affermò, quasi con freddezza.
Non so perché, ma mi sorse il dubbio che non si trovasse bene con la madre.
- Adesso che hai diciotto anni, se volessi, potresti decidere di venire a vivere con tuo padre. – osai.
Lei mi guardò, stupita.
- E a te non darebbe fastidio?
- Ma che dici? Ne sarei felicissima. 
- Grazie. – mi disse – Non sai cosa significhi per me. E pensi che mio padre sarebbe d’accordo? 
- Ma scherzi? Ti ama più di se stesso. Sei il suo pensiero dominante, te lo assicuro. 
- Allora lo farò. – stabilì, come se quella decisione fosse stata a lungo meditata e non aspettasse altro che di poterla mettere in atto.
Quando Edmondo tornò in soggiorno, Irene lo mise a conoscenza del suo desiderio di tornare a vivere con lui. Il modo in cui si abbracciarono mi fece molta impressione. Davvero Irene avava odiato suo padre? Ero convinta che ci fosse stato un malinteso di base, un’incomprensione che aveva offuscato il loro rapporto, malgrado tutto l’affetto che esisteva tra padre e figlia. Ero certa che prima o poi l’avrebbero chiarito.
Quando Irene se ne andò, Edmondo mi guardò in modo strano, tra l’incuriosito e il perplesso.
- Come hai fatto? – mi chiese.
- A fare cosa? – gli chiesi a mia volta, non riuscendo a capire.
- Non era Irene, quella. Le hai fatto qualcosa, confessa.
- Io non c’entro niente. Avete fatto tutto voi, a qualunque cosa tu ti stia riferendo.
- Vuole vivere qui. Ti rendi conto? Questo vuol dire che non mi odia. – affermò, ancora stupito.
- La tua impressione che Irene ti odiasse, era sbagliata. Tutto qui. Io invece ho avuto l’impressione che abbia dei problemi con sua madre.
- A me non ne ha mai parlato. Cosa ti ha detto?
- Assolutamente niente. Ha solo accennato che la sua vita è un inferno e che nessuno può aiutarla. 
- Parlerò con Ida. Del resto, se Irene vuole vivere con me, non può opporsi, adesso che è maggiorenne. Nessun tribunale può più costringerci a fare diversamente da come abbiamo deciso. Spero solo che non cambi idea. 
- A me è sembrata molto decisa e che ci abbia riflettuto a lungo. Non credo proprio che cambierà idea. – affermai.
Edmondo mi abbracciò.
- Sono così felice. – mormorò.
- E io sono felice per voi. – commentai.
- La tua presenza ha cambiato tutto. Tu stai trasformando la mia vita in un modo che non avrei mai creduto possibile.
- Non sono io che sto cambiando la tua vita. Sei tu che la stai portando dove desideravi che andasse. – obiettai.
- Non sai quello che dici. Non lo sai proprio. – ribadì.
Lasciai che restasse nelle sue convinzioni, nonostante fossi assolutamente sicura di non avere alcun merito in quello che stava succedendo alla sua vita. Se gli faceva piacere pensarlo, perché rovinargli l’illusione? Prima o poi si sarebbe reso conto di essere lui il motore che spingeva l’auto in quella nuova direzione e che io, semmai, mi stavo limitando ad essere il suo passeggero.

        Due giorni dopo, Irene si presentò a casa del padre con un grosso zaino stracolmo e un trolley al seguito. Sembrava reduce da un lungo viaggio, mi raccontò Edmondo. E forse lo era, se non in termini di distanza, quantomeno di riflessione. Aveva preso un taxi ed era venuta via senza avvertire la madre, perché temeva che avrebbe tentato in ogni modo di fermarla. Edmondo si preoccupò di avvertirla e nonostante il suo tono calmo e freddo, gli acuti delle urla di Ida che giungevano dalla cornetta del telefono, si sentirono da lontano. Edmondo concluse dicendole che ne avrebbero riparlato quando si fosse calmata, chiudendo la comunicazione. Io ero giunta appena in tempo per assistere a quella telefonata. Mi offrii di aiutare Irene a disfare i bagagli e lei accettò con un sorriso. Sembrava decisa e tranquilla, mentre riordinava la sua vita, i cassetti e gli abiti nell’armadio. Poi svuotò lo zaino sul letto, che si coprì di qualche centinaio di cd, la memoria esterna di un PC, una miriade di libri, un paio di peluches e altro ancora, che mi stupii potessero essere entrati tutti in quello zaino che si era portata in spalle con estrema noncuranza, come fosse privo di peso.
- Peccato che non ho potuto metterci il mio computer. – si lamentò.
- Ne avrai un altro, non preoccuparti. – la consolai.
- L’importante è che ora sono qui. – affermò con espressione sollevata.
Edmondo si affacciò sulla porta.
- Domani andremo a scegliere i mobili per il tuo studio. – le annunciò.
- Il mio studio? – ripetè Irene, stupita.
- La stanza qui accanto. Ci metteremo una scrivania, delle librerie, un computer e tutto quello che vorrai. – affermò Edmondo, sorridendo del suo stupore.
Irene si avvicinò a lui e lo abbracciò, senza proferire parola. Poi tornò a mettere ordine nelle sue cose.
Edmondo mi fece cenno di seguirlo ed io lasciai la stanza, pensando che Irene si stava già creando il suo piccolo mondo.
- Ida mi ha accusato di sequestro di persona. E’ impazzita. – mi confidò, appena fummo a distanza di sicurezza.
- Irene è maggiorenne. Può decidere da sola, adesso. Se c’è qualche pratica da sbrigare per rendere legale il suo trasferimento, il tuo avvocato te lo potrà indicare. – gli consigliai.
- Certo, lo chiamerò per prima cosa, domattina. Intanto pensiamo a infilare qualcosa nello stomaco.

 

        I giorni seguenti furono molto frenetici, non per me, che ero sempre legata al mio lavoro in libreria, ma per loro, che stavano costruendo con impegno un nuovo rapporto e ammobiliando una stanza che era rimasta vuota fino ad allora, come in attesa di quel momento. A coronamento di tutti quei progetti, si aggiunse l’iscrizione di Irene alla Scuola Guida. Desiderava prendere la patente, per potersi sentire definitivamente libera, mi disse.
Io mi ricordai che avevo la patente, sebbene non possedessi un’automobile, e che questo non mi aveva mai trasmesso alcuna sensazione di libertà. Attribuivo questa illusione all’ingenuità dei suoi diciotto anni. La libertà è un ideale, un simbolo potente, ma come tale, del tutto irraggiungibile. E’ sufficiente amare qualcuno o qualcosa, per rendercene schiavi e sottomessi. Così la libertà va a farsi benedire. Ma non ritenni giusto contraddire le sue convinzioni. Sapevo che un giorno ci sarebbe arrivata da sola e speravo che accadesse più tardi possibile.

        Ricominciai a trascorrere le domeniche in casa mia, un po’ per lasciare loro il tempo di adattarsi a quella nuova convivenza tra padre e figlia e un po’ perché, in fondo, mi sentivo a disagio, temendo che la mia presenza potesse, in qualche modo, ostacolarla. In un primo momento, Edmondo non oppose obiezioni, ma, giunti alla quarta domenica, alle dieci del mattino, mi piombò in casa con la scusa che stava passeggiando proprio da quelle parti.
- Mi manchi. – esordì, dopo aver bevuto il caffè con me.
- Ma ci siamo visti ieri sera. – obiettai, lievemente stupita.
- La tua presenza mi sembra insopportabilmente provvisoria. Passi e te ne vai, ci sei e non ci sei. Ho bisogno di sapere se vuoi stare con me veramente o se sei solo di passaggio.– mi disse, esplorando il mio viso, come faceva ogni volta che tentava di leggermi dentro.
- Mi stai chiedendo di venire a vivere con te? – gli chiesi.
- Ti sto chiedendo di più. Vuoi sposarmi? – azzardò.
Benchè non fossi affatto preparata ad una simile proposta, esitai soltanto per qualche istante, appena il tempo di chiedermi che cosa ne avrebbe pensato Irene. Ma se lui aveva deciso di compiere quel passo, ero certa che ne aveva prima informato la figlia, quindi non opposi resistenza.
Irene, invece, cadde dalle nuvole. Dopo i primi momenti di imbarazzo, tuttavia, decise che nella vita del padre c’era senz’altro posto per entrambe. Lei vi aveva trovato il suo spazio, io vi avrei trovato il mio. Così mi trasferii definitivamente da Edmondo. Il mio appartamento però restava là, con tutti gli annessi e connessi, in attesa che la decisione che avevo preso a parole, forse un pò alla leggera, si trasferisse risolutamente anche alle mie certezze interiori. In un certo senso, mi sentivo in prova. La convivenza era il primo passo per provare a me stessa che stavo facendo la cosa giusta. Edmondo non nutriva dubbi. Io, benchè credessi di amarlo profondamente, navigavo in un limbo, in cui oscillavo ritmicamente tra ondate di panico e momenti di improvvisa, intollerabile indecisione. Forse avevo vissuto da sola per troppo tempo e avevo abbandonato, senza troppo rifletterci, la mia vita da single, a cui mi ero aggrappata con tutta me stessa per anni, nonostante il desiderio di incontrare qualcuno con cui dividerla. Edmondo era questo qualcuno, ma un sottofondo di timore inspiegabile, mi impediva di godere fino in fondo di quei dolci momenti che il suo amore e la sua dedizione mi donavano. Come sempre, la sua sensibilità gli permise di captare le mie sensazioni, benchè ritenessi di averle ben sepolte nella parte più segreta del mio animo.
- Di che cosa hai paura? – mi chiese, una sera, così, di punto in bianco.
- Paura? Pensi che abbia paura? – ribattei, allarmata.
- Lo sento. In certi momenti ti allontani, come se temessi non so cosa. Io ti amo, non ti farei mai del male. 
- Lo so. – ammisi, con convinzione.
- Di cosa hai paura? Che possa lasciarti? Che cambi idea su di noi? 
- No. Non credo. – obiettai.
- Allora non sei sicura dei tuoi sentimenti per me? – suppose, con espressione dolente.
- Ti amo anch’io. Di questo sono sicura. – lo rincuorai.
- Va bene. Allora, di qualunque cosa si tratti, la supererai, a patto che tu non ti tenga tutto dentro. Apriti con me, saprò comprendere. Devi fidarti di me. 
- Lo faccio. – confermai, abbracciandolo e lasciandolo ugualmente all’oscuro delle mie indecifrabili esitazioni.

 

        Il problema era che non sapevo spiegare nulla neppure a me stessa, confusa da una girandola di vecchie emozioni che quelle nuove non riuscivano a scalzare. Forse non ero del tutto normale, conclusi dentro di me.
Poi, l’aiuto più insperato, mi giunse da Sirio.
- Tu sei come me, l’ho sempre sospettato. – affermò.
- Che vuoi dire?
- Tu sei uno spirito libero, che non può sopportare legami troppo stretti. Ami a modo tuo, lasciando spazio e pretendendolo. Per quanto lungo ti si tenesse il guinzaglio, non lo sopporteresti comunque. Vuoi sempre una porta aperta, da cui poter fuggire quando ti senti afferrare dalla claustrofobia dei sentimenti. Non ti sei mai chiesta perché io non ti abbia mai proposto di stare con me? Eppure ti sarai senz’altro accorta, in tutti questi anni, che l’amore che nutro per te non è quella semplice amicizia con cui ho dovuto camuffare i miei veri sentimenti. 
Quell’ultima informazione, buttata là come per caso, fece un fracasso di tuono. Le orecchie mi rimbombarono come se avesse urlato quelle imprevedibili parole, attraverso un megafono troppo vicino. Dapprima, mi limitai ad esserne esterrefatta, poi mi subentrò un turbamento molto simile a una ritardata delusione, infine, fui travolta da una sorda rabbia incontenibile, che spazzò via i miei pensieri come una tempesta tropicale. Rimasta senza parole, non fui in grado di replicare. Intanto il mio volto, rispecchiando il flusso delle emozioni che provavo, doveva essere passato per tutti i colori dell’arcobaleno, tanto che Sirio si preoccupò e mi costrinse a prendere un bicchiere d’acqua. Appena lo tenni in mano, il primo uso che mi venne in mente di farne fu quello di svuotarglielo violentemente in faccia. Con quel gesto, concreto e simbolico allo stesso tempo, lavai l’onta di essere rimasta sua prigioniera per dieci lunghi anni. Fu un attimo di trionfo. Mi alzai dal tavolo del ristorante in cui eravamo seduti e raggiunsi velocemente l’uscita. Una volta in strada, inspirai a fondo l’aria calda della notte. Sollevai lo sguardo al cielo e innalzai una muta preghiera di ringraziamento a chiunque, da lassù, aveva voluto che, una volta per tutte, mi fosse chiara la situazione che mi turbava da anni. Poi, immensamente sollevata, presi la strada di casa, serena, leggera come una piuma, liberata da una zavorra che mi aveva appesantito il cuore per troppo tempo, impossibilitata a strapparmela di dosso, seppure ne fossi dolorosamente consapevole.
Sirio aveva descritto perfettamente se stesso, quando mi aveva posto davanti al suo paradigma. “Io sono uno spirito libero, che non può sopportare legami troppo stretti. Voglio sempre una porta aperta, da cui poter fuggire quando mi sento afferrare dalla claustrofobia dei sentimenti.” Con quelle parole, mi aveva finalmente fornito l’esatta motivazione, che gli aveva impedito, per tutto quel tempo, di dichiararmi apertamente i suoi sentimenti. Inoltre, suo malgrado, mi aveva illuminato sui motivi che mi impedivano di lasciarmi andare con Edmondo: il timore di essere io quella sbagliata, quella che non si poteva amare, perché, benchè da Sirio mi fossi sentita in parte amata, mi ero sentita soprattutto rifiutata. Avevo erroneamente identificato il suo eccentrico modo di amare, con quello di tutti gli altri uomini. Nella mia colpevole inesperienza, avevo ritenuto esagerate le rassicurazioni di Edmondo, del suo amore incondizionato, semplicemente perché non riuscivo a riconoscerlo o, più precisamente, perché non osavo crederci. Avevo appena vent’anni quando ero caduta nella trappola di Sirio. Mi resi conto che era riuscito a tenermi legata a sé, in maniera subdola e vile, approfittando della mia ingenuità, modellandomi a sua immagine e somiglianza, plagiandomi senza rimorso, lasciandomi oscillare in un’altalena di sentimenti contraddittori. Un’altra cosa, inaspettatamente, mi parve fosse accaduta quella sera: mi ero liberata di quell’ingombrante, inservibile, disastroso sentimento che avevo continuato a nutrire nei suoi confronti, sovrapponendovi semplicemente quello che provavo per Edmondo.
Quando giunsi a casa, trovai il duca che suonava nel suo studio. Appena mi vide, si interruppe e mi guardò, incuriosito.
- Che succede, Alba? – mi chiese, mentre lo andavo ad abbracciare, con un impeto che sarebbe stato giustificabile soltanto da una lunga assenza. - Sembri molto soddisfatta di te stessa. Che hai combinato? – insistette, divertito.
- Ho fatto un bagno al mio capo. Forse dovrò cercarmi un nuovo lavoro. – affermai.
- Un bagno? – domandò, perplesso.
Quando terminai di riferirgli, con dovizia di particolari, la mia serata di gloria, Edmondo sorrise lievemente.
- Te l’avevo detto che era innamorato di te. Quello che non t’avevo detto era che sospettavo che anche tu ne fossi ancora innamorata. – mi confessò.
- Un amore stantio, scadente e inutile, che non valeva neppure la pena di essere raccontato. – chiarii. – Non so perché mi fosse rimasto appiccicato dentro. Forse perché, finchè non ti ho conosciuto, nessun altro lo aveva sostituito. Ma adesso, questi, sono dettagli trascurabili. Quello che conta è che mi sento finalmente libera dalla sua influenza. Ti amo. Sei l’uomo più meraviglioso che esista.
- Più meraviglioso? – rilevò, con raccapriccio, sollevando un sopracciglio.
- Non trovo altro modo per dirlo. E chi se ne frega della grammatica. Più meraviglioso, sì!
Edmondo mi abbracciò, ridendo.
- E dopo la doccia, Sirio non ti ha seguita fuori dal locale? Non ti ha rincorso per la strada?
- No. Avrebbe dovuto? – gli chiesi, stupita.
- No, se ha compreso perché lo hai fatto. E se lo ha compreso, non dovrai cercarti un nuovo lavoro.
- Dici? 
- Nessuna ripicca, cambierebbe il fatto che ti ha lasciata galleggiare nel suo limbo per dieci anni, senza decidersi, sprecando la tua vita e la sua. Ti ha lasciata andare solo perché non è in grado di trattenerti. Si accontenterà della tua amicizia, così come ha fatto fino ad ora. In fondo, cosa è cambiato?
Lo guardai stupita.
- Niente. – risposi, proseguendo a fissarlo, ammirata.
- Perché mi guardi così? 
- Perché è necessario. – affermai.
- Mi fai venire strani pensieri. Ma, adesso che ci penso, c’è Irene di là. Meglio che ci ritiriamo in camera nostra, prima di proseguire questa intrigante conversazione.
Invece suonarono alla porta.
Era Sirio. Non si era cambiato, ma il caldo della bella serata d’estate aveva asciugato le tracce del mio magnifico gesto teatrale.
Salutò Edmondo con naturalezza, poi mi guardò.
- Te ne sei andata un po’ di fretta, poco fa. Non mi hai lasciato finire.
- Perché, avevi altro da aggiungere? – gli chiesi, come da una grande distanza.
- Sì. Volevo dirti che, prima o poi, si devono accettare i propri sentimenti, anche se non ci piacciono o se ci spaventano. 
- Io li ho accettati, li ho subiti e li ho lasciati morire. Adesso ne ho di nuovi. E questi non mi fanno paura. – gli dissi, tranquillamente.
- Capisco perfettamente. Non c’è motivo per cui non si debba restare amici, vero? – mi chiese, spostando lo sguardo anche su Edmondo.
- Certo. Non è cambiato niente. – risposi, temendo di essere stata forse un po’ crudele.
Sirio restò in silenzio, abbassando la testa.
- Se vuoi una canna, stasera ce l’ho. – annunciò Edmondo.
- Davvero? – gli chiedemmo in coro.
Poi Sirio lo guardò, piuttosto seriamente.
- Grazie. – gli disse, stringendogli la mano, ma non compresi a cosa esattamente si riferisse. – Adesso devo andare.
- Vi siete chiariti abbastanza? – dubitò il duca.
- Io credo di sì. Il resto devo chiarirlo solo con me stesso. – ammise, tornando verso la porta.
Prima di uscire, si voltò e chiese:
- Avete deciso la data?
Edmondo ed io ci guardammo.
- Non ancora. – risposi.
- E che aspettate? – chiese, richiudendosi la porta alle spalle.
- Di cosa ti ha ringraziato? – chiesi al duca.
- Non lo so ancora. – disse, dubbioso.
- E per la data?
- Domani ti va bene? – mi chiese, abbracciandomi.
- Benissimo. – risposi.
- Dov’eravamo diretti, quando hanno suonato alla porta? 

        Qualche giorno dopo, Ida tornò alla carica. Voleva vedere sua figlia. Edmondo lo comunicò ad Irene e lei, di nuovo imbronciata, gli disse:
- Dovrà fare come facevi tu, quando vivevo con lei. Se vuole vedermi, dovrà venire qui.
- Hai litigato con lei? – chiese Edmondo.
- No, non proprio, ma non voglio mai più rimettere piede in quella casa. – affermò, con decisione.
- Tua madre vive con qualcuno? – le chiese, allora, il padre, sospettoso.
- Sì. – rispose Irene, come a malincuore.
- E’ con lui che non vai d’accordo? – le chiese.
- Lo odio. – asserì Irene, alzandosi dal divano e andandosi a rifugiare in camera sua.
Guardai Edmondo e lui mi guardò, ma non fui certa che mi vedesse. Rincorreva un pensiero, piuttosto, e non doveva essere molto piacevole. A me tornarono in mente le parole e le espressioni di Irene, quando mi aveva detto che la sua vita era un inferno e che nessuno poteva aiutarla.
Un dubbio si insinuò in me, ma era talmente raccapricciante, che lo abbandonai immediatamente, rifiutandomi di rifletterci ulteriormente. Edmondo invece, era abituato a meditare profondamente, senza arrendersi davanti ad alcun ostacolo.
- Devo parlare con Ida. – decise.
Poco dopo uscì.
Io andai in camera di Irene e bussai alla porta. Lei mi venne ad aprire e le dissi che suo padre era andato a parlare con Ida.
- Non otterrà niente. E’ impossibile ragionare con lei.
- Ma il tuo problema non è lei, è il suo convivente, se ho ben capito.
- Non ne voglio parlare. – affermò Irene, testardamente.
- Perché non vuoi che ti aiutiamo? – le chiesi.
- E come? Lui è un bugiardo, viscido mascalzone. Mia madre crede a tutto quello che le dice. E non crede a me, che sono sua figlia. Mi ha perfino accusata di essere gelosa di lei, di non sopportare che lei sia felice. Se non mi crede mia madre, mi crederai tu?
- Tuo padre ed io ti crediamo. Perché non dovremmo?
Irene mi guardò, angosciata.
- Confidati almeno con me, se non vuoi farlo con tuo padre.
- Non ci riesco. – disse, con gli occhi che iniziavano a riempirsi di lacrime.
Io la abbracciai e, tenendola stretta, la pregai di nuovo:
- Confidati con me.
- Mi vergogno. – mormorò, singhiozzando.
- Ti ha messo le mani addosso? – le chiesi, sottovoce, temendo la sua risposta.
Lei annuì col capo, sulla mia spalla.
- Ti ha picchiata? – continuai, ricevendo la stessa risposta.
- Ti ha violentata? – osai, sperando che rispondesse di no.
Invece continuò ad annuire.
- E tu l’hai detto a tua madre e lei non ti ha creduta? – le chiesi, incredula.
- Sì. – mi rispose, tirando su col naso.
- Mio dio. – esclamai, a voce bassissima, stringendola forte e cullandola come fosse una bambina.
- Perché non l’hai detto a tuo padre?
- Non ci sono riuscita. Non ci riesco neanche adesso. 
- Adesso posso dirglielo io. – la rassicurai.
- E poi che succederà? Io non voglio finire in tribunale. Non voglio che lo sappiano tutti. – ribattè, staccandosi da me.
- Preferisci che resti impunito?
- A me basta che non lo veda più. Un giorno, quando sarò pronta, mi vendicherò da sola. 
- E come?
- Lo saprai, quando sarò pronta.
- Irene, mi dispace. Mi dispiace tanto. – le dissi.
- Ormai è passata. Qui sto bene. Sto bene con papà e con te. Sono contenta che tu ci sia e che papà non sia più solo.
- Anch’io sono contenta. Tuo padre è immensamente felice di averti qui. Farà qualunque cosa perché anche tu possa tornare ad essere felice.
- Lo so. – mi disse.

 

        Edmondo rientrò, con un volto scuro e teso, che non gli avevo mai visto, in cui si leggevano nubi di burrasca ed elettricità come prima di un temporale. Non osai chiedergli nulla. Del resto, mi salutò appena, dirigendosi immediatamente in camera di Irene. Bussò, entrò e richiuse la porta.
Io non riuscii a staccarmi dalla posizione in cui mi trovavo, come inebetita, tentando di immaginare la terribile conversazione che si svolgeva al di là di quella porta chiusa.
Quando uscirono dalla stanza, Irene aveva di nuovo gli occhi rossi ed Edmondo aveva l’aria di un cane bastonato. Sperai che almeno Irene fosse riuscita a confidarsi fino in fondo con il padre. Edmondo mi abbracciò senza dire nulla. Avrei dovuto offrirgli qualche parola di consolazione, ma mi resi conto che non esistevano parole che potessero alleviare un dolore simile. Nessuno le aveva ancora inventate.
Cenammo in silenzio, perché qualunque argomento sembrava fuori luogo. Poi Irene tornò in camera sua, Edmondo si chiuse nel suo studio ed io restai da sola a chiedermi se la serenità di quella casa fosse stata distrutta per sempre. Alle due, ancora insonne, mi decisi a raggiungere Edmondo nel suo studio. Era seduto sul divano, nella penombra, nel più totale silenzio. Sollevò lo sguardo su di me ed ebbi la devastante sensazione che faticasse a riconoscermi. Andai a sedermi accanto a lui e gli presi la mano, stringendola forte.
- Come ti senti? – chiesi, per rompere il ghiaccio.
- Meglio. – mi rispose.
- Vuoi parlarmene?
- No. Vorrei dimenticare, se fosse possibile. – rispose duramente, serrando la mascella.
- Vuoi restare da solo?
- Sì, grazie.
- Buonanotte. – gli dissi, dandogli un bacio sulla guancia.
- Buonanotte, Alba. – rispose, senza alcun calore.
Andai a vedere se Irene dormiva, ma dallo spiraglio della porta, vidi la luce accesa.
- Entra. – mi invitò Irene.
- Speravo che dormissi, almeno tu. – le dissi.
- Non ci riesco. Hai parlato con papà? 
- No. Non parla. Vuoi raccontami tu?
- Ha capito tutto da solo, come te. Non c’è stato bisogno che gli confidassi niente. Mia madre ha fatto la sua sceneggiata e lui ha capito. Però sono un po’ preoccupata. Ha detto che vorrebbe ammazzarlo.
- Tuo padre ne sta soffrendo molto. A volte, fa sentire meglio, pronunciare propositi di vendetta. Ma è un uomo saggio e onesto, non lo farebbe mai. 
- Ho paura che potrebbe trascinarmi al commissariato per denunciarlo. Gliel’ho detto che non voglio, ma lui ha insistito tanto. Convincilo tu, per favore. 
- E’ l’idea che possa restare impunito, che lo manda fuori di testa. – obiettai.
- Ma non la passerà liscia, te lo assicuro. Puoi credermi.
- Ti credo, ma le vie legali sono le uniche ammesse, Irene. Pensaci bene.
- Va bene, ci penserò.
- Buonanotte, cerca di dormire almeno un po’.
- Sì, buonanotte. 
Ma nessuno di noi riuscì a dormire molto.

        Ci volle un’intera settimana perché tornassimo a fingere una vita normale. Sapevamo perfettamente che si trattava di una mistificazione, ma ci impegnavamo molto. Forse, a furia di fingere, ci saremmo convinti che era vero. Edmondo invitò Sirio da noi, una sera che Irene era a cena con gli amici. Io non ci avevo fatto caso, ma quando gli sentii raccontare quello che aveva subìto la figlia, compresi che l’aveva invitato apposta quella sera, approfittando dell’assenza di Irene. Qualcosa nel duca era cambiato. Era diventato più chiuso, più segreto, lasciandomi fuori dalle sue decisioni e dai suoi pensieri. Speravo che si trattasse solo di un momento passeggero e che in seguito tutto sarebbe tornato come prima. Avevo iniziato a sentirmi a disagio.
Sirio, dopo aver ascoltato il racconto di Edmondo con espressione grave e partecipe, commentò:
- E’ inutile andare a denunciarlo. Va sempre a finire che addossano la colpa alla vittima. Piuttosto, conosco qualcuno che per pochi soldi gli fa passare il vizio.
- Non vorrai dire sul serio? – esclamai.
Sirio ed Edmondo si fissarono senza espressione, ma io ebbi la netta sensazione che, tra loro, stessero passando informazioni a cui io non dovevo essere ammessa. Quindi, cambiarono argomento tanto repentinamente, che quella sensazione si fissò in me con estrema certezza. Non volevano più discuterne davanti a me, ma l’avrebbero fatto in seguito, faccia a faccia, ne ero sicura.

 

        Per me, che ero caratterialmente molto riservata, stava diventando un problema, parlare col duca. Se anche lui si chiudeva, era la fine. Così, fui costretta a farmi coraggio.
- Perché non mi dici quello che ti passa per la testa? – gli dissi, una sera, che era particolarmente nervoso.
- Cosa vuoi che ti dica? E’ tutto a posto. 
- No, ti vedo. Prima mi dicevi tutto, riuscivi a far parlare anche me, che ero chiusa a riccio. – e sapevamo entrambi a cosa si riferiva quel prima.
- Non c’è niente. Sto pensando che resto indietro col lavoro. Non mi riesce di mettere giù due note in croce. – mi mentì.
Ero certa che mentisse, perché non sapeva farlo.
- Ti prego, non tenermi fuori. Mi manchi. Cosa ci sto a fare qui, se fai finta che non esista?
- Alba, devi avere pazienza. Non sono al meglio, lo so, ma non è cambiato niente tra noi. Lo sai che ti amo. 
- Mi ami, ma non abbastanza per fidarti di me, per confidarti con me, per permettermi di seguire con te la strada che hai preso. 
- Quale strada? – chiese, colpito.
- Edmondo, pensi davvero che io sia tanto ingenua? 
- Non capisco di che cosa stai parlando. 
- E io non ti capisco più e basta. – affermai.
- Non ti ci mettere pure tu, per favore. Sarebbe il colmo. 
- Come vuoi. – dissi, allontanandomi da lui.
E non mi stavo allontanando solo fisicamente. Compresi, entrando in soggiorno, che mi stavo allontanando da lui anche in altri modi, che sarebbero stati più difficili da ripercorrere a ritroso.

        Il giorno seguente chiesi a Sirio di vederci al solito ristorante. Lui mi passò a prendere in negozio.
- Tutto bene? – mi chiese.
- No. Non c’è niente che vada bene. – risposi.
- Che succede?
- Tu dovresti saperlo. – affermai, ironicamente.
- Non so di che parli. Spiegati meglio. – ribattè, con l’espressione incerta di chi davvero non ha capito.
- Cosa state complottando tu ed Edmondo?
- Niente. Cosa vai a pensare? 
- Edmondo sembra sempre sulle spine. State organizzando qualcosa di cui non è convinto. Lo sento. Non gli piace quello che sta facendo, ma va avanti lo stesso. E adesso dimmi di che si tratta. 
- Sei tremenda. Non ti conoscevo sotto questo aspetto. – esclamò, tentando di nascondere un’espressione ammirata.
- Avanti, sputa il rospo. – lo invitai.
- E va bene, ma non ti piacerà. 
- Non piace neanche a lui. – commentai.
- Ho chiesto a certi conoscenti di dare una lezioncina a quel tanghero. – confessò.
- Lo sapevo. Ci avrei scommesso la testa. – mormorai, tra me e me.
- Edmondo continua a dirmi di aspettare, ma quelli stanno cominciando a dare i numeri. O ci decidiamo subito, o non se ne fa più niente.
- Meglio niente, Sirio. Fermali. Non è questa la strada giusta, te lo assicuro. Ci starebbe più male Edmondo che quel tizio. Bloccate tutto, per favore. 
- E’ Edmondo che deve decidere. – rispose, irremovibile.
- Per favore, ti prego. Ti ho mai pregato? Ti ho mai chiesto qualcosa? Questa è la prima volta, da quando ci conosciamo. E’ vero? Fallo per me. Se mi vuoi un po’ di bene, chiudi subito questa storia.
- Se ti voglio bene? – disse, colpito, guardandomi in modo strampalato, come se avessi appena detto qualcosa che non avrei dovuto.
Ci pensò un istante, poi accettò, quasi avesse già deciso, ancor prima che glielo chiedessi.
- Lo faccio solo per te. Dirò al tuo fidanzato che quelli si sono stancati di aspettare e che non se ne fa più niente. Sei contenta?
- Sì, grazie, Sirio. Grazie. – risposi.
Lui mi accarezzò il viso, guardandomi con tenerezza.
- Meglio che andiamo a mangiare, adesso. Mi tremano le gambe dalla debolezza. – affermò.
Per dimostrarmi che faceva sul serio, telefonò ad Edmondo davanti a me. A un certo punto disse:
- Non preoccuparti, è andata a lavarsi le mani.
Edmondo non voleva che sapessi. Ma io sapevo. Avrei dovuto tenermelo per me? Se cominciava a tenermi segreti certi dettagli della sua vita, che razza di rapporto sarebbe diventato il nostro? E se mi nascondeva quel segreto, quanti altri ne aveva in serbo? Si può impostare un matrimonio sulla sfiducia? Edmondo non si fidava più di me e io non mi fidavo più di lui. Come si poteva rovinare in fretta un rapporto di coppia.
Sirio chiuse la telefonata e mi guardò.
- Hai un’espressione che non promette nulla di buono.
- Sono delusa. – ammisi.
- Non dev’essere facile, affrontare una situazione simile. Edmondo è un uomo normale e gli uomini normali non sono attrezzati per affrontare e risolvere certi problemi. Vanno nel pallone. Devi capirlo. 
- Sì, lo capisco, ma sono delusa ugualmente, perché si è rifiutato di discuterne con me. 
- Se lo avesse fatto, tu lo avresti convinto a rinunciare, così come hai fatto con me. Lui sapeva benissimo che avrebbe rinunciato, se tu glielo avessi chiesto, per questo non te ne ha parlato. D’altra parte sentiva che doveva fare qualcosa, qualunque cosa, perché restare con le mani in mano, significava accettare ciò che quello stronzo aveva fatto a sua figlia. E lui non può accettarlo, perché se ne sentirebbe complice. Te ne rendi conto? 
- Sì, lo capisco. Ma tu ti rendi conto che dovrei accettare di sposare un uomo che mi nasconde una cosa così grave? E se mi ha nascosto questa, quante altre me ne nasconderà, quando lo riterrà necessario? – gli chiesi.
- Se hai questo genere di dubbi, forse dovresti pensarci meglio. – ammise.
- Infatti, ci sto pensando. – conclusi.
- Alba, non credi che… - iniziò, interrompendosi all’improvviso, come se si fosse pentito di quello che stava per dirmi.
- Che…? – lo invitai a continuare.
- No, niente. Vuoi il dolce? – mi chiese, chiamando il cameriere che passava vicino al nostro tavolo.
Quando tornai a casa, Edmondo stava leggendo in camera da letto. Io lo salutai, sperando che non mi chiedesse niente e che continuasse a leggere. La mia speranza non restò delusa. Almeno quella. Avevo bisogno di tempo. Dovevo riprendere in mano la situazione e dovevo avere pazienza. Edmondo sarebbe tornato quello di un tempo? Oppure l’incantesimo si era spezzato definitivamente?

 

        Irene tornò al liceo, dove avrebbe frenquentato l’ultimo anno, per diplomarsi. Al mattino doveva uscire molto presto, perché per raggiungere l’istituto, doveva attraversare mezza città. Così, lasciava suo padre e me, a far colazione da soli, a volte a parlare di banalità, le altre a mangiare in un angoscioso silenzio. Sembrava che non avessimo più nulla da dirci. Una mattina, mi resi conto che la mia presenza là, a quel tavolo, di fronte a lui, non aveva più alcun senso. Posai la tazza sul piattino e glielo dissi, col tono più mite che trovai.
- Mi dispiace. – commentò, guardandomi tristemente – Non sono quello che pensavo. Non sono più quello che credevo di essere.
- Edmondo, tu sei quello che sei sempre stato. Lo so cosa stavi per fare. Eri disperato, era normale che cercassi in qualche modo di reagire, anche se non era la maniera giusta per risolvere la questione. Però non è successo niente. E’ questo che conta. 
- E tu come lo sai? – mi chiese, senza fingere di non aver capito, come temevo che invece avrebbe fatto.
- L’ho intuito. Ho costretto Sirio a confessare e a bloccare tutto. 
- Sei stata tu? – chiese, esterrefatto.
- Sì. – ammisi – Perché non te lo saresti mai perdonato. 
- Dovevi lasciar decidere a me. – affermò, irritato.
- Tu avresti deciso nello stesso senso. 
- Non puoi saperlo. E ora non posso saperlo nemmeno io. 
- Fidati. Per quel che ti conosco, avresti finito per rinunciare. Anche Sirio ne era certo, per questo ha acconsentito.
- Avete preso una decisione che toccava solo a me. 
- L’ho fatto per te. 
- E cosa aspettavi a dirmelo? – reagì.
- E tu? Cosa aspettavi tu?
- Non dovevi intrometterti. – ribadì, freddamente.
- E tu dovevi fidarti di me. 
- Perché, tu di me ti sei fidata? Eri così certa che sarei andato fino in fondo, che hai bloccato Sirio prima che gli dessi carta bianca. – mi accusò.
- Hai ragione. Ho messo fine alle tue ansie troppo presto. Avrei dovuto lasciarti cuocere nel tuo brodo. Ho sbagliato tutto. Beh, non ha più molto senso che io rimanga qui. E’ stato bello finché è durato, ma ora me ne torno a casa mia. Ti auguro che in futuro la tua vita possa essere migliore. Te lo meriti. Sei un uomo meraviglioso, anche se adesso non lo capisci. – conclusi, alzandomi dal tavolo e dirigendomi in camera da letto.
Tirai fuori la valigia e iniziai a buttarci dentro a casaccio i miei vestiti. Mi sentivo completamente vuota e mi aspettavo da un momento all’altro che l’angoscia e il dolore riempissero tutto quello spazio inutilizzato.
- Non andare. – disse Edmondo, dalla porta, con un tono implorante, che non gli avevo mai sentito.
- Perché? – gli chiesi, senza voltarmi.
- Ti prego, resta con me. E’ proprio adesso che ho più bisogno di te.
Io lo guardai. Era pallido. Aveva un’espressione disfatta, malata, svilita, che scatenò la mia compassione. Andai ad abbracciarlo, con il desiderio che il mio amore potesse guarirlo come per magia, nel modo in cui accadeva in certe favole che leggevo da bambina.
- Avevi ragione. Non lo avrei mai fatto. Ma mi sembrava comunque di agire, anche solo pensando alla decisione che avrei preso. – mi confessò.
- Edmondo, quel porco la pagherà. Su questo non nutro alcun dubbio, ma non sarà per mano tua. E’ la vita stessa che ci presenta il conto, prima o poi. E lui dovrà pagarlo.
Edmondo sospirò, stringendomi più forte.
- Resti con me? – mi chiese, con la sua voce di velluto, che mi dava i brividi.
“Ti amo, ma ho bisogno di una pausa di riflessione.” avrei voluto dirgli, mentre il suo sguardo disperato me lo impediva.
- Va bene. – mi sentii rispondere, perché era quello che lui voleva sentirsi dire.
E poi finimmo a rotolarci nel letto, come non accadeva più da molto tempo, da quel prima che aveva tracciato un netto confine tra l’uomo che amavo e l’uomo che avevo iniziato a lasciare.

        Quando fu pronta, così come mi aveva preannunciato, Irene mi mostrò la sua vendetta, frutto di una telecamera nascosta e dell’abilità e della pazienza di una sua cara amica.
- L’ho sputtanato su you-tube. – mi disse, mostrandomi il filmato.
- Sei soddisfatta così? – le chiesi, dopo averlo visto.
- Per ora può bastare. Ho altre cose a cui pensare, adesso. Devo diplomarmi e poi devo pensare al mio futuro. Ho tanti progetti per la testa. Non ho tempo per fermarmi ancora su questa storia. Devo vivere la mia vita, no? 
- Hai ragione. Devi guardare avanti. – concordai, abbracciandola.
Lo raccontai ad Edmondo, che pur rifiutandosi di vedere il filmato, comprese con sollievo che, poiché Irene aveva trovato la sua strada per ottenere la rivalsa che le era necessaria, non aveva più molta importanza che non fosse stato lui a raggiungerla.
La tensione si alleggerì molto, ma rimase un’ombra, tra noi, che non riuscivo in alcun modo a digerire. Si era rotto qualcosa. Il nostro rapporto era nato così fragile da infrangersi davanti al primo ostacolo? Era stata colpa mia? Non lo amavo abbastanza? Lui mi amava di meno, perché non si era sentito sostenuto nel momento necessario? Avrei dovuto mantenermi paziente e aspettare che fosse lui a tornare sui propri passi? Non lo sapevo. Non sapevo più niente. Ero soltanto molto confusa.

 

        Sirio lo comprese, senza che dovessi pronunciare neanche una parola, provocandomi uno stupore inatteso, perché non mi ero mai accorta che fosse tanto sensibile ai miei stati d’animo.
- Ti vedo ancora confusa. Adesso sei tentata di rimettere in discussione l’intero rapporto, ma non lasciarti condizionare dalla tua sbrigliata immaginazione. Rifletti soltanto sui tuoi sentimenti. Il resto verrà da sé. – mi disse.
- Ma come faccio? I miei sentimenti dipendono da lui. 
- No, Alba. I tuoi sentimenti dipendono esclusivamente da te. Lo ami oppure no, e non perché il tuo amore sia corrisposto o meno. - affermò, con la sicurezza di chi sa esattamente di che cosa sta parlando.
- Ho l’impressione che Edmondo non mi ami più come prima e io non posso fare a meno di amarlo di meno. Sto sbagliando tutto, secondo te? 
- Non credo che tu lo ami di meno perché ti senti meno amata. Tu una volta eri innamorata di me, o sbaglio? E il fatto che non ti abbia mai dimostrato di ricambiarti, ha mutato qualcosa nei tuoi sentimenti?
- Che stai dicendo? Allora era diverso. Ero una ragazzina. 
- E adesso sei una donna, dovresti amare in maniera più matura. Quello di cui mi racconti non mi sembra un amore maturo. 
- Forse hai ragione, ma io non so amare altrimenti. – mi difesi.
- Lasciati insegnare come si fa. – propose.
- Da lui?
- Da me. 
- Sirio, non scherzare, per favore. Non sono dell’umore adatto. 
- Se un giorno ci ripensassi, sai dove trovarmi. – affermò, cambiando argomento, subito dopo, con una rapidità che mi lasciò stupita e incerta se quello che avevo sentito era stato detto veramente o me l’ero solo immaginato.
“Fumo negli occhi,” mi dissi, più tardi, “la sua specialità”. Era stato così che mi aveva tenuta. Mi lanciava messaggi chiarissimi, offuscandoli subito dopo, in modo che non potessi essere certa di aver capito bene. Mi confondeva, mi avvicinava, mi respingeva, giocava con me, come il gatto col topo. Giocava con il mio cuore e con la mia vita. L’aveva fatto per dieci anni, ma non ero più quella ragazzina stupida e indifesa con cui aveva potuto farlo impunemente. Ora comprendevo, potevo difendermi e, soprattutto, non ero più accecata dall’amore per lui. Non sarei caduta di nuovo in quella rete. Ne avevo già un’altra, da cui districarmi.

        Una sera Edmondo mi chiamò nel suo studio. Ormai, dopo cena, ciascuno si trovava il suo angolo e si crogiolava nella propria solitudine, dedicandosi ai propri svaghi.
- Che c’è? – gli chiesi, tenendo in mano un libro che stavo leggendo. 
- Vorrei farti sentire una cosa. Siediti. – mi invitò.
Io ubbidii, senza chiedergli nulla. Edmondo mi seguì con lo sguardo e dopo che mi fui seduta sul divano, iniziò a suonare. Era un pezzo appassionato, che si slanciava tra alti e bassi, rallentava e poi impennava in velocità, quasi come il respiro del mare, che diventava violenta tempesta, per poi placarsi.
Finiva con una dolcezza straziante, in una melodia lungamente ripetuta. Quando l’ultima nota si spense, restai immobile a guardarlo.
- E’ bellissima. – gli dissi, ammirata – Forse la più bella di quelle che mi hai fatto sentire.
- Sei tu. – mi comunicò.
- Io? – chiesi, stupita.
- Sei tu, come ti sento io. – rettificò.
Mi venne un nodo in gola, che non riuscii a mandare né su, né giù, finchè non si sciolse in lacrime.
Lui mi raggiunse sul divano e mi abbracciò.
- Decisamente, con te, non ci so più fare. Non era mia intenzione farti piangere, speravo di farti piacere.
- Mi sono commossa. Certo che mi ha fatto piacere. 
- Tra noi c’è un nodo che non riesco a sciogliere, forse perché non lo vedo, non riesco a trovarlo. Dov’è, Alba? Che cosa c’è che non va? – mi chiese, sospirando.
-  Non lo so. Anch’io sento che è cambiato tutto, ma non so dirti come fare per tornare indietro.
- Se c’è una cosa che ho imparato, è che nessuno torna indietro. Dobbiamo trovare la strada giusta per andare avanti, invece. E mettercela tutta. Io non voglio perderti. Dimmi cosa devo fare, dimmi cosa vuoi da me, come vuoi che io sia. Dimmelo tu. 
- No, dimmi tu cosa c’è in me che non va e che non ti permette più di essere con me com’eri prima. 
- Non c’è niente in te che non vada. E a me sembra di non essere cambiato, nei tuoi confronti. 
- Allora di che cosa stiamo parlando? – gli chiesi, incredula.
- Alba, io ti amo come ti ho amata sempre, ma tu? Tu mi ami ancora? Se ti dicessi, stasera, sposiamoci domani, tu mi risponderesti ancora di sì? 
Sapeva perfettamente che non potevo rispondergli in due secondi, eppure fu tutto il tempo che mi lasciò, prima di continuare.
- Lo vedi? Allora il nodo è là. 
- Hai ragione. C’è qualcosa che mi blocca. E’ colpa mia. Non ho mai imparato come si ama e forse non ci riuscirò mai. – ammisi, tristemente.
- Ma io non voglio perderti, Alba. Come si fa? – mi disse, stringendomi a sé, con passione.
- Come stai facendo adesso, tenendomi stretta e impedendomi di andarmene.
- Vorrei che fosse così facile. – sospirò.
- Mettimi un guinzaglio. – gli proposi, sentendo la necessità di alleggerire l’atmosfera.
Fu allora che mi ricordai che di un guinzaglio mi aveva parlato Sirio, e di una porta da lasciare sempre aperta, per avere la sensazione di potermi allontanare ogni volta che ne avessi sentito il bisogno. Il mio errore fu di condividere questo ricordo con Edmondo.
- E’ per Sirio che non ti decidi. Tu lo ami ancora. Stai cercando di dividerti tra me e lui, ma non può funzionare, Alba. O vai con lui, o resti con me.
- Non è vero. Non lo amo più, ormai, dovresti saperlo. 
- Sei tu che dovresti saperlo. Invece lo ami ancora, e neppure te ne accorgi. – affermò, con espressione risentita.
- Sono sicura che ti sbagli. – ribattei, con tanta maggior ostinazione, in quanto cominciavo a dubitare che nelle sue parole potesse esserci un minuscolo frammento di verità.
La necessità della pausa di riflessione che avrei desiderato prendermi, qualche tempo prima, si riaffacciò con estrema improrogabilità, costringendomi ad uscire allo scoperto. Edmondo mi lasciò andare, rassegnato, rattristato e con l’espressione sofferta di un martire che per la sua fede sa di dover morire, ma quella fede preferirebbe viverla.
- Non ci metterò molto. – lo consolai.
- Non promettere quello che non puoi mantenere. – mi consigliò.

 

        Tornai a casa mia, con un certo sollievo. Ero sola e avevo tutto l’agio di dedicarmi al mio nuovo passatempo preferito, pensare ora ad Edmondo, ora a Sirio, senza interferenze. Rivangando il passato, mi tornarono in mente tanti particolari della mia storia con Sirio, che avevo voluto cancellare. Da quella nuova prospettiva, non mi facevano più soffrire eccessivamente ed era molto confortante.
Il mio primo incontro con Sirio era stato quasi uno scontro. Frequentavo spesso la sua libreria, da accanita lettrice quale ero già allora. Avevo l’abitudine di leggere qualche pagina, prima di buttarmi nell’acquisto di un libro. Sirio mi osservava, trovando il mio comportamento piuttosto irritante. Un giorno si avvicinò e me lo disse. Io gli risposi che non compravo niente a scatola chiusa.
- Per questo esistono i risvolti di copertina. Legga quelli. Sennò vada in biblioteca. – mi disse, irritato.
- Io li compro, i libri, mi piace possederli, non solo leggerli. In biblioteca dovrei restituirli. – mi giustificai.
Lui mi guardò attentamente, poi mi fece una proposta talmente inaspettata, che mi tremarono le gambe.
- Le va di lavorare per me?
- Qui?
- Sì, ho bisogno di gente che sappia cosa è un libro. Lei mi sembra adatta. – affermò, sorridendomi, per la prima volta.
Io avevo appena terminato il liceo e nei miei progetti per il futuro c’era una nebbia così fitta che mi impediva di vedere dove stessi andando. All’improvviso quella libreria mi sembrò il miglior futuro che potessi desiderare. Così accettai. Mi resi conto, in seguito, che Sirio, in realtà, non aveva bisogno di me lì, ma nella libreria che stava per aprire in un altro quartiere. In pochissimo tempo guadagnai la sua fiducia e la sua amicizia. La mia gratitudine si trasformò rapidamente in quel sentimento che aveva impresso una svolta, non certo fortunata, alla mia vita.
Una volta inaugurata la nuova libreria, Pensieri e Parole, Sirio veniva a dare un’occhiata quasi ogni sera, poi aveva diradato le visite, limitandole ad una o due a settimana. Si fidava di me. Non lo ammetteva, ma era chiaro come la luce del sole. Io ne ero orgogliosa. Poi iniziò a invitarmi a cena, ogni volta che veniva alla chiusura. Così ero salita sulla mia altalena. C’era stato un momento, circa tre anni dopo, in cui avevo acquisito la certezza assoluta che anche Sirio si fosse innamorato di me. Qualcosa nei suoi sguardi, nell’intonazione della sua voce roca, nel suo modo di prendermi sottobraccio o di appoggiare la sua mano sulla mia, mentre mi parlava, mi avevano convinta che finalmente si era accorto di me. Ma non era così. Si era trattato soltanto di illusione. E di quella avrei continuato a nutrirmi nei periodi buoni, come in quelli cattivi. Di quelli cattivi erano costellati gli anni che erano seguiti, punteggiati, qua e là, di amori che si chiamavano Giulia, Roberta, Tiziana, Lucia, Alessandra. C’era stata persino una Deborah, con l’acca. Sfilavano come comete in un cielo limpido, nero e vuoto, senza lasciare neppure una scia, in lui, mentre in me scavavano solchi profondi e ardenti, che bruciavano ancora a distanza di anni. La mia unica consolazione era stata pensare che rappresentavo, nel cielo di Sirio, un satellite ad orbita fissa. Non ero una stella, non ero il suo sole, ma c’ero sempre. Come la luna, influenzavo le sue maree, scandivo le sue stagioni, gli giravo intorno con la regolarità che i moti gravitazionali avevano stabilito per il suo universo. Non eravamo che un pianeta e il suo satellite, a spasso nel cosmo. Mi rassegnai all’idea che nessuna impazzita attrazione gravitazionale avrebbe concesso che entrassimo in collisione. Gli anni erano passati sul mio cuore, riducendolo a un compatto masso di cenere compressa, fino a quando non era apparso il duca a mutare tutto il mio mondo. Edmondo aveva rappresentato il sole, che scaldandomi, aveva permesso alla vita di rinascere. Ero rifiorita. Qualcuno mi amava davvero, mi vedeva per quello che ero e mi apprezzava. Dovevo molto al duca. Gli dovevo soprattutto la consapevolezza di essere una donna che si poteva amare, cosa che dieci anni con Sirio, mi avevano fatto dimenticare. Edmondo mi amava per intero, corpo, anima e cuore. C’erano stati momenti in cui la sua adorazione mi aveva persino sconvolta. Come potevo meritare tanto amore? Mi venerava come un idolo. Era troppo per me, donna trasparente abituata a non essere vista. Tra l’uno e l’altro sarebbe stato giusto trovare una via di mezzo, ma dovevo essere io a trovarla. Era dentro di me che dovevo stabilire il mio valore. Non meritavo, in definitiva, né l’eccessivo amore di Edmondo, né la fittizia indifferenza di Sirio.

            Di Edmondo i ricordi erano più freschi e mi lasciavano un sapore dolce o amaro, a seconda che si riferissero a prima o dopo il “fattaccio di Irene”. Per quanto Edmondo lo avesse negato, ero certa che era cambiato nei miei confronti. Non era colpa sua. Era cambiato lui, era cambiata la sua vita, il suo modo di giudicare se stesso. Aveva una ferita che non riusciva a cicatrizzarsi, e temevo che si rifiutasse persino di curarla.

 

        Sirio mi aveva fatto una proposta, tra uno sbuffo di fumo e l’altro, insegnarmi ad amare. Proprio lui? Sarebbe stato davvero il colmo.
Per Sirio fu l’inizio di un nuovo tormento. Quando ci vedevamo, non parlavo che di Edmondo. Lo vedevo agitarsi sulla sedia, come fosse una griglia arroventata. Cosa stessi cercando di fare, mi era ancora poco chiaro, ma a lui risultò evidentissimo.
- Tu ti stai vendicando. – mi disse, una sera che era salito a prendere il caffè da me.
- In che senso? – gli chiesi.
- Lo so io. Se lo ami così tanto, perché non torni da lui?
- Sono confusa. Non sono sicura di amarlo abbastanza. 
- Sì, che lo ami. Ti viene in mente qualcun altro che tu abbia amato più di lui? 
- Sì. Mi viene in mente, ma purtroppo non è stato un amore corrisposto. – mi lamentai.
Fu a quel punto, che Sirio mi guardò come non mi aveva mai guardato prima. Si avvicinò a me e mi stritolò in un abbraccio che non aveva nulla di fraterno. Poi mi baciò, come si entra in guerra. Non era lui a volerlo, ci era costretto da una fatalità.
- Dimmi che mi ami ancora, sennò mi taglio le vene. – mi implorò, con voce più arrochita del solito.
- Te lo meriti? – gli chiesi, sadicamente.
- Ti diverte farmi soffrire? Vuoi ridurmi come Edmondo? Che razza di bastarda sei diventata?
- E tu che razza di bastardo sei stato? – gli chiesi.
Il silenzio che seguì, si protrasse oltre il sopportabile.
- D’accordo. Fai finta che non sia successo niente. – mi disse, molto seriamente, staccandosi da me e uscendo dal mio appartamento, come inseguito da una muta di cani ululanti.

        A quel punto ero decisamente più confusa di prima, ma, ciò che invece mi risultò chiarissimo, era che volevo rimanere esattamente là dov’ero, a casa mia. Sia che le mie preferenze propendessero per l’uno o per l’altro, non volevo comunque lasciare la mia libertà. Dopo questa decisione, mi sorse spontaneo immaginare come, l’uno e l’altro, avrebbero potuto reagire a quella notizia. Mentre Sirio ne sarebbe stato felice, Edmondo non lo avrebbe accettato. Stabilii che sarebbe stato necessario rifletterci ancora qualche giorno.

 

        Poi, una sera, venne a trovarmi Irene. Non me l’aspettavo.
Non vedevo Edmondo da un paio di giorni, né c’eravamo sentiti. Mi preoccupai che fosse accaduto qualcosa.
- Sta bene tuo padre? – le chiesi subito.
- Sì, sì, sta bene. Lui non sa che sono venuta qui.
- Come mai?
- Sei un argomento tabù. – mi confidò.
- Cioè? Non vuole parlare di me?
- Gli fa troppo male. Sai, dopo la mamma, ci ha messo un bel po’ a decidersi a riprovarci. Così, adesso che anche tu l’hai mollato, è sicuro di essere lui che non funziona. E’ un peccato, era così cambiato da quando c’eri tu. Adesso è tornato quell’eremita che era prima. Si e’ convinto di essere nato per restare solo. Mi dispiace per lui, ma del resto, se tu ami un altro, che ci si può fare? 
- No, non credo di amare un altro. E’ solo che non mi voglio sposare. Ho bisogno di sapere che c’è sempre una porta aperta, da cui possa fuggire se le cose si mettono male.– ammisi.
- Perché non gliel’hai detto? Arrivato a questo punto, accetterebbe qualunque compromesso. La convivenza gli va bene lo stesso, basta che stai con lui.
- Dici?
- Io dico di sì. – affermò Irene, dall’alto dei suoi diciotto anni.

        Che quella ragazzina fosse venuta apposta per convincermi a tornare dal padre, mi fece riflettere sul rapporto che si era instaurato tra noi. In fondo, eravamo diventati come una famiglia e non mi era dispiaciuto, finchè era durato. Era altro, che mi aveva disturbato. E in quel momento, visto da fuori, osservato da lontano, quel qualcosa non mi sembrava più così rilevante. Dimenticai Sirio e la mia piccola vendetta e tornai a concentrarmi su Edmondo.
Per la sera seguente lo invitai a cena. Lui declinò l’offerta, deviandola sullo Springtime Jazz, dove non andavamo da mesi.
Quando venne a prendermi, era in perfetto anticipo.
- Non sono pronta. – gli dissi, senza il minimo cenno di irritazione.
- L’ho fatto apposta. – mi confessò, sorridendo. – Speravo proprio di trovarti in accappatoio e turbante. 
- Perché? – gli chiesi.
- Adesso te lo spiego. – disse, abbracciandomi e trascinandomi sul divano.
La sua euforia lo faceva assomigliare al duca dei primi tempi, a quello che mi aveva costretto ad accettare i miei sentimenti, che fino ad allora avevo preso con le molle, non sapendo esattamente né che farmene, né dove sarebbero andati a parare. E, nonostante mi ritenessi confusa su tutto il resto, di una cosa ero certa, quello che stava succedendo su quel divano, mi sembrava un’ottima base per chiarirmi le idee. Il duca ed io eravamo perfettamente compatibili sul piano che più ritenevo fondamentale in quel momento, quello orizzontale.
Quando ci fummo sfogati abbastanza, risultò troppo tardi per andare a mangiare, così ci buttammo su due panini, in cucina, io, di nuovo in accapatoio, lui, in camicia.
- Resta qui, stanotte. – gli dissi.
- No, non mi va di lasciare Irene da sola. – ribattè.
- Hai ragione. – concordai.
- Vieni tu con me. – buttò lì, senza neppure guardarmi.
- Va bene, vengo con te. – accettai.
A quel punto mi guardò. Compresi che cercava una spiegazione, che sperava di leggere oltre le mie parole, che aspettava il verdetto, ma temeva di chiedere. Ormai ero un mistero per lui, che non riusciva più a leggermi dentro. Forse avevo imparato a nascondermi, imitando Sirio. O forse lui, non essendo più tanto sicuro di sé, aveva perso la sua capacità di fidarsi del suo intuito.
Quello che so è che finimmo di vestirci e passeggiammo tranquillamente verso casa sua, tenendoci per mano come due ragazzini. Irene ci vide arrivare insieme e ci salutò con uno sguardo piuttosto malizioso. Quella piccola peste aveva forse una parte di merito, in quello che stava succedendo. Immaginai che dovesse aver parlato al padre della nostra conversazione, ma lui non me ne aveva neppure accennato. Magari mi sbagliavo.
Riprendemmo il nostro appagante dialogo muto in camera da letto. A notte inoltrata, Edmondo mi chiese se avevo fame.
- No, ma berrei un fiume.
- Vieni, ti ci accompagno. – mi disse, buttandomi addosso una vestaglia che non avevo mai visto. Era bellissima, di seta viola, con un drago fucsia e blu notte, ricamato sulla schiena e una cintura blu.
- E’ bellissima. – commentai, mentre me ne avvolgevo con voluttuosa soddisfazione.
- E’ tua. – disse.
- Mia? Ma se non l’ho mai vista. 
- L’ho presa per te. 
- Quando?
- Il giorno che te ne sei andata, quando ti ho fatto sentire il brano che avevo composto per te. Pensavo che te l’avrei fatta indossare quella notte, ma le cose non sono andate esattamente come mi ero aspettato. Mi capita spesso con te. In fondo, ti amo anche per questo. 
Quello sarebbe stato il momento di dirgli “Anch’io ti amo”, ma mi si incepparono i pensieri. C’era un silenzio di tomba dentro di me, nessun trillio di campanelli, nessuna colonna sonora in sottofondo, solo un placido e rassicurante silenzio, che mi rendeva impossibile trovare il ritmo giusto. Del resto, Edmondo sembrava non aspettarsi nulla. Non era indifferenza la sua, ma più che altro una remissiva rassegnazione.
Lasciai la vestaglia nell’armadio e tornai alla mia vita, con il forte dubbio che stavo andando dalla parte sbagliata. Due giorni dopo, ne ero così certa che riempii una valigia e mi presentai a casa di Edmondo, come il figliol prodigo.
Lui, senza dire neppure una parola, sorridendo lievemente, mi guardò riporre i miei vestiti nell’armadio. Neppure io dissi niente. Ormai temevo le parole più dei silenzi. Quando finii, mi feci avvolgere nel suo abbraccio muto. Irene passò in corridoio e, vedendoci, si unì al nostro abbraccio, come per benedirci.
- Io vado a cena fuori. – annunciò, poco dopo.
- Con i tuoi amici? – chiese il padre.
- Con mia madre. – rispose, con scarso entusiasmo. – “O così, o niente”, le ho detto. Andiamo al Faro blu, ma mi viene a prendere qui sotto.
- Adesso tocca a lei. – commentò suo padre, sorridendo.
- Tu l’hai fatto per dieci anni, no? Certo che adesso tocca a lei! - esclamò Irene, con l’espressione di un giudice che dichiara la colpevolezza di un imputato.
Quando restammo soli, Edmondo mi chiese se preferivo andare a mangiare fuori o restare in casa.
- Come preferisci tu. – risposi.
- No, stasera il timone è tuo. Guida questa nave fino in fondo.
- Allora restiamo qui. Cucino io?
- Cuciniamo insieme. – propose.
Mentre tritavo una cipolla con la appropriata commozione, Edmondo trovò finalmente le parole per dirmi quello che gli stava a cuore.
- Irene mi ha raccontato che è venuta a trovarti, qualche giorno fa. Mi ha spiegato. Sono felice di averti qui, finchè vorrai restare, alle tue condizioni.
- Grazie. – gli dissi, semplicemente.
- Ho parlato anche con Sirio. E’ chiaro che dieci anni con lui ti abbiano influenzata più di quando tu stessa possa immaginare. E’ lui il primo a dispiacersene. E’ vero che l’hai provocato solo per poterlo respingere? 
- E’ stato più forte di me. Sono stata crudele?
- Abbastanza. Ma io non posso di certo lamentarmene, visto che adesso sei qui con me. – commentò lui.
- Dovevo farlo. Mi capisci? Non trovi giusto che soffra anche lui un po’ di quello che ha fatto soffrire a me? 
- Vuoi la mia approvazione? – mi chiese il duca, incerto.
- Solo la tua comprensione.
- Quella ce l’hai, ma toglimi una curiosità. Visto che ti eri messa in gioco, come mai ti sei fermata subito?
- Lui si è arreso subito. E’ fuggito. Non sa più giocare. 
- Non è più un gioco, infatti, quando fa soffrire. – affermò Edmondo.
- Già, lo è stato soltanto finchè ha fatto soffrire me.
- Mi ha detto che per un po’ di tempo non vuole rivederti. – mi comunicò.
- Davvero? L’ho sconvolto a tal punto? Solo con una domanda? 
- Quale domanda? – chiese il duca, incuriosito.
- Quando mi ha chiesto se lo amavo ancora, io, a mia volta, gli ho chiesto “Te lo meriti?” E allora è fuggito. Sapeva di non meritarselo.
- E io ti merito? – mi chiese Edmondo, con uno sguardo che mi passò da parte a parte.
- Tu sei un uomo meraviglioso. In questo caso, sono io che non ti merito.
- Non dovresti dire queste sciocchezze. 
- So che il tuo giudizio è offuscato, ma visto che sono stata così fortunata, lo preferisco. – commentai, sorridendo.
Poco dopo mi trascinò in camera da letto. Era chiaro che quella era la chiave di tutto. Il nostro rapporto era entrato in crisi nel lungo periodo in cui quel letto era diventato solo un posto per dormire. Mi ripromisi di ricordarmene, in futuro, quando fossero tornati momenti bui. Non che me ne aspettassi molti, tremendi come quello, ma certo, nella vita, potevano capitare e allora era difficile schivarli. Bisognava imparare a farvi fronte, prendendoli dal lato giusto.

 

        I nodi si sciolsero. Beh, alcuni. Io mi resi conto che ciascuno di noi rifletteva sugli altri i propri umori. La mia emotività si stabilizzò quando decisi di lasciar andare Sirio. Del resto, lo avevo trattenuto nei miei pensieri già troppo a lungo, perché potessi sciogliermene con tanta nonchalance.
Edmondo aveva capito subito che per me non sarebbe stato facile, né indolore, ma aveva investito tutta la sua pazienza nel tentativo di non farmi pesare il tempo che ci avrei impiegato. L’assenza di gelosia nei confronti di Sirio, era una farsa a cui si era sottoposto nello sforzo di giungere alla meta senza contrasti inutili e controproducenti.
Edmondo riusciva a far violenza sui propri stati d’animo, senza mostrare mai un cedimento. Non essendo un’indovina, non avevo compreso molto dei tumulti interiori che lo agitavano e che mi teneva accuratamente nascosti. Ma lui preferiva che rimanessi libera di decidere, di provare, di andare o tornare, di chiudermi o di aprirmi, in modo che, raggiungendo il traguardo con le mie sole forze, io fossi sicura di me stessa e della profondità dei miei veri sentimenti. Così era accaduto. Alla fine del mio tortuoso cammino, ero stata io ad arrivare dal duca, lasciando indietro Sirio ed il deludente passato che rappresentava.
Aveva rischiato di perdermi, ma voleva che le mie decisioni fossero frutto soltanto della mia spontanea volontà. Sapeva benissimo che, se avessi voluto, avrei potuto scegliere Sirio, che finalmente si era deciso a sciogliere i suoi, di nodi. Ma non era accaduto. Nei confronti di Sirio, una volta sfogato il mio motivato rancore, mi convinsi che fosse rimasta soltanto amicizia, e quella, Edmondo, non solo poteva sopportarla, ma gli concedeva anche la propria, tanto più facilmente in quanto era stato lui ad averla vinta sul rivale.
Tutte queste confessioni giunsero pian piano, a rendere chiarissimo il quadro di una situazione che ad un certo punto si era trasformata in un groviglio di desolanti silenzi, accennate ammissioni, mezze verità e subdole omissioni, che avevano rischiato di rovinare tutto.

        Sirio evitò accuratamente di farsi vedere o sentire per tre lunghi mesi, ma poi cedette. Una sera venne in libreria, alla chiusura e mi invitò al solito ristorante. Io avvertii Edmondo che non sarei tornata a cena e lui sospirò. Forse, quella sera, sarebbe stato un po’ sulle spine, ma accettò il fatto che Sirio fosse tornato.
- Ti trovo bene. – mi disse, una volta seduti al tavolo del ristorante.
- Anche tu stai bene. 
Ed era vero. Sembrava più rilassato, si guardava intorno con espressione tranquilla e aveva gesti metodici per sistemare il bicchiere, spostare di un centimetro il piatto, prendere il tovagliolo e appoggiarlo sulle ginocchia.
Però si ostinava a tacere. Allora parlai io.
- Come stai?
- Meglio. Sì, molto meglio. – ammise, con la sua voce roca.
- Gli affari vanno bene?
- Sì, non possiamo lamentarci.
Ci mancava solo che ci mettessimo a disquisire sul tempo e sui capricci climatici.
- E tu come stai? – mi chiese.
- Bene. Va tutto bene. – risposi, tranquillamente.
- Hai poi deciso se sposarlo o no?
- No. Non mi sposo. – gli comunicai, con indifferenza.
- Mi dispiace. – commentò.
Poi mi guardò negli occhi, fissandomi molto intensamente, e rettificò:
- No, non mi dispiace. Sono felice che tu ti tenga una porta aperta. Non si mai. Un giorno potresti pentirtene.
- Può darsi, ma intanto sto da lui.
- Lo so. – disse, sospirando.
- Ti ha fatto bene, stare lontano per tre mesi? – gli chiesi, ironicamente.
- Cento giorni, esattamente. – precisò.
- Li hai contati? – mi stupii.
- Era l’obiettivo che mi ero imposto e, come vedi, ci sono riuscito.
- E a cosa ti è servito? – gli chiesi, perplessa.
- A provare a me stesso che potevo farlo. E’ stato appagante.
- Ti appaghi con poco. Sono sicura che non hai fatto molta fatica. – commentai, per sminuire la sua impresa.
- Puoi pensarla come ti pare, da me non saprai mai più nulla dei sentimenti che mi riguardano. Quello che provo saranno solo fatti miei.
- Che incredibile novità! – esclamai, con sarcasmo.
- Di novità ce ne saranno sicuramente altre. Altre che non ti aspetti. – specificò.
- Le aspetterò con ansia. 
- Siete liberi sabato sera? – mi chiese, portandomi a pensare che avesse cambiato argomento.
- Sì. – risposi.
- Allora venite da me a cena. – mi invitò.
- Ne saremo felici.
- Ho una sorpresa. – disse sorridendo, sornione.
- Non puoi anticiparmi niente?
- E che sorpresa sarebbe?
- Va bene, io ci ho provato.
- Lo so che sei curiosa, ma dovrai aspettare. 

 

        Ed io aspettai. Edmondo si rilassò, perché probabilmente preferiva essere presente quando Sirio ed io ci vedevamo. Adesso che mi aveva confessato la sua gelosia, poteva anche permettersi liberamente di dimostrarmela, senza fare violenza su se stesso. A volte, ripensando a com’era quando lo avevo conosciuto, mi chiedevo come facesse a mostrarsi sempre imperturbabile. Era un attore nato o un tremendo represso?
Quando arrivammo a casa di Sirio, quel sabato sera, pioveva. Non mettevo piede nel suo appartamento da almeno un anno e mi sorprese trovarlo completamente trasformato. Aveva abolito tutti i colori squillanti di cui si era circondato, per passare ad un bianco immacolato che rivestiva tutte le pareti, tingeva i divani e le tende e molti dei soprammobili. Erano rimasti i mobili in ciliegio e il pavimento color cotto. All’improvviso mi venne in mente che quella trasformazione aveva mutato un appartamento da giovane single un po’ scapestrato, in quello di un uomo maturo.
Poi, dalla cucina, emerse una donna. Doveva avere sui trentacinque anni, aveva i capelli biondi, di un paio di toni più chiari dei miei, gli occhi azzurri come i miei e due fossette biricchine agli angoli della bocca, quando sorrideva.
- Vi presento Liliana, la mia fidanzata. – annunciò Sirio, quando la vide entrare in soggiorno.
Dopo le presentazioni di rito, guardandomi bene negli occhi, rivelò:
- Ci sposiamo in ottobre. 
- Auguri. – esclamammo Edmondo ed io in coro, non mostrando, né l’uno, né l’altra, alcuna sorpresa. Lui, perché ci riusciva per abitudine, io, perché mi ero imposta di non rivelare neppure un briciolo di quanto provassi in quel momento, e cioè soprattutto un inquietante groviglio di emozioni confuse.
Mille domande si affastellavano nella mia mente. Da dove era sbucata questa Liliana? Quando l’aveva conosciuta? Durante quei cento giorni di ritiro spirituale? E perché io avevo dovuto cuocere a fuoco lento per dieci lunghi anni, mentre lei era riuscita a mangiarselo in un boccone, in un batter d’occhio? Ma perché tutto quello che riguardava Sirio continuava a sconvolgermi, anzichè lasciarmi indifferente? Eppure ero certa di averci messo una pietra sopra. Mi odiavo. Lo odiavo. E odiavo quella Liliana spuntata fuori dal nulla. Ma, nonostante la ridda di emozioni contrastanti che si contendevano mente e cuore, mi mantenni impassibile, presentandogli soltanto l’indifferenza minerale di un volto di pietra.
Riuscii tranquillamente a comportarmi come si conveniva. Fui persino allegra, brillante e divertente al punto giusto, sputtanando Sirio davanti a Liliana, con molto garbo e una certa dose di classe. In fondo, qualcosa avevo imparato anche da Edmondo e ne stavo facendo tesoro.
Da parte sua, durante quella serata che si rivelò, tutto sommato, apparentemente divertente, Edmondo mi lanciò, ogni tanto, uno sguardo tra il perplesso e l’allarmato, che non comprendevo.
Me lo spiegai più tardi.
- E’ evidente che ci sei rimasta male. Hai calcato troppo la mano, perché la tua vivacità mi potesse apparire del tutto naturale. Loro forse ci sono cascati, ma io no. – mi rivelò Edmondo, irritato.
- Non ci sono rimasta male, mi sono stupita. A me m’ha tenuta dieci anni sulla corda e questa qui, appena appare, già se la sposa. Se mi rode impercettibilmente, non credi che ne abbia un pizzico di ragione? 
- Ci sei ricascata, Alba? Pensi di nuovo a lui, in quel modo?
- Non ci penso in quel modo, che significa poi? Non ho il diritto di esserne rimasta sorpresa? – obiettai.
- Sì, ti capisco. – ammise il duca, sospirando. – Comunque inizia a pensare al regalo di nozze. – mi invitò, con un tono che mi fece rabbrividire.
Pensai a un bel vassoio di veleno per topi, avvolto in carta d’argento, con un elegante fiocco di tulle bianco, ornato di gustosi fiorellini di cicuta.

        Non c’era niente da fare. Tutte le mie certezze erano ripiombate nel caos. Dovevo rassegnarmi all’idea che si era trattato solo di illusione, quando mi ero convinta di aver superato e sepolto i miei sentimenti per Sirio. Cominciai a dubitare di essere pazza. Forse qualche ora di terapia da un bravo analista, avrebbe potuto compiere un miracolo. Avevo decisamente bisogno di aiuto. La mia incerta condizione si aggravò con la mania che venne a Sirio, all’improvviso, di vederci tutti e quattro, il più spesso possibile. Più tentavo di tenermene alla larga, più lui si faceva assillante, sostenuto dall’incondizionata approvazione di Edmondo, che trovava la cosa piacevole e del tutto naturale. Eravamo amici, certo, ma che bisogno c’era di vederci tre volte la settimana? Non si stava esagerando? I freschi piccioncini non avevano desiderio di restare da soli a tubare? No, non lo avevano, evidentemente. Liliana era molto simpatica, cosa che mi procurava l’orticaria. Era bella, indubbiamente più di me. Era affascinante, sensuale, espansiva, spontanea e disponibile. L’esatto opposto di come mi vedevo io. Era giusto il mio contrario, in un involucro che sembrava la mia bella copia. Diventammo amiche. Cioè, la finzione a cui mi obbligai, ne forniva una rassicurante apparenza. Dentro di me, ribollivo e fremevo, come un vulcano che sta per esplodere. Edmondo la guardava, a volte, con quello stesso sguardo che aveva dedicato solo a me, nei primi tempi in cui eravamo insieme. Sirio se la godeva. Lo vedevo. Gli conoscevo quell’espressione, che gli sorprendevo a volte, ma mi sfuggiva il ricordo di quale fosse stata l’occasione in cui gliel’avevo già vista. Stava giocando. Ne ero certa, eppure non capivo a quale gioco. Decisi che l’avrei tenuto d’occhio, senza lasciarmi scoprire.

 

        Più si avvicinava il mese di ottobre, più mi sentivo corrodere interiormente. Grazie a quale alchimia, Sirio si era trasformato in quel tenero pezzo d’uomo che di nuovo mi faceva tremare le ginocchia? Non pensavo ad altro e mi perdevo in banali ed inutili fantasticherie, come fossi regredita ai bei tempi andati in cui mi ostinavo a non mollare le speranze. Ero desolatamente tornata stupida, se mai avevo smesso di esserlo.
Anche Edmondo era distratto, ma non me ne chiesi il motivo. Ero convinta che non si rassegnasse all’idea che non volevo sposarlo, nemmeno adesso che vedevo Sirio deciso a compiere quel passo per lui inusitato. Ma l’argomento per me era chiuso e non intendevo riaprirlo. Avevo altro per la testa.
Poi, una sera, chiamai Edmondo, per mostrargli una cosa e lui arrivò, dicendo:
- Che c’è, Liliana?
Restai di stucco. Di rimando, lui mi mostrò uno sguardo vitreo in un viso dall’espressione impietrita e colpevole.
Fu allora che compresi quali fossero i pensieri che lo distraevano. In fondo, non erano molto lontani dai miei. Non gli chiesi quando era cominciata, né a che punto delle sue fantasie fosse giunto. Non mi sembrava giusto fare scenate per un torto che io gli avevo già ampiamente ricambiato. Ne presi atto e tornai a fare le valigie senza spiegare, senza discutere, senza parlare e senza neanche pensare. Non c’era più bisogno di nessuna di quelle cose.
- Me ne torno a casa mia. – sottolineai soltanto, una volta raggiunta la porta.
- Scusami. – mi disse lui, contrito.
- Non ce n’è bisogno. – risposi, richiudendomi la porta alle spalle.

        Il mio appartamento mi aspettava come sempre, rassicurante rifugio dei miei anni di placida solitudine. Non ci tornavo disperata o tremendamente confusa. Non mi aspettavano decisioni da assumere o tempi da rispettare, non dovevo nulla a nessuno. Ero quella che ero e potevo restare in compagnia di me stessa senza imbrogli, senza finzioni, senza sotterfugi o secondi fini. Ero libera, ero deliziosamente sola con me stessa e potevo fare esattamente tutto quello che volevo, anche la prima cosa che mi passasse per la testa, senza che nessuno potesse metterci bocca. Era eccezionalmente rilassante ed incredibilmente piacevole.
Dopo un paio di giorni sentii Sirio al negozio. Mi chiamava per invitarci a cena.
- Io non vengo, – gli dissi – se vuoi, puoi chiamare Edmondo e chiederlo a lui.
- Che significa? – mi chiese.
- Mi sono presa una lunga pausa di riflessione. – gli comunicai.
- Sei tornata a casa tua?
- Sì. – affermai.
- Stasera vengo da te. Voglio sapere cosa sta succedendo.
- Non ti scomodare, non sta succedendo niente. E’ solo che preferisco starmene un po’ per i fatti miei. Salutami Liliana. 
- Aspetta.
- Devo chiudere, ho dei clienti. – mentii, riattaccando il telefono.
Sperai che non tornasse alla carica. Non volevo vederlo. Volevo starmene in pace a giocare con i miei pensieri e a crearmi stupidi sogni, che mi davano più piacere delle mie vecchie illusioni. Quella sera Sirio mi cercò a casa, ma io non risposi al telefono, né al citofono. Volevo restare sola con il mio film preferito, con il mio pigiama preferito e con una scatola di cioccolatini come unica compagna.
Ma il giorno successivo, quando si presentò in libreria, prima della chiusura, non mi fu possibile evitarlo.
- Lo so che eri a casa, ieri sera, c’erano le luci accese.
- Lascio sempre le luci accese, quando esco la sera, per via dei ladri. – mentii.
- Ah, così saresti uscita. E dove sei andata di bello? – mi chiese, con falsa leggerezza.
- Al cinema. 
- Era bello il film?
- Non molto. – commentai, con indifferenza.
- Smettila. – mi disse. – Dai, chiudi, che andiamo.
- Non vengo con te, stasera. Ho un appuntamento. – obiettai.
- E con chi?
- Con la mia amica Mara. Te la ricordi?
- Vagamente.
- Ah, eccola qui. – dissi, vedendola entrare.
- Ciao, Mara. Ti ricordi di Sirio, il mio titolare?
Sirio trasalì leggermente. Si salutarono stringendosi la mano. La sua espressione era piuttosto seccata. Non si aspettava quel nuovo ostacolo, ma io glielo avevo piazzato davanti proprio con l’intenzione di bloccarlo, perché ero certa che non avrebbe desistito. Invece, lo lasciai a chiudere il negozio con Marco e me ne andai, sfilandogli proprio sotto il naso.
- Grazie, Mara. Sei proprio un’amica. – le dissi, mentre ci salutavamo dietro l’angolo.
- Non c’è di che. La prossima volta, però, andiamoci sul serio a cena insieme. Anzi, ti chiamo io appena sono libera.
L’avevo chiamata in extremis, sperando che fosse disponibile, ma lei non lo era quasi mai. Però mi aveva fatto il favore di venirmi a prendere, per gettare un po’ di fumo negli occhi a quel rompiscatole di Sirio. Non volevo vederlo ed era una decisione definitiva. Mi sarei inventata qualcosa anche per la sera seguente, se ce ne fosse stato bisogno. Anzi, mi nacque, lì per lì, l’idea di invitare Irene a venire al cinema con me.
Appena arrivata a casa, la chiamai sul cellulare. Non fece mostra di stupirsene. Del resto, buon sangue non mente. Accettò il mio invito con piacere, anche perché aveva delle cose da dirmi, mi comunicò. Attesi il nostro incontro, senza eccessiva apprensione. Venne a prendermi alla chiusura.
- Sono contenta che tu mi abbia chiamata. Volevo giusto parlarti.
- Di che cosa? – le chiesi, spostandole, con gesto automatico, una ciocca di capelli dagli occhi.
- L’altra sera è venuta a casa nostra la fidanzata del tuo amico, da sola. Lei e mio padre si sono chiusi nello studio per due ore. Che vuole quella lì? Ne sai niente, tu?
Io sospirai.
- E’ per questo che sono venuta via. Credo che tuo padre si sia innamorato di lei.
- E tu ti sei arresa così? – chiese, sbalordita.
- Non è facile spiegare, Irene. Ancora adesso non ci capisco niente nemmeno io. Comunque, se tuo padre ha trovato quello che stava cercando, sono felice per lui. 
- Ma allora è vero che non lo amavi. – mi disse, delusa.
- Non abbastanza, Irene, mi dispiace. 
- E quella lì non è già fidanzata con Sirio?
- Beh, questi sono affari loro. Io non voglio entrarci, se non ti dispiace.
Proprio in quel momento, entrò il lupus in fabula.
- Ah, menomale, Sirio. Sei venuto a chiudere? Così io posso andare con Irene al cinema senza arrivare a film già iniziato. – dissi, tutto d’un fiato.
- Anche stasera? – si irritò.
- E sai, la vita da single è più movimentata. Adesso mi posso sbizzarrire. – commentai, trascinandomi dietro Irene e fuggendo dal negozio.
- Quello è Sirio? – chiese Irene.
- Sì, perché? 
- E’ per lui che non sei riuscita a restare con mio padre? 
- Irene, ascoltami bene. Io avevo all’incirca la tua età, quando mi sono presa una cotta per lui e non sono nemmeno troppo sicura che mi sia mai passata. Con tuo padre è stato bellissimo, ma ora si sta dedicando ad altro. Non ci pensare più. Pensa ai tuoi amori. I nostri, lascia che ce li incasiniamo da soli. Non potresti capire, perché non ci capiamo niente neanche noi.
Quella notte, assalita da un attacco di insonnia, pensai che Liliana si fosse fatta irretire dal fascino magnetico di Edmondo, che io ben conoscevo. E Sirio? Come l’avrebbe presa, se lo avesse scoperto? Dovevo avvertirlo? Dovevo farmi i fatti miei? Dovevo lasciare tutti a cuocere nel loro brodo? Sì, era quello che avrei fatto.
Quando finalmente mi addormentai, sognai di entrare nel garage del mio condominio e di trovare appesi a una trave, impiccati, Edmondo, Liliana e Sirio, insieme ad altri condomini che conoscevo appena. Mi parve un sogno chiaramente rivelatore di quello che stavo pensando da qualche giorno: che vadano tutti a farsi impiccare.
Benchè avessi chiesto ad Irene di non pensarci, lei mi chiamò per tenermi aggiornata. Le visite di Liliana continuarono, mentre Sirio non si fece più vedere per tre giorni.
Al quarto, me lo trovai davanti alla porta di casa. Macchinalmente tentai di intrecciare mentalmente una storia di appuntamenti, che Sirio mi impedì di raccontargli.
- Stasera no, Alba. Stasera stai con me. – affermò perentoriamente, con un tono decisamente minaccioso.
- E va bene, entra. – mi arresi, girando le chiavi nella toppa.
- Grazie. – disse in tono sbrigativo, andandosi a buttare sul divano.
Io mi sedetti accanto a lui e lo guardai di profilo.
- Allora, che c’è? – gli chiesi.
- No, prima io. Perché hai di nuovo messo “in pausa” con Edmondo?
- Non sono affari tuoi. – obiettai.
- Forse no, e forse sì. 
- Nel modo più assoluto. Non ho alcuna intenzione di confidarmi con te. Mi dispiace, ma dove non c’è reciprocità, non c’è fiducia. 
- Non ti aspetterai che io mi confidi con te? – si stupì.
- No, ma nello stesso modo voglio comportarmi io con te.
- Va bene, allora. Di che parliamo?
- Non lo so. Sei tu che senti questa impellente necessità di parlare. 
- Sei proprio sicura di non avere niente da dirmi? – insistette.
- Sicurissima.
- Mi deludi.
- Non sapevo che nutrissi questo genere di aspettative. Potevi risparmiarti il viaggio.
- Puoi farcela, Alba. Ce l’hai proprio sulla punta della lingua. – incalzò.
- Sirio, di che cosa volevi parlarmi? Perché sei qui? 
- Ho capito. I tempi non sono maturi. Credo che tornerò un’altra volta.
- C’è in te una specie di nuova vigliaccheria che non ti conoscevo. Che ti succede? – gli chiesi, perfidamente.
- Pensala come vuoi, la cosa non mi tocca. E adesso, visto che non vuoi sputare il rospo, tienitelo pure sullo stomaco. Quando avrai voglia di gracidare, sai dove trovarmi. 
- Certo, capo. – assentii, guardandolo andare via con la sua espressione sostenuta e seccata insieme.
Era venuto per sentirsi dire che Edmondo se la faceva con Liliana? Perché sembrava quasi soddisfatto di quello che stava accadendo? Qualunque macchinazione avesse messo in moto, non avevo alcuna intenzione di abboccare. Punto.

 

        Passarono due intere settimane senza che mi cercassero più, né Sirio, né il duca. Ma io avevo la mia spia che riferiva con regolarità militaresca. Ogni sera, Irene, mi faceva rapporto. L’idillio tra Liliana e suo padre era ormai conclamato. Quella peste era giunta al punto di spiare le loro conversazioni, e anche il resto, origliando dietro la porta. Erano all’apice di una storia romantica che aspettava soltanto l’epilogo finale. Avevano deciso di confessarlo a Sirio, proprio quel sabato, incontrandosi in un ristorante che conoscevo bene, lo Springtime Jazz. Irene mi propose di andarci anche noi e goderci la scena da lontano.
- Sei impazzita? Non lo farei mai. 
- Allora ci manderò qualcuno dei miei amici, che poi mi riferiranno. – affermò lei.
- Ma Irene, che ti viene in mente? 
- Sono troppo curiosa, Alba. Devo farlo. Scusami, ma ho deciso. 
Mi salutò, assicurandomi che mi avrebbe fatto sapere, rifiutandosi di credere che io ne volevo restare fuori. Perché non mi credeva?
Il venerdì mi chiamò anche Sirio, per invitarmi alla famosa cena delle beffe. Ma io rifiutai categoricamente.
- Peccato, che peccato - continuò a dirmi non so quante volte, ma io fui irremovibile.
Cominciai ad essere certa che Sirio sapeva già tutto e che si aspettava proprio quella sera la scena finale, con tanto di chiusura del sipario e applauso degli spettatori presenti. Beh, io non sarei stata tra questi. Non avrei applaudito a spettacolo finito, non avrei commentato sulla disgrazia che gli era capitata tra capo e collo, non avrei screditato Edmondo, per fornirgli la possibilità di dichiararmi: te l’avevo detto, non sarei stata una pedina ingannevolmente inconsapevole del suo gioco. Ormai lo conoscevo troppo bene. Gli avrei strappato quel piacere. Ma Irene mi avrebbe fatto rapporto e avrei saputo ugualmente com’erano andate le cose.
La domenica mattina, Irene non si limitò a chiamarmi, ma si presentò a casa mia, in tuta da jogging. Aveva detto al padre che andava a correre, ma aveva fatto ben poca strada.
- Allora, com’è andata? – le chiesi.
- Niente di eclatante. Sirio non ha fatto una piega. Sembrava che non gliene importasse niente. Probabilmente lo sapeva già. E’ stato persino carino, con loro, facendogli gli auguri. Mi hanno riferito che Sirio ha detto a mio padre “Questa volta ne hai trovata una adatta a te. Lei è una che al matrimonio ci tiene.” E pare che mio padre gli abbia fatto a sua volta gli auguri. I miei amici non hanno capito perché, ma io sì. Intendeva augurargli di riuscire a incastrare te. E’ così, vero? 
- Probabilmente. – commentai.
- Ma adesso Liliana diventerà la mia matrigna. Io preferivo te. – commentò, infastidita.
- Mi dispiace. Possiamo essere amiche lo stesso, no? E poi Liliana non è male, te lo assicuro. Ero io che avevo un sacco di pregiudizi nei suoi confronti, ma ti assicuro che è una donna in gamba.
- Certo, adesso devi addolcirmi la pillola. – commentò, ridendo.
- Beh, te ne accorgerai. Mi racconterai.
- Non dubitarne. Io li tengo d’occhio. – affermò Irene, con un’espressione da donna matura.
E poi fu la volta di Sirio. Arrivò a pomeriggio inoltrato, mentre il tramonto tingeva di rosso le finestre e si rifletteva in soggiorno con uno splendore irreale.
- Non mi sposo più. – mi annunciò, con espressione triste.
- Che peccato! Ci tenevi così tanto! – commentai, ironicamente.
- Sei crudele. – mi accusò.
- Mi dispiace, non avevo capito che ci tenessi davvero. Mi dispiace, sul serio. – rimediai.
- Non mi chiedi perché? 
- Perché? – gli chiesi, non riuscendo ad aggiungervi nemmeno un tocco di curiosità.
- Perché i nostri fidanzati hanno deciso di farsela tra loro. 
- Ma è incredibile! – commentai, fingendo uno stupore assoluto.
- Lo sapevi già. E’ per questo che te ne sei andata. E non mi hai nemmeno avvertito. Che amica sei? 
- Una di cui sicuramente puoi fare a meno. – affermai, indifferente.
- Non dire sciocchezze. Di te non farò mai a meno. – rispose, con espressione decisa e, mi parve, incredibilmente sincera.
- Allora sono esattamente il tipo di amica che ti meriti. – gli rinfacciai.
- Alba, senti, questi giochetti mi hanno stancato tremendamente. Parliamo sinceramente, vuoi? – mi propose.
- Non sono io che faccio giochetti. Se ti hanno stancato, smetti di farne. Ti semplificherai la vita, ne sono sicura.
- Va bene. Allora comincio io, però ho bisogno di qualcosa di forte. Hai niente di altamente alcolico, in casa? – mi chiese.
Io gli versai da bere e gli lasciai la bottiglia sul tavolino. Se aveva bisogno di sbronzarsi, per parlare francamente, non sarei stata certo io ad impedirglielo.
- Con te sono stato un bastardo. Lo ammetto. – affermò, dopo essersi scolato mezzo bicchiere in un sorso.
- A cosa ti riferisci? – gli chiesi, per tentare di circoscrivere l’argomento della sua ipotetica bastardaggine.
- Vuoi una confessione completa? 
- Non so, fai tu. 
- Cominciamo dall’inizio, allora. Quando ti ho conosciuta, ero molto attratto da te, ma avevi solo vent’anni, eri una ragazzina, ti rendi conto? Io avevo trentadue anni e c’era un abisso tra noi. Mi ero accorto che ti eri presa una cotta per me, ma io non me la sentivo di comportarmi con te come avrei fatto con le altre donne che mi capitava di frequentare. Ci stavo insieme per un po’ e poi le mollavo. Non volevo legami, avevo soprattutto il desiderio di essere libero e di restarci. Poi è successo che mi sono innamorato di te. Lo so, avrei potuto dirtelo, ma per me rimanevi sempre troppo giovane. Così sono rimasto incastrato in questa specie di circolo vizioso. La tua amicizia mi bastava, credevo. Il punto è che se ci fossimo messi insieme, sapevo che non avrei potuto mollarti come facevo di solito. Ci tenevo a te e alla tua amicizia, mi rifiutavo di rischiare di rovinare tutto.
Si interruppe per bere ancora e se ne versò dell’altro. Poi continuò:
- Quando è sbucato fuori Edmondo De Luna, mi sono reso conto che aveva la mia stessa età e che tu, nel frattempo, eri diventata una donna. Ti piaceva. E io ho cominciato ad esserne geloso. Temevo di perderti. Insomma, è stato lui a farmi rendere conto che avevo perso troppo tempo e che… mi ero addormentato. Mi ha costretto a fare un profondo esame di coscienza e a concluderne che ero ancora innamorato di te. Lo ero sempre stato, ma mi ero rifiutato di rifletterci e di lasciarmi andare. Ero rimasto bloccato, capisci? E’ stato lui a sbloccarmi, proprio quando tu hai deciso di andare a vivere con lui.
Sirio sospirò. Non doveva essere facile ammettere tutto quello che mi stava raccontando. Io aspettai che continuasse, temendo che qualunque commento avrebbe fermato quello slancio incredibile. Svuotò il secondo bicchiere e continuò, senza più guardarmi.
- Quando mi hai chiesto di diventare suo amico, non l’ho fatto per te, te lo confesso. L’ho fatto per me, per conoscere meglio il nemico che mi trovavo ad affrontare, per studiare le armi adatte a difendermi, a difendere il mio amore per te. A te non volevo rinunciare. Quando mi hai chiesto, quel giorno, se io ti meritavo, mi sono risposto di sì. Sì, il mio amore per te mi autorizzava a persuadermi che io ti meritavo. Dovevo soltanto trovare il modo di dimostrartelo. Intanto, però, dovevo staccarti da lui, ma non sapevo come. Quando ho conosciuto Liliana è stato un colpo di fulmine. No, non per me. Ho pensato subito ad Edmondo, ero convinto che quella fosse la donna giusta per lui. Ho finto di innamorarmi di lei, per uno scopo ben preciso. Intanto speravo di ingelosirti, e quello almeno sarebbe stato il sintomo che non ti ero diventato del tutto indifferente, e poi volevo che si frequentassero e che si conoscessero. Poteva non accadere nulla di quello che speravo, ma loro, a quanto pare, erano davvero fatti l’uno per l’altra, come mi ero immaginato. Quello che non mi aspettavo era che tu mi avessi davvero cancellato per sempre. Quindi tutta questa macchinazione non è servita ad altro che a far soffrire ancora una volta solo te. Mi dispiace, me ne vergogno. So che non mi perdonerai mai di averti fatto una carognata simile. Avevi finalmente trovato l’uomo che ti amava e che tu amavi, ed io ho distrutto tutto. Non ti chiedo perdono. Non sono perdonabile, lo so. E ti capisco se non vorrai mai più parlarmi. Sono un essere ignobile, spregevole, un disgraziato, un…
- Basta! – lo bloccai.
Scoraggiato, mi guardò negli occhi, per la prima volta da che aveva iniziato a tracimare quel fiume di parole. Dalla sua espressione si capiva che non s’aspettava alcuna assoluzione.
- Ti perdono. – gli dissi, abbracciandolo.
- Davvero? – esclamò, incredibilmente sorpreso.
- Sì, davvero, dal più profondo del cuore. – confermai.
- Perché? Come fai a… 
- Perché ti amo. Non ho mai amato nessun altro come amo te. Edmondo è stato solo una parentesi che mi è servita per comprenderlo.
- Non ci posso credere. – disse, più sconvolto che se gli avessi dichiarato il contrario.
- Baciami, bastardo. – gli ordinai.
E finalmente ero tra le braccia giuste. Quello che accadde subito dopo, l’avevo sognato tanto a lungo che mi sembrò un dejà-vù. Anche quando, su quello stesso divano, c’era stato il duca, il volto di Sirio si era sovrapposto al suo. Me ne ricordai solo allora. Quante volte mi era accaduto? C’era sempre stato Sirio, sotto sotto, a covare nella cenere. Il silenzio della mia mente, il vuoto del mio cuore, erano stati un campanello d’allarme che mi ero ostinata a non udire, anche nei momenti più importanti del mio rapporto con Edmondo. Mi ero accontentata, perché non avevo mai creduto di poter ottenere quello che avevo così disperatamente desiderato per lunghi anni. Ero rimasta aggrappata a un sogno che era inciso nelle cellule del mio cervello, talmente in profondità, che per estirparlo da me, sarebbe stato persino inutile asportarle chirurgicamente.
Non so dire come riuscimmo a staccarci, l’uno dall’altra, dopo molto tempo, ma so che fu difficilissimo.
- Ti va qualcosa da mangiare? – gli chiesi.
- Sì, ci vuole un po’ di carburante. – ammise, ridendo.
- Faccio due panini.
- Vengo anch’io, non riesco a staccarmi da te. 
- Sirio, è il giorno più bello della mia vita. – gli confessai.
- Che tu ci creda o no, lo è anche per me. – mi disse, abbracciandomi di nuovo, con uno sguardo rovente che mi fece venire la pelle d’oca.
Aveva rifiutato una ragazzina di vent’anni, con tutti i suoi sogni intatti, che vedeva ogni cosa filtrandola con lenti che tingevano tutto di rosa, che aveva un cuore nuovo di zecca in cui era sbocciato quel timido, tenero, incredibile amore, e ora pretendeva a tutti i costi la donna che era diventata, attraversando quella landa deserta di sentimenti, di rapporti incompiuti, di compromessi inattuabili, chiusa in uno stretto silenzio, blindata in un assoluto riserbo, che non credeva più in nulla e vedeva tutto grigio. Lui mi aveva creata, trasformata, modellata, distrutta, ricreata, frutto delle sue contraddizioni, delle sue indecisioni, dei suoi timori, delle remore, dei preconcetti e, in ultimo, delle sue gelosie. Ed io non potevo far altro che accettare le cose così com’erano andate.

        Nonostante la rivalità che li aveva contrapposti, Sirio ed Edmondo si ritrovarono a cena insieme, una sera, per chiarire le loro rispettive posizioni. Sirio mi raccontò che Edmondo gli era grato per avergli fatto conoscere Liliana ed era stato contento di sapere che noi ci eravamo finalmente dichiarati il nostro reciproco sentimento. Come già gli avevo preannunciato, Edmondo aveva sempre saputo che io, in fondo, pensavo a lui. Poi il duca gli aveva chiesto - E la tua libertà?
- La mia libertà è in buone mani, da moltissimi anni.- gli aveva risposto Sirio.

 

        Quello era un pensiero che non mi aveva mai sfiorata. La libertà di Sirio era finita quando mi aveva conosciuta. L’avevo sempre avuta tra le mani e non me n’ero accorta. E la mia dov’era? Ce l’aveva Sirio. Non ero mai stata libera, perché il mio cuore era occupato da lui.
Ogni nodo si era sciolto. Ogni pezzo del gioco aveva trovato il suo posto e il suo incastro, completando un quadro finalmente perfetto.

Subito dopo, il duca si fece rivedere in libreria. Era sempre lo stesso, eppure era diverso, o forse era cambiato il mio modo di vederlo. Comunque aveva perso parte del suo smalto e della sua sicurezza. Mi salutò indeciso, come se si aspettasse che io non gli rispondessi nemmeno. Invece, girai attorno al banco della cassa e andai ad abbracciarlo.
- Grazie. – gli dissi, semplicemente, sperando che comprendesse tutti i sottintesi che vi erano compresi.
- Restiamo amici? – mi chiese.
- Perché non dovremmo? Basta che ci perdoniamo a vicenda. 
- Però dobbiamo chiarire. Io l’ho già fatto con Sirio. 
- Lo so, mi ha raccontato.
- Vieni da me stasera? Saremo solo noi due, così potremo parlare tranquillamente. 
Non credevo che ci fosse molto di cui discutere, ma accettai volentieri ugualmente.
Quella sera, Edmondo ed io mangiammo in cucina, poi sparecchiammo insieme ed io caricai la lavastoviglie, riprendendo gesti che mi erano divenuti familiari. Ci avevo vissuto a lungo, in quella casa e mi sentivo perfettamente a mio agio. Lui mi guardava in silenzio. Quando terminai, mi sedetti di fronte a lui e aspettai che mi parlasse.
- Non so come sia accaduto. – esordì – Non so nemmeno quando è cominciato, ma credo che sia stato quella sera, quando è apparsa all’improvviso dalla cucina di Sirio. E’ stato un colpo di fulmine. Non ci ero preparato. Io non ho mai creduto nei colpi di fulmine.
Mi stupì che avesse ripetuto le medesime parole di Sirio, che mi aveva descritto nello stesso modo, il suo primo incontro con Liliana. “Un colpo di fulmine. Non per me, ma per Edmondo.”
- Sono contenta che tu abbia trovato la donna davvero giusta per te. – gli dissi.
- E’ la stessa cosa che mi ha detto Sirio. Però, è lui che me l’ha trovata. Niente mi toglie dalla testa che lo abbia fatto apposta. - commentò, forse tentando di estorcermi la verità, se io la conoscevo.
- E’ il destino. – commentai, invece – A volte fa strani giri per raggiungerci. 
- Infatti, il tuo ti ha raggiunto grazie a me.
- Sembra proprio di sì. Quando Sirio si è accorto che stava per perdermi, ha compreso che non poteva permetterlo. 
- Ti ama molto, e da molto tempo. – ammise. – Me l’ha confessato, alla fine. 
- Adesso lo so anch’io. – confermai.
- Liliana ed io abbiamo deciso di convivere, prima di sposarci. Vorremmo evitare passi falsi, fare le cose con calma. –
- Te l’ha chiesto lei? – domandai, lievemente stupita.
- No. Sono stato io. 
- Non sei sicuro dei tuoi sentimenti? 
- Mi sembra di essere sicuro, ma lo ero anche con te, e invece poi…
- Con me era diverso. Sapevi già che c’era sempre Sirio, tra noi, e che Sirio non mollava, quindi non ti sentivi sicuro abbastanza. 
- Forse è così, ma non mi fido più, adesso che ho constatato che i miei sentimenti possono mutare tanto in fretta. 
- Hai rimpianti? 
- No, rimpianti no. Ma il mio affetto per te resta immutato. Vorrei che tu lo ricordassi. L’ho soltanto spostato su un piano diverso. 
- Lo capisco. Anch’io ti voglio bene e penso ancora che tu sia un uomo meraviglioso. Questo non è cambiato. 
- E’ stato bellissimo averti qui. Hai trasformato la mia vita. Ma adesso devo imparare a pensare a te come a una cara amica. E’ questo che vedrò, quando ci incontreremo. Una cara amica che un giorno ha cambiato la mia vita. 
- E tu sarai il meraviglioso amico che ha svegliato il mio principe azzurro che era caduto in letargo. 
Il duca scoppiò a ridere.
- Non l’ho baciato, te lo giuro! – si difese, scherzosamente.
- No, quello, alla fine, sono riuscita a farlo io.
- Non fornirmi altri particolari, per favore. Non sono ancora in grado di sopportarli, temo. 
- Adesso, forse, è meglio che vada. – gli dissi, imbarazzata per lo sguardo bruciante che mi aveva lanciato.
- Sì, è meglio. – acconsentì il duca, afferrandomi, però, mentre passavo accanto a lui.
Mi strinse forte, con lo stesso vigore di sempre. Poi mi baciò. Credo che un bacio di addio non dovesse essere tanto lungo e profondo, ma quello riassumeva in sé tutta la passione che c’era stata tra noi, la lotta delle indecisioni, il tira e molla dei sentimenti, il desiderio interrotto di una storia che avrebbe potuto condurci per altre vie, la delusione di essere stata spezzata troppo presto. E mise in moto l’adrenalina e vari altri ormoni dai nomi sconosciuti, che reclamavano un seguito. Nessuno dei due fu in grado di fermarsi.
- Non succederà mai più. – mi promise Edmondo, quando tornammo in noi.
- Non promettere quello che non puoi mantenere. – gli dissi, riproponendogli una frase che lui aveva rivolto a me, un giorno.
- E’ stato bello, Alba. Dovevamo farlo un’ultima volta, non credi? 
- E’ stato bello, sì. Ma adesso si volta pagina. E’ stato un incidente. Dimentichiamo. Dimentichiamo tutto.
Io lo avrei fatto, perché per me contava solo Sirio. Ma Edmondo non sembrava intenzionato ad imitarmi. Mi amava ancora, con passione, e amava Liliana, il suo colpo di fulmine, e oscillava su quell’altalena dei sentimenti da cui io ero appena scesa. Non lo invidiai affatto. Comunque promisi a me stessa che non mi sarei più trovata da sola con lui, per non lasciare la porta aperta all’attrazione fisica che provavamo ancora l’uno per l’altra. La cosa incredibile fu che non mi passò per la mente, nemmeno per un attimo, che avevo tradito Sirio. Mi venne in mente solo quando ci incontrammo di nuovo tutti e quattro e mi fu chiaro che era avvenuto uno scambio di coppie, e che quelle due nuove coppie erano sedute l’una di fronte all’altra, al tavolo di un ristorante. Mi colse un momento di profondo imbarazzo che mi costrinse a un silenzio piuttosto prolungato. Per fortuna, nessuno di loro ci badò. Non potevo spiegare quale fosse il motivo del mio turbamento.

 

        Liliana si trasferì da Edmondo subito dopo quella cena. Sirio ed io, invece, continuammo ad incontrarci da lui o da me, a seconda delle circostanze, del caso, della fantasia o delle necessità. Compiere quell’ultimo passo, che ci avrebbe portati a condividere la nostra vita, andando a vivere sotto lo stesso tetto, evidentemente, sembrava a Sirio del tutto irrilevante. In fondo, stavamo bene anche così. Non sarei stata io a chiederglielo, doveva arrivarci da solo. Su questo, non avevo dubbi di sorta.

        Una domenica mattina venne a trovarmi il duca. Sirio non c’era. Preparai il caffè ed iniziai una conversazione molto fitta e volubile, parlando di ogni argomento che mi saltava in mente, perché dentro di me, ed era molto imbarazzante, sapevo che se avessi smesso di parlare, le cose tra noi avrebbero potuto precipitare. Lui, ad un tratto mi guardò ironicamente.
- Non ti preoccupare. Non ti salterò addosso. – mi disse, sorridendo.
- Non lo stavo pensando affatto. – mentii, fingendo un’espressione stupita.
- Pensavo che fossi riuscita a leggere nei miei pensieri. – si giustificò, con quella voce di velluto che mi emozionava.
- Vorresti saltarmi addosso? 
- Sì, è proprio quello che vorrei fare, ma stai tranquilla, riuscirò a trattenermi.
- Bene. – commentai.
- Anche tu lo vorresti, te lo leggo negli occhi. 
- I miei occhi potrebbero farsi i fatti loro, ogni tanto. – mi innervosii.
- E’ meglio che vada. – ammise Edmondo, avviandosi verso la porta d’ingresso.
Io trattenni il fiato. Ero proprio sull’orlo di un abisso che si stava spalancando davanti a me e senza il suo aiuto ci sarei caduta dentro. Bastava che uscisse e richiudesse la porta, perché fossi salva. Ma lui tornò indietro. Il suo abbraccio mi fece precipitare nel vuoto. Non poteva essere vero. Non poteva.
Era inammissibile, inaccettabile, intollerabile, inconcepibile, ma era vero. Era più forte di noi, delle nostre intenzioni, delle nostre certezze, dei nostri principi, dei nostri propositi.
- Per favore, non venire più a trovarmi. – gli chiesi, quando riuscimmo a staccarci l’uno dall’altra.
- Alba, non ce la faccio. – mi confessò – Mi sei rimasta dentro. Non riesco a rinunciare a te. 
- Devi farlo. Ti prego. Così non può funzionare. 
- Anche tu mi ami ancora. Non negarlo.
- Io sono attratta da te, ma non è la stessa cosa. Io amo Sirio.
Edmondo sospirò.
- Per me è l’inverso. Io sono attratto da Liliana, ma amo te.
- Non posso farci niente. Mi dispiace. Non devi più venire qui. Promettimelo. 
- Lo sai che non posso. – si difese.
- Sappi che non ti farò più entrare, quando sarò sola.
- Cercherò di fare come mi chiedi, allora. Ma non ci conterei troppo, se fossi in te. 

 

A Sirio non raccontai nulla. Temevo, anzi ero certa, che se avesse saputo quello che era accaduto, per ben due volte, lo avrei perduto per sempre.
A stravolgere le mie decisioni ci pensò Irene. Stava tenendo d’occhio Liliana, così come si era ripromessa, e un giorno sentì la necessità impellente ed improrogabile di parlarmene.
Irene si era tagliata i capelli, portava due grandi cerchi d’argento alle orecchie e un golfino viola che le stava d’incanto. I miei complimenti non ebbero il potere né di distrarla, né di fermarla.
- Liliana se lo scopa ancora, Sirio. Mio padre non gli basta. E’ proprio una puttana.
Quello che mi disse ebbe l’effetto di una pugnalata al cuore. Mi si gelò il sangue e credetti di svenire. Lei ce l’aveva con Liliana, ma il punto fondamentale di quella informazione, si convogliò per me su ben altro centro di attenzione. Irene mi aveva appena rivelato che Sirio mi tradiva. Si accorse che stavo male. Dovevo essere bianca come un lenzuolo. Solo allora lei si rese conto di quello che mi aveva detto.
- Oddio, mi dispiace, Alba. Sono una stupida. Come ho fatto a non pensare che Sirio sta con te, adesso? Come sono stupida!
- Non ti preoccupare. E’ tutto a posto. Hai fatto bene a dirmelo, così saprò cosa fare. 
Solo che io non sapevo cosa fare. Sapevo soltanto che il mio castello incantato era crollato in un attimo, infrangendosi in mille frammenti che nessun paziente intervento avrebbe potuto ricostruire. Sirio mi tradiva. Oddio, anch’io un paio di volte l’avevo tradito, ma per come la vedevo io, si era trattato solo di una banale questione di sesso. In fondo, per me, non s’era trattato d’altro, dopo una vita sessuale da monaca di clausura, che di afferrare l’occasione di soddisfare uno smanioso desiderio, saziandolo finalmente con un piacere innegabile. La desolazione di quello che stavamo vivendo, mi apparve all’improvviso in tutta la sua sfolgorante chiarezza. Non stavamo creando nessun rapporto saldo, non vedevamo davanti a noi alcun futuro desiderabile, eravamo quattro miserabili che non sapevano amare, o che amavano solo a metà, e si lasciavano trascinare dai sensi, incapaci di opporsi agli impulsi travolgenti dell’attrazione fisica, svuotati di vere emozioni, perché di sentimenti profondi, intensi, reali, eravamo privi.
Anche se mi opponevo, con tutta me stessa, all’idea di dovermi separare da Sirio, la ribellione che mi scatenò, nell’intimo, l’idea del suo tradimento, mi costrinse a parlare.
Sirio non mostrò alcun rimorso.
- E’ stata solo una scopata al volo. Non c’è niente tra me e Liliana. Dovresti saperlo. 
- Infatti, lo so. Come tu sai che non c’è niente tra me e il duca. – gli dissi.
- Che c’entra? – mi chiese, sconcertato. Poi la sua espressione cambiò, quando la logica lo spinse a fare due più due. Ottenuto il risultato di quella semplice somma, cambiò anche il suo colore.
- Sei stata di nuovo con lui? – mi chiese con rabbia, scuro in volto, stringendo i denti.
- Come te con Liliana. Nello stesso identico modo. – sottolineai con voce piatta.

Un violento ceffone ben assestato fu il suo unico commento. Immediatamente, la consapevolezza dell’enormità di quella impulsiva reazione lo raggelò e il suo sguardo sgomento mi si piantò nell’anima. Quel gesto lo aveva sconvolto, più di quanto avesse fatto male a me. Mi abbracciò disperatamente, mormorando parole sconnesse che avevano senso solo per lui. La sua disperazione, più che la sua litania, lenì come un balsamo benefico la mia. E finalmente fui in grado di intendere le sue parole, che significavano tutte “perdonami”.
- Se tu perdonerai me. – gli dissi, col cuore gonfio di un’emozione che non avevo mai provato prima.
- Certo. Certo, è tutta colpa mia. Dovevo riprenderti per intero e non lasciarti la possibilità di pensare che fossi ancora libera. Adesso basta. Dobbiamo vivere insieme. E’ ora che mettiamo su casa e ci decidiamo a formare una famiglia. E’ ora che chiudiamo fuori dalla porta tutti gli altri e che comprendiamo che ci siamo solo io e te. Delle altre non mi è mai importato niente. Te lo giuro. Ma tu? Tu, Edmondo lo ami ancora? – mi chiese, preoccupato, staccandosi improvvisamente da me, per guardarmi bene in faccia.
- No. Te l’ho già detto. E’ te che amo. E vorrei che me lo lasciassi fare, finalmente. 
- Sposiamoci, Alba. Finiamola di giocare. Ormai siamo adulti abbastanza. 
- Sono d’accordo. Sposiamoci, – concordai – ma giurami che con Liliana non andrai mai più. 
- Se mi sposo è per sempre. – affermò Sirio, con una serietà che non mi aveva mai mostrato, senza neanche pensare di farmi promettere che non sarei più andata con il duca. Per lui era ovvio. Lo aveva già spazzato via dal pianeta, insieme con Liliana.

 

Così sognai che fosse andata.

Invece, dopo avermi atterrata con uno spaventoso, violento manrovescio, Sirio si eclissò, sbattendo la porta dietro di sè. Io avrei voluto morire subito, là dov’ero, rannicchiata sul tappeto, in mezzo al soggiorno, col buio che iniziava ad occupare gli angoli, avanzando a brevi passi silenziosi in tutta la stanza. Quando mi ripresi, chiamai Edmondo e gli raccontai quello che era accaduto. Non mi domandai come lui avrebbe affrontato Liliana. In fondo, non me ne importava niente. Ero chiusa in un’egoistica preoccupazione che mi faceva apparire importante esclusivamente quello che provavo io. Il filo si era spezzato e di nuovo si ingarbugliava tutto. Il nodo nevralgico che si annidava nelle mie fantasie, mi evocò la disperazione di un disastro privo di sbocchi. Calò un penoso silenzio, dentro di me, tra me e Sirio, tra me e il duca. Andavo al lavoro come un automa, tornavo a casa con l’impressione che tutto il movimento che continuava a fluire intorno a me, fosse intrinsecamente sbagliato. L’intero mondo avrebbe dovuto rimanere immobile, congelato come in una fotografia. Avrebbe dovuto imporsi il silenzio che avvolge ogni cosa, come durante una nevicata.

 

        Tre giorni dopo venne a trovarmi Irene. La sua espressione angosciata doveva somigliare molto alla mia. Non mi chiese come stavo, nonostante il livido che mi dipingeva di viola uno zigomo. Si limitò a farmi rapporto, con un’espressione che mostrava incredulità e incomprensione.
- Mio padre e Sirio si sono picchiati a sangue. Sono finiti tutti e due all’ospedale. – mi raccontò.
- Adesso come stanno? – mi preoccupai.
- Ne avranno per qualche giorno, ma non stanno male. Credo che siano soddisfatti di quello che hanno fatto. 
- Quando è successo? – le chiesi.
- Tre giorni fa. 
- Come mai hai aspettato tanto per dirmelo? – le chiesi, risentita.
- Mi hanno chiesto loro, di non dirti nulla. – si giustificò.
- E allora perché me lo stai raccontando? – domandai, stupita.
- Me l’ha ordinato Liliana, prima di andarsene. Ha detto che dovevi assolutamente saperlo.
- E dov’è andata?
- Non lo so, ma ha detto che non tornerà. – mi informò.
- In quale ospedale sono ricoverati? 
- Sono già usciti, ma non credo che andranno molto in giro, con quelle facce che si sono conciati.
- Tu c’eri? – le chiesi, perché desideravo maggiori dettagli.
- Sì, li ho visti. Se le sono date di santa ragione. Sembrava che non volessero smettere più. Poi ho dovuto chiamare il 118. Liliana era più spaventata di me e non sapeva cosa fare.
- Avrebbe potuto approfittarne per dargli il colpo di grazia.– commentai, sarcastica.
- E’ per te che si sono picchiati, non per Liliana. – mi disse, con espressione accusatoria.
- Ah.
Ma certo, Sirio aveva cominciato con me e poi aveva continuato con Edmondo. Doveva pur sfogare la sua rabbia.
- Adesso che farai? – mi domandò, incuriosita.
- Potrei imitare Liliana, andarmene e non tornare più. 
- Loro si massacrano per te e tu te na vai? Ma come funzionano le teste degli adulti? Io non ci capisco niente. 
- Se tu non mi avessi detto che Liliana si scopava Sirio, non sarebbe accaduto nulla. – l’accusai – Non potevo restarmene zitta. 
- Ma che bisogno c’era di dire a Sirio che anche tu ti eri scopata di nuovo mio padre? – mi rinfacciò.
Doveva averlo sentito da Sirio, perché non ero stata io a confessarglielo.
- Non potevo dire le cose a metà. – mi giustificai.
- Mi sa che a volte è molto meglio mentire. – asserì Irene, convinta di aver trovato uno dei segreti della vita. – Adesso vado. Fai quello che devi fare. – continuò, guardandomi da donna a donna.
- Che devo fare? – le chiesi, mentre usciva.
- Non chiederlo a me, sono troppo giovane per queste cose.– mi rispose, sorridendo.
Che dovevo fare? Non ero io che dovevo prendere l’iniziativa. Era Sirio, che doveva tornare da me, se era vero che mi amava a tal punto da decidere di picchiare il duca, per stabilire una volta per tutte a chi appartenessi. Aveva sfogato la sua collera e aveva confermato i confini del suo territorio, guadagnandosi il diritto di riprendersi quello che riteneva suo. Lo aspettai.
Ma Edmondo lo precedette. Il suo volto era irriconoscibile. Sembrava scampato a un brutto incidente stradale. Lo guardai scioccata.
- Questo non è niente. Dovevi vedermi una settimana fa. 
- Che ti è successo? – gli chiesi, per non tradire la confidenza di Irene.
- Mi sono scontrato con una gragnola di pugni. 
- Hai fatto a botte? Tu? 
- No. Io mi sono difeso. Era Sirio che voleva fare un po’ di boxe con la mia faccia.
- Capisco. E ti sei difeso bene?
- Abbastanza. Credo che fossimo allo stesso livello.
- E adesso? 
Edmondo sospirò.
- Adesso sono rimasto solo. Liliana se n’è andata. Tu ti riconcilierai con il tuo pugile e io baderò solo ad Irene. Sono venuto a fare scorta di libri. Per qualche giorno sarà meglio che eviti di farmi vedere in giro, non sono un bello spettacolo.
Una volta che Edmondo mi aveva descritto la rissa, non potevo più nascondermi dietro l’ignoranza. Telefonai a Sirio per comunicargli che mi avevano raccontato del suo incontro di boxe. Gli chiesi come stava e se avesse bisogno di qualcosa. Lui mi rispose molto freddamente. Non me l’aspettavo. La mia delusione mi spinse a chiudere la telefonata con una certa fretta.
Non capivo, ma non volevo impazzire. Ero stanca di riempirmi la testa di domande senza risposta e mi rifiutavo, soprattutto, di ricominciare a giocare a nascondino.
Decisi di andare a casa di Sirio, quella sera stessa, per chiarire definitivamente le cose tra noi. Quando bussai alla porta, lui mi aprì uno spiraglio, mantenendosi nell’ombra, sicuramente per impedirmi di vederlo in faccia.
- Che vuoi? – mi domandò con distacco, senza nemmeno salutarmi.
- Voglio entrare.
- No, stasera ho da fare. Ti chiamo io. 
- No, non hai niente da fare e mi fai entrare adesso.
- Scordatelo. – affermò, sbattendomi la porta in faccia.
Fu allora, che decisi di chiudere anch’io tutte le porte. Irrevocabilmente.

        Tre mesi dopo vivevo in un’altra città, avevo un nuovo lavoro e una nuova vita da costruirmi.
Mi ero licenziata, consegnando le mie dimissioni al ragioniere, approfittando dell’assenza di Sirio e poi avevo fatto le valigie, senza salutare nessuno, e avevo chiesto asilo politico ai miei. Ero sparita senza lasciare indirizzo, spegnendo per sempre il cellulare. Mi ero riavvicinata alla mia famiglia, non solo fisicamente. Avevo ritrovato affetti che mi erano necessari per sentirmi di nuovo tutta intera. Mi aveva stupito l’entusiasmo dei miei nipotini, che potevano finalmente conoscere e frequentare quella zia che era sempre stata troppo lontana. Avevo conosciuto la nuova fidanzata di mio fratello, che cambiava ragazza con la stessa frequenza con cui cambia la moda.
Non era stato facile trovare un lavoro, ma ero stata fortunata. Avevo cambiato, in men che non si dica, numero di cellulare, taglio di capelli e attitudine mentale. Infine, avevo cercato e ritrovato la mia indipendenza.
L’appartamento che avevo affittato era spazioso, con ampie finestre da cui entrava il sole a fiotti. Sullo stesso pianerottolo abitava un chiropratico spagnolo, che mi aggiustò la schiena dopo il trasloco, convincendomi di essere dotato di mani benedette.
E poi c’era il mare. La sua sola vista mi riempiva il cuore di pace. Il sole mi scaldava l’anima, sin negli angoli più nascosti e freddi. Avevo trovato il mio piccolo eden, un luogo a cui speravo presto di assomigliare.
Potevo farcela, perché avevo calato una pesante saracinesca blindata su tutto il mio passato. Guardavo finalmente in un’unica direzione, il futuro. Mai la primavera mi aveva dato quella sensazione di essere un albero addormentato in cui la linfa torna a scorrere risvegliando le gemme, pronto ad esplodere in una miriade di nuove foglie, verdi e turgide.
Quella vita rinnovata che sentivo scorrermi dentro, mi inebriava, donandomi un’energia esaltante.
Rafael, il chiropratico, un pomeriggio di domenica, bussò alla mia porta e mi invitò a fare una passeggiata. Il sole splendeva, il mare era calmo, la gente passeggiava lentamente, tranquilla, sorridendo come noi, sul lungomare disseminato di palme ed oleandri fioriti.
Rafael, che aveva trentacinque anni, mi parlò, liberamente e allegramente, con la sua cadenza musicale, descrivendomi il suo paese, il suo lavoro, i progetti che aveva in mente. Anche lui era completamente proiettato verso il futuro. Del suo passato non mi accennò nemmeno. Mi accorsi che ero già cambiata, dal semplice fatto che attiravo persone come lui. Mi ero liberata di tutto il grigio e della nebbia che mi avevano abitato per anni. Tornavo a vedere a colori. Il mondo poteva essere un bellissimo posto in cui vivere e il futuro era nelle mie mani, divenute strumento del mio nuovo ottimismo.

 

        Qualche giorno dopo, bussarono alla porta. Credevo che fosse Rafael, ed andai ad aprire sorridendo.
Invece, inaspettatamente, mi trovai di fronte Sirio. Il mio sorriso si spense immediatamente. Non gli chiesi come avesse fatto a trovarmi, pensai soltanto che la sua apparizione rappresentasse un pericoloso passato che voleva di nuovo ghermirmi. Ma io ero arrivata troppo lontano, per fortuna, perché potesse raggiungermi e questa certezza mi diede una sensazione di tranquillizzante sicurezza.
- Perché te ne sei andata? – esordì, con espressione seria.
- Non sei stato tu a chiudermi la porta in faccia? – gli ricordai.
- Mi manchi troppo. Non posso vivere senza di te. – ammise.
- Mi dispiace, Sirio. E’ finita. – affermai, senza tanti giri di parole.
- Non può finire così. Io ti amo. Non riuscirò mai a dimenticarti. 
- Ci riuscirai. Ne sono certa.
- Ti prego. Non farmi questo. Mi sembra di vivere un incubo, di essere precipitato all’inferno. Ti prego, dimmi che mi ami ancora. Dammi almeno una speranza. 
- Non posso. Non ti amo più. Dimenticami. – dichiarai, con tono definitivo.
Non arrivai a rivelargli che non lo avevo mai amato, mi sarebbe sembrato crudele, ma era esattamente la conclusione a cui ero giunta e forse, quel po’ di telepatia che era esistita tra noi, glielo trasmise. La mia era stata un’ossessione, ma di certo non poteva essere l’amore di cui tutti parlavano. Io non lo conoscevo ancora e non sapevo se l’avrei mai conosciuto, ma, in quella nuova vita, non me ne preoccupavo più.
Lo sguardo che Sirio mi lanciò era insostenibilmente disperato, al punto che dovetti abbassare il mio, per un istante. Poi tornai a fissarlo. Nella mia espressione c’era un pressante invito ad andarsene. Sirio ammutolì, continuando a fissarmi negli occhi finchè non mi mostrò l’anima, che cercò e trovò la mia, le lasciò la sua impronta e parte dell’amore che nutriva per me, aspettò che le dicesse addio e la ritrasse strappando via una parte della mia, di cui forse non avevo bisogno, perché, in seguito, non ne sentii mai la mancanza.