Apparteneva a quella generazione nata in un mondo in cui non esisteva la plastica, non si scriveva con la Bic e non c’era ancora la mania dell’asfalto. Le televisioni erano una rarità, non si sapeva cosa fosse un impianto hi-fi e non avevano ancora inventato i personal computer. Avrebbe potuto aggiungere che la sua famiglia non possedeva un frigorifero, né un telefono e nemmeno un’automobile, e, per quanto si ricordasse, vivevano benissimo lo stesso.
Poi, il consumismo e la tecnologia li avevano travolti.
Era cresciuta mentre la città le cresceva intorno, inghiottendo ogni metro quadro di prato e interrando il ruscello dove andava a giocare con i girini.
Già nell’adolescenza doveva fare i conti con il traffico, i semafori, i carrelli sbilenchi dei supermercati, la tv e il telefono e d’estate nessuno la mandava più al bar, a comprare il ghiaccio con un secchio di alluminio che dondolava allegramente da una mano.
Era felice di aver vissuto almeno una parte della sua vita senza la schiavitù della tecnologia, del cellulare e delle carte di credito.
Poteva affermare in tutta tranquillità di aver assaporato la libertà. “Il Grande Fratello” era solo un romanzo di fantascienza, che si commentava con critiche feroci all’assurdità delle sue ipotesi di futuro. Beata ingenuità!
Aveva sempre adorato la fantascienza, ma era più portata a credere in quella che descriveva l’anno 2000, che le sembrava lontanissimo, come il tempo in cui avremmo posseduto automobili volanti parcheggiate nel box, cabine di teletrasporto a ogni angolo di strada, energia pulita e illimitata, tapis-roulant al posto dei marciapiedi e in cui avremmo ospitato in casa robot che fungevano da camerieri. Niente di tutto ciò si era avverato, tranne il grande fratello. Il 2000 era stata una vera delusione. Forse avrebbe dovuto attendere un’altra reincarnazione, per veder realizzare quel futuro che le sarebbe piaciuto tanto, diciamo verso il 3000. Simona non si arrendeva. Questa era un’altra prerogativa della sua generazione. Avevano visto di tutto, anche ciò che non avrebbero mai voluto, ma niente li avrebbe fatti desistere dal sognare un futuro migliore.

 

        Nel 2006 si dovevano fare ancora i conti con i disagi della neve. Bastavano due timidi e innocenti fiocchi candidi, per paralizzare una città. Quanti, come lei, rinchiusi in macchina, fermi per ore in coda, pensavano la stessa cosa? La radio accesa nella vana speranza di un bollettino meteo incoraggiante… Niente, si prevedevano nevicate per almeno altre ventiquattr’ore. Doveva chiamare a casa? Quello era uno dei rarissimi casi in cui era soddisfatta di possedere un cellulare.
- Nando? Sono ancora in coda. Pensa tu alla cena, e anzi, mangia pure, perché non credo di riuscire a venirne fuori tanto presto.
- Tutte le volte! Ma cos’è? La quinta… la sesta volta, che nevica? Che inverno di merda!
- Se fossi in montagna ne saresti entusiasta…
- Ma sono in città, e domani dovrei anche andare al lavoro.
- Già. Speriamo che smetta.
- Va beh, a dopo. Stai attenta.

        Ascoltava la musica proveniente dalla radio, con la nuca abbandonata sul poggiatesta, e fumava una sigaretta dopo l’altra. Ogni tanto le auto in coda si spostavano per percorrere cinque o sei metri. Era un incubo. All’improvviso il cellulare iniziò a vibrare e ronzare sul sedile del passeggero, dove lo aveva abbandonato.
- Chi è? – chiese, senza guardare il display illuminato.
- Sono qualcuno che non senti da tempo.
- Mi fa piacere che tu abbia scelto proprio questo momento, per pensare a me. – commentò ironicamente, riconoscendolo.
- Voltati verso la tua sinistra.
Simona si voltò e lo vide, attraverso il finestrino dell’auto accanto alla sua.
- Quanto pensi che ci vorrà?
- Di questo passo? Un paio d’ore.
- Che ne dici se ci fermassimo da Ettore a mangiare una pizza? Magari, quando usciamo da lì,  sarà tutto finito.
- Non credo. Finirei per tornare a casa all’alba e Nando non ne sarebbe molto felice.
-   Ancora stai con lui? Ma davvero?
-   Perché non dovrei?
-   Potevi trovare di meglio.
-   Uno come te, per esempio?
-   Perché no?
- Perché no. – rispose Simona, chiudendo la comunicazione.
Dopo gli lanciò un sorriso da un finestrino all’altro, per farsi perdonare.
Matteo non cambiava mai. Nonostante lo conoscesse da dieci anni, aveva sempre gli stessi capelli castani lunghi fino al colletto, morbidamente arricciati sulle punte, con una spruzzata di ghiaccio alle tempie e sul ciuffo che gli cadeva sulla fronte. Lo stesso sguardo imbarazzante e asimmetrico di un occhio grigioverde e dell’altro castano, onestamente incastrato in quelle quattro rughe d’espressione di chi ride spesso e con tutta la faccia. Gli erano calate un po’ le guance? No, non sembrava. Era sempre uguale, con quella mania di rendere felici tutte le donne che incontrava. Peccato che le donne non lo stimassero per questo, quando scoprivano che tentava di renderne felici tre o quattro alla volta.
Una di quelle, una volta, era stata lei. E per quanto la cosa le fosse dispiaciuta e l’avesse lasciata di malumore per un mese, erano rimasti amici. 
In seguito, aveva rivisto Nando. Si conoscevano da ragazzi, ma poi le loro strade si erano allontanate e avevano dimenticato persino le loro facce. Quando si erano rivisti, non si erano riconosciuti. Simona aveva avuto solo la lieve impressione che assomigliasse vagamente a qualcuno, ma senza ricordare a chi. Fu Nando a riesumare il loro passato, illuminandola e stupendola. La storia con lui era nata con una naturale immediatezza, come seguendo il filo di una remota predestinazione.
Ricordava che, quando si erano conosciuti da ragazzini, non usava telefonarsi. Si fissavano appuntamenti aleatori e vaghi, come “ci vediamo al muretto” o “ci si vede in giro”. “Ci vediamo al  muretto” significava “ti aspetto lì, tra le quattro e le cinque”: era un appuntamento preciso. “Ci vediamo in giro” significava “se ci incontriamo, ci vediamo”: era un appuntamento vago. I ragazzi di allora erano un po’ così, si affidavano al caso, alla fortuna, al destino. Non era una pessima tecnica, come erroneamente si potrebbe pensare, perché la loro vita si muoveva più liberamente, e alla fine incontravano sempre chi li interessava.
Simona aveva solo tre amiche, ma tantissimi amici. Aveva sempre fatto una fatica bestiale ad andare d’accordo con le altre ragazzine. A loro interessavano unicamente le bambole, parlavano solo di vestiti e avevano il terrore di sporcarsi. Simona si sedeva in terra a giocare, senza problemi, odiava le bambole e amava arrampicarsi sugli alberi. Se necessario, non si tirava indietro quando c’era da giocare a “guardie e ladri” o a “indiani e cow-boys”. Ci aveva impiegato anni a trovare quelle tre amiche, le uniche con cui andasse d’accordo. Un giorno, una di loro, Rossella, cadde dall’albero su cui si erano arrampicate e si ruppe una gamba. Simona scoprì allora che la madre le imputava totalmente la colpa di quell’incidente.
- Se non fosse per te, mia figlia non avrebbe mai pensato di arrampicarsi su un albero. Sei una selvaggia! Tua madre dovrebbe tenerti chiusa in casa, altro che mandarti in giro a rovinare ragazzine ben educate e di buona famiglia.
Che la sua non fosse una buona famiglia, era tutto da dimostrare, ma Simona ci rimase male. Tornando verso casa, aveva incontrato Nando e gli aveva raccontato tutto.
- Se tu sei una selvaggia, allora bisognerebbe farne nascere di più. – le aveva detto per consolarla.
- Io non sono una selvaggia, e sono ben educata quanto lei.
- Sai fare l’inchino?
- Quale inchino?
- Quello che fanno le ragazze.
- Io non faccio nessun inchino. Non mi inchino nemmeno davanti al re, anche perché noi non abbiamo un re, siamo in democrazia. Vuol dire che io sono uguale a tutti gli altri e quindi non devo inchinarmi davanti a nessuno. 
- Brava, selvaggia. – le disse, battendo le mani.
Nacque così il suo soprannome, il giorno in cui Rossella si ruppe una gamba.
Nando le stava continuamente intorno e se non c’era lei, non iniziava a giocare. Così Simona comprese che erano diventati amici. Entrando nell’adolescenza le cose avevano preso un’altra piega. Nando aveva iniziato a girare per il quartiere con una banda di altri coetanei, che snobbavano le ragazze, anche se questo non impediva loro di molestarle in ogni modo. A differenza dei maschi, le femmine non giravano in gruppi numerosi, ma si limitavano ad andare a spasso in due, tre, quattro al massimo. I loro rapporti erano molto più profondi, si confidavano tutto, e questa intimità prevedeva poche orecchie in ascolto, possibilmente fidate. Le amiche di Simona rimasero sempre le stesse. Adriana e Lory erano due teste matte, sempre allegre, piene di idee folli, incoscienti, libere da timidezze o indecisioni. L’incidente dell’albero invece aveva reso Rossella più timida e insicura e le aveva tolto per sempre la voglia di rischiare.

 

        Simona ingranò la marcia per percorrere i soliti cinque o sei metri sotto la nevicata infame di quella sera. La radio le mandò il segnale orario. Erano già le 19,00. Era in coda da più di mezz’ora. Matteo era rimasto indietro, perché la sua coda si spostava più lentamente. Lo osservò dallo specchietto retrovisore. Aveva la luce accesa nell’abitacolo, segno che anche lui stava fumando. Accendeva sempre la luce, quando fumava, perché voleva essere sicuro di scuotere la cenere nel posto giusto.

        Quando, raramente, incontrava Nando da solo, lui era quello che le attaccava un bottone infinito. Era capace di tenerla in piedi davanti a una vetrina o sotto un portone, per un’ora intera. Da quelle conversazioni riemergeva stremata. Era come se lui volesse vuotare il sacco tutto in una volta, sommergendola con l’insieme di problemi, sogni e pensieri che aveva accumulato nel tempo, per riversarglieli addosso e liberarsene una volta per tutte. La velocità con cui parlava era impressionante, si mangiava le parole, le affastellava una sull’altra e le abbreviava pur di cacciarle tra un respiro e l’altro. Simona era la sua unica amica, fino a quel momento. Ogni tanto, gli scappava qualche blando complimento, col quale tentava di dimostrarle la sua alta considerazione. Simona non si sentiva molto lusingata, perché i suoi sforzi sembravano cadere dall’alto, come se lui si ritenesse tanto al di sopra di lei da dover compiere uno sforzo estremo, per concedergliela.
Intorno ai sedici anni, Nando era sparito dalla sua vita, lasciando soltanto un evanescente, indistinto e vago rimpianto.

 

Il cellulare suonò ancora.
- Dimmi, Matteo. – rispose Simona, con un lieve sospiro di rassegnazione.
- Perché la tua coda cammina e la mia no?
Simona tentò di guardare più avanti.
- C’è un furgone che si è bloccato di traverso al semaforo, mentre girava a sinistra. – lo informò.
- Grazie. Per la pizza ci hai ripensato?
- No. – rispose, chiudendo la comunicazione.
Aveva iniziato a nevicare nelle prime ore della mattina e Simona non si aspettava che la situazione avesse già raggiunto quel livello di gravità. Ne era caduta già tanta, e gli spazzaneve non si degnavano di passare. Come poteva accadere una cosa del genere? Aveva ascoltato alla radio, il giorno prima, che la Protezione Civile aveva allertato i Comuni. Ma da dove dovevano arrivare gli spazzaneve? Dalla Svizzera? E poi, che fine avevano fatto quei baldi giovanotti che, armati di badile, ripulivano i marciapiedi e i passaggi pedonali? Il mondo stava andando a ramengo. Era possibile che l’Italia si fosse trasformata in quel paese incivile e disorganizzato? Come era potuto accadere? Simona non se ne dava pace. Erano regrediti agli anni cinquanta?
Sua madre le aveva raccontato tante volte della grande nevicata del ’56, quando Roma era diventata una cartolina dai monti, una cartolina di gran lusso, con la cupola di San Pietro candida e soffice come una meringa, gli alberi piegati sotto il niveo peso e le strade ridotte ben presto a un pantano immondo, su cui lei, carica di pacchetti e incinta di otto mesi, si era tuffata, scivolando. Poi era nata lei. Quando commetteva uno dei suoi fatidici errori e qualcuno, per spiegare se la sua incapacità di ragionare razionalmente fosse dovuta a un evento traumatico, le chiedeva se era caduta dal seggiolone da piccola, Simona rispondeva “Non sono caduta da piccola, sono caduta prima di nascere”, tanto per avvalorare la convinzione che qualcosa nel suo cervello si rifiutasse di funzionare come avrebbe dovuto.
D’altra parte, se non fosse stata un tantino pazzoide, come avrebbe potuto accompagnarsi a Lory e Adriana, che erano due soggetti perfetti per lo psichiatra? Ai loro tempi l’analisi non era ancora di moda, quindi nessuno le aveva consigliate di rivolgersi a un bravo specialista, purtroppo. Chissà, questo avrebbe potuto salvarle?  

        Un lampeggiare di abbaglianti la costrinse a guardare dallo specchietto retrovisore. Matteo era riuscito a inserirsi in coda dietro di lei. Si era persa la manovra, peccato. Chissà come ci era riuscito? Lui aveva un modo di guidare assolutamente spettacolare. Era pazzo. Però, doveva ammettere, davvero esperto. Aveva preso la patente a diciotto anni, trent’anni prima. Simona si era decisa soltanto da cinque anni, quando l’avevano mandata in trasferta in un paesino dell’interland milanese, praticamente irraggiungibile con i mezzi pubblici. Una volta presa l’abitudine alla guida, si era pentita di tutti quegli anni sprecati come pedone. Era convinta di odiare le automobili, invece era solo ignorante, nel senso che ignorava quanto fosse bello essere liberi di scorrazzare in lungo e in largo senza fare i conti con gli orari degli autobus e i percorsi a piedi. Più o meno nello stesso periodo, si era arresa al cellulare, al personal computer e alla  posta elettronica. Di recente aveva anche abbandonato la sua amatissima Canon, ormai maggiorenne, per una fotocamera digitale. Avrebbe presto posseduto un frigorifero che ordinava le provviste autonomamente, non appena i cibi venivano spazzolati dai ripiani?
Nando ne sarebbe stato contento: lui odiava fare la spesa. Ogni tanto tentava di convincerla a farla via internet, in modo che gliela consegnassero a domicilio, con il piccolo supplemento di cinque euro, per contributo spese di trasporto. Simona si era sempre rifiutata, ma pensava che, come per tante altre novità che aveva odiato prima di provarle, anche quella l’avrebbe potuta convincere, a lungo andare.

 

        La coda di spostò di venti metri, lentamente.

    Quando si erano ritrovati, uno dei motivi per cui non aveva riconosciuto Nando, era stato che il suo ricordo faceva parte dell’intero pacchetto, archiviato nella sua memoria con l’etichetta “Roma”. Quando si era trasferita a Milano per lavoro, appena ventiquattrenne, aveva dovuto ricominciare tutto da capo. Lasciati la famiglia, le amicizie, il quartiere e il suo dialetto natio, aveva dovuto faticare sette camicie e un numero imprecisato di maglioni, per inserirsi, in qualche modo, in quel nuovo mondo. Amiche come Rossella, Lory e Adriana, non ne aveva più trovate, ma aveva costruito qualche rapporto surrogato, superficiale e poco intenso, che le aveva tamponato la noia e la solitudine, abbastanza da non gettarla nella depressione. Non che fosse portata alla depressione, né alla noia, o che si fosse mai sentita sola, ma ci aveva tenuto a evitare che tutto questo potesse verificarsi. 
“Segnale orario: sono le 20,00.”
Menomale, era a metà strada. Forse avrebbe fatto in tempo a vedersi quel film che le piaceva. Guardò il cellulare. “Lo richiamo” decise.
- Nando, sono a metà strada.
- Allora ti aspetto, così mangiamo insieme.
- Cosa hai cucinato?
- Filetto al pepe verde. Ti va bene?
-E me lo domandi? Dove hai preso il filetto? In freezer c’è rimasto solo il ghiaccio!
- Sono andato in piazza, da Antonio. Ho rischiato di rompermi l’osso del collo, ma ce l’ho fatta.
- Non hanno pulito le strade neanche lì?
- Figurati! Sembra di stare in Alaska. Ci mancano solo gli orsi polari e i pinguini. Stai attenta, Selvaggia, mi raccomando.
- Non preoccuparti, sto andando a due all’ora. Qui non si muove niente. A ogni verde di semaforo passano due macchine.
- Ho deciso. Domani vado a piedi.
- Anch’io. A dopo.

 

        Filetto al pepe verde! Anche per questo lo amava. Nando cucinava da dio, con una fantasia sbrigliata e priva di preconcetti, che gli permetteva di comporre accostamenti assolutamente originali e spiazzanti, ma decisamente piacevoli al palato. Gli era venuta anche la mania di abbinare il vino giusto a ogni pietanza, così, per approfondire l’argomento, si era iscritto a un corso di sommelier. Trascorreva il tempo libero leggendo libri sui vini e le zone di produzione, come se dovesse affrontare una tesi di laurea. Poneva il massimo impegno in ogni impresa che lo appassionasse, su questo non c’erano dubbi. Aveva affrontato con uguale rigore anche i corsi di ballo liscio e, in seguito, quelli di latino-americano. Andare a ballare era il loro sfogo e il loro divertimento. Ci si vedeva con gli amici ogni venerdì sera. Erano una ventina, tutti raccolti durante gli anni di studio alla Scuola Beltrami. Ormai, avevano completato l’intero piano dei corsi, tranne quello di flamenco, che avevano inserito solo di recente e a cui Simona aveva decisamente rifiutato di iscriversi.
- A che ci serve? Hai mai sentito un flamenco in sala?
- No, ma potrebbe essere divertente. – aveva obiettato Nando, con quello sguardo oblungo che gli veniva quando la prendeva in giro.
- Hai ragione, iscriviamoci. – lo aveva sfidato lei.
- Allora facciamo un viaggetto in Spagna per procurarci l’occorrente.
- Cioè le nacchere e una mantiglia?
- No, un abito a balze verde, con i pois bianchi e uno scialle di pizzo.
- E a te starebbe bene un costume da torero, così a carnevale saremmo a posto.
Eppure, per un attimo, si era immaginata avvolta in un abito a balze rigorosamente nero, con una profonda scollatura a v, i capelli rossi legati strettamente in uno chignon severo, le braccia sollevate sulla testa, in un armonico ed elegante gesto, mentre Nando, inguainato in un attillato abito da matador, la barba rossiccia e i capelli neri, le girava intorno pestando i piedi. Era scoppiata a ridere. Non aveva mai visto un torero con la barba rossa e i capelli neri. Avrebbe dovuto rinunciare all’una o agli altri. Rasato a palla di biliardo o col volto impudicamente nudo? Non se lo sapeva immaginare in nessuna delle due versioni. 
- Selvaggia, cosa c’è da ridere? – si era informato.
Simona gliel’aveva spiegato e Nando si era accarezzato la barba e i capelli, come per accertarsi che fossero ancora al loro posto e che lì restassero, benché non fossero dello stesso colore.

        I semafori erano saltati. Non erano ancora intervenuti i vigili urbani, quindi avevano ancora una possibilità di salvarsi. Simona aveva notato che la loro presenza trasformava il traffico impazzito in un caos delirante e preferiva che stessero alla larga dal suo tragitto.
Giungendo all’incrocio maledetto, dovette ammettere che, forse, un minimo di regolamentazione avrebbe potuto renderle la vita meno difficile. Iniziarono gli strombazzamenti dei soliti idioti. Questo le ricordava ogni volta quella battuta. “Che cos’è un nanosecondo? Il tempo che intercorre tra l’apparizione del verde e il suono del clacson dell’auto che ti segue”.
Matteo fece lampeggiare gli abbaglianti per salutarla, prima di immettersi nella perpendicolare che lo avrebbe condotto a casa. Lei accese la luce nell’abitacolo e gli fece ciao con la mano. Poi, spense di nuovo. Le piaceva guidare a luce spenta, anche se significava spargere la cenere della sigaretta ovunque. Ogni tanto dava una passata di aspirapolvere e tutto spariva, anche le pallottole di stagnola che avevano avvolto i cioccolatini, i tetrapak vuoti dei succhi di frutta, le bustine di cellophane dei crackers, che contenevano le macerie sbriciolate dalla morsa della sua borsa.
Spesso, quando al mattino usciva di casa e faceva per sollevarla e agganciarla alla spalla, il peso di quella borsa la costringeva a chiedersi cosa diavolo ci avesse ficcato, di così pesante. Allora, anche se si trovava in pericoloso ritardo, si costringeva a svuotarla sul letto e a fare una veloce ricognizione, che finiva regolarmente con il meticoloso reinserimento di:
chiavi macchina
chiavi casa
chiavi ufficio
frontalino stereo macchina
cellulare
libretto circolazione
portamonete
portadocumenti
caramelle
crema mani
minitrousse trucco
gingillo portafortuna
penna nera
penna blu
micro bloc notes
accendino
sigarette
pacchetto crackers
succo di frutta
klinex
aspirine
astuccio CD
cartella documenti da leggere in casa
libro tascabile massimo cento pagine
specchietto
burro di cacao per i casi di emergenza
guanti
foulard
miniombrello
sportina di plastica
lima per le unghie
occhiali per lettura
occhiali da sole
ricevuta della lavanderia
Restavano sul letto gli scontrini della spesa. Sicuramente erano quelli che facevano pesare la borsa, perché, una volta riposizionata sulla spalla, le sembrava più leggera. O forse, una volta accertato che nulla di tutto ciò poteva essere lasciato indietro, la sua mente si rassegnava a sopportare quella decina di chili essenziali e assolutamente imprescindibili, ben pressati con incastri perfetti in una sacca rettangolare di pelle di cm 45 x 35, profondità 20.
Per quel borsone, come per i suoi predecessori, Nando l’aveva sempre presa in giro. Le ripeteva che era diventata schiava degli oggetti, perché quando l’aveva conosciuta, non l’aveva mai vista con la borsetta.
Certo, da ragazzina teneva le biglie in tasca e si puliva il naso nelle maniche. E da adolescente, anticonformista e testa matta come si sentiva, con l’idea fissa della libertà, non portava che la borsa di scuola, una “tolfa” sporca e ricoperta di simboli “peace and love” e le firme dei suoi amici. A quel tempo portava un paio di blue-jeans che sua madre doveva sottrarle di notte, quando gridavano “lavami”, perché il suo rifiuto netto di allontanarsene, la rendeva isterica. L’alternativa era una trascurabile quantità di pantaloni in velluto a coste, che non la soddisfaceva per nulla, trovando che non si accordassero armonicamente né con il suo eschimo, né con le polacchine che avevano assunto lo stesso colore della tolfa, rimanendovi impressa tutta la strada che la sua sventata giovinezza poteva sopportare.
Poi venne il periodo blu. Fu allora che Nando sparì, ma a Simona non passò mai per la testa che le due cose fossero in relazione.

 

        Dalla radio giunsero le note di 'L’amore conta' di Ligabue. Quella canzone la prendeva allo stomaco, procurandole un languore malinconico. Mentre il sole alle spalle pian piano va giù, e quel sole vorresti non essere tu. Ormai, da qualche tempo, era diventata più sensibile allo scorrere del tempo, al mutare delle stagioni, all’affollarsi dei ricordi nella mente, stranamente tanto più chiari e incisivi, quanto più lontani. Era più sensibile all’idea di rimanere sola, senza Nando al suo fianco. Ma per quale motivo avrebbe dovuto andarsene? Stavano così bene insieme. Eppure un tarlo la rosicchiava nel profondo, mai del tutto annientato dalle rassicuranti dichiarazioni del suo compagno.
Non era il colmo, che la paura di rimanere sola fosse venuta alla luce in concomitanza con la nascita della loro relazione? Prima, non le era mai accaduto. Per lunghi o brevi che fossero, i suoi rapporti con altri uomini erano stati affrontati con leggerezza, un senso fatalista del destino, una superficialità di sentimenti che non l’avevano mai coinvolta totalmente. Si lasciava sempre una spaziosa via di fuga, dovuta alla premonizione di doversene servire, prima o poi. Così era capitato anche con Matteo. Una ricaduta nella sua fase “selvaggia”, l’aveva portata a frequentare locali notturni con strani amici insonni e sbandati. Si erano conosciuti per caso, lanciandosi per sbaglio sullo stesso bicchiere di Jin fix che il barman aveva appoggiato sul bancone, e che non era destinato a nessuno dei due. Un cliente dietro le loro spalle si scusò e afferrò la bibita. Loro si guardarono. Fu allora che Simona rimase disorientata e ipnotizzata nello stesso tempo. Gli occhi diseguali di Matteo contribuirono decisamente ad attrarla come una calamita. O calamità? In seguito fu più propensa a ritenere più valida la seconda ipotesi.

        Cosa stava accadendo davanti a lei? Non ci poteva credere. Un furgone si era messo di traverso e non riusciva più ad avanzare. La coda era bloccata. Vide scendere il guidatore e tentare di spostare mucchi di neve con i piedi. Poco dopo uscì un uomo da un portone, con un badile in mano. Menomale, forse avevano qualche speranza di liberarsi. Forse sarebbe tornata a casa.
Aveva solo voglia di allontanarsi da tutto quel bianco.

 

        Bianca era stata la fodera della bara in cui Adriana giaceva, con i lunghi capelli biondo cenere, ben distesi sul petto immobile, ancora talmente lucidi da riflettere la luminosità di un cero acceso. I movimenti della fiamma si specchiavano nei suoi capelli, offrendo l’illusione che si muovessero. Per un attimo la mente di Simona era stata attraversata dalla folle idea che si potesse trattare di uno degli scherzi macabri di Adriana. Gliene aveva fatti tanti! Ma c’era sua madre, seduta lì vicino, che piangeva disperatamente. Non poteva essere. Questa volta, Adriana aveva fatto sul serio. Non la volevano neanche in chiesa, per i funerali. C’era voluto un permesso speciale. Simona era incazzata come una bestia, per quello e per mille altri motivi, non ultimo il non essersi accorta della disperazione senza speranza in cui la sua amica  era affondata. Era lei il suo salvagente. Perché, a differenza delle altre volte, non le aveva chiesto di lanciarle una cima? Non era giusto. No. Neanche per Lory, che come lei, accogliendo incredula la notizia, l’aveva presa come un affronto personale. Nessuna delle due aveva avuto la forza o il coraggio necessari a seguire il feretro fino al cimitero. Cosa ci poteva essere di più ingiusto e assurdo che morire a vent’anni? Uccidersi, a vent’anni, come aveva fatto lei. E perché? Qualunque ne fosse stato il motivo, non poteva essere così importante. Questa fu la conclusione a cui giunsero lei e Lory, dopo lunghe e penose discussioni, sopraffatte da un’angoscia che provavano per la prima volta, e che niente poteva alleviare.
La madre di Adriana le aveva regalato un cofanetto di ceramica dipinto dalla figlia, in suo ricordo. Era giallo, con una rete di stelle azzurre e una sirena mollemente adagiata su un fianco, che le assomigliava come un autoritratto. Simona lo custodiva gelosamente in un cassetto, avvolto in un panno di velluto rosa. Quando lo svolgeva, per un breve tuffo nel passato, Adriana le sorrideva dal coperchio, provocandole un brivido lungo la schiena.

        Uno spazzaneve. Lo vedeva benissimo, davanti alla piccola colonna di auto che la precedeva. Era quasi un miraggio, che si era immesso davanti a loro da una traversa laterale, con le sue luci rotanti arancioni a spazzare il buio come piccoli fari, che invitassero a seguirli.
I Nickelback martellavano di buon rock il buio dell’abitacolo allo stesso ritmo di quei lampi arancione che si riflettevano sulle facciate dei palazzi e sul chiarore diffuso e un po’ ovattato dei fiocchi che ancora svolazzavano morbidamente, infrangendosi contro le spazzole dei tergicristalli. Simona comprese che cominciava a divenire un’impresa parcheggiare la macchina in mezzo ai cumuli innalzati dagli spazzaneve. Avrebbe dovuto armarsi di badile? Dove poteva trovarne uno a quell’ora? Non voleva chiedere aiuto a Nando. Era sempre stata orgogliosa di saper fare tutto da sola. Chiedere aiuto non l’avrebbe sminuita, ma sarebbe stato un duro colpo a quel suo orgoglio innato, che non era mai riuscita a smorzare, se non in casi disperati, con dolorosa fatica. Era uno dei suoi eclatanti difetti, sapeva ammetterlo, ma non sapeva aggiustare il tiro. La perfezione non l’aveva mai attirata abbastanza da costringerla a lavorare sul proprio carattere. Era spigolosa e acuta, come la sua conformazione ossea. Per metà della vita, per esempio, si era vergognata delle sue ginocchia pizzute, finché per caso qualcuno, in spiaggia, non le aveva rivolto complimenti per le sue gambe. La sua reazione spontanea e immediata era stata piuttosto aggressiva, convinta che il vicino di sdraio la stesse prendendo in giro. La sua risposta l’aveva del tutto spiazzata.
- Non ti bastano i complimenti? Vuoi che ti dica che non ho mai  visto gambe belle come le tue? Quanto sei vanitosa!
Simona era caduta dalle nuvole e si era costretta a spiegare che aveva sempre odiato le sue ginocchia.
- Strano, sono proprio quelle che donano uno slancio sexy alle tue gambe.
Da quel momento si ostinò a mostrarle, per provare a se stessa che quel tale in spiaggia aveva torto marcio, ottenendo esattamente il risultato opposto, con l’unico rammarico di averlo constatato molto tardi, perché per coprire la vergogna di quella rotula eccessiva, aveva sempre portato i pantaloni.
Le sue amiche vestivano come lei. Niente gonne, quasi fosse un affronto al genere di femminilità un po’ mascolina di cui si sentivano pervase. Lory era minuta e fragile, quasi eterea. Se avesse portato sulla schiena un paio d’ali, la si sarebbe potuta scambiare per una fata. Un angelo no. La inorridivano il buonismo e il perbenismo. Odiava la gente bigotta e ipocrita che predicava bene e razzolava male. Era troppo intelligente. Questa sua intelligenza illuminata, che scoperchiava le pentole dell’ipocrisia e della falsità imperante, fu la causa principale, Simona ne era convinta, della sua firma su un biglietto d’addio che le fu recapitato per posta, in coincidenza con il suo ventisettesimo compleanno. Quando si precipitò al telefono per chiamarla, la voce scompostamente commossa di suo padre le rivelò che era troppo tardi.
Due su tre le sembrò odiosamente eccessivo. In questo caso, al dolore incomprensibile si unì una rabbia senza possibilità di sfogo, che la segnò irrimediabilmente per anni. Le restava solo Rossella, che, rimasta orfana delle sue amiche, a Roma, affogava nell’angoscia come lei, a Milano. Non avevano nemmeno la consolazione di stare insieme. La rabbia di Rossella, senza remissione come la sua, la condusse però su una strada completamente diversa e inaspettata. Un giorno le telefonò annunciandole che si faceva suora. Rossella avrebbe smesso d’indossare i pantaloni. Solo questo fu l’inverosimile, improponibile e imbarazzante pensiero, che la notizia di questa svolta nella vita della sua amica, aveva fatto scaturire dal suo cervello sbandato. Della fervida esaltazione spirituale che l’aveva condotta a quella determinazione, Simona comprese ben poco, non possedendo gli strumenti necessari per immedesimarsi nella sua amica, che poco alla volta e inesorabilmente, si era allontanata da lei.

 

        Simona accese l’ennesima sigaretta, col mozzicone della precedente. Aveva il finestrino per metà aperto, e si chiedeva dove i dj trovassero quella infinità di battute, sempre nuove, che la facevano ridere tanto. Non sapeva guidare senza la radio accesa. La accendeva prima ancora del motore. L'aiutava a rimanere concentrata sulla guida, impedendole di vagabondare col pensiero e di infilarsi in quel labirinto di penosi ricordi che la sua mente, lasciata vagare senza controllo, le riproponeva come un film, incantato sempre sulle stesse scene, proprio come quella sera. Canticchiare in macchina le infondeva una sferzata di energia al mattino, mentre andava al lavoro, e la rilassava, quando tornava a casa. La musica era il suo primo amore. Il secondo, le sigarette. A lungo andare, il secondo aveva sostituito il primo. Come un “chiodo scaccia chiodo”, la sua voce vellutata e sonora, con cui aveva incantato la piccola band, che l’aveva accolta da adolescente, era stata sostituita da quella attuale, roca e profonda, che non riusciva più a raggiungere quelle alte note che l’avevano resa indispensabile nei controcanti delle canzoni di Battisti. A questo punto delle sue elucubrazioni Simona si ripeteva sempre “chi se ne frega”. Nando non fumava, ma non le rompeva le scatole, con sua immensa gratitudine, nonostante le tende impregnate di nicotina, nonostante i portaceneri sempre sporchi e puzzolenti, e il soffitto sulla zona computer color beige intenso, da tinteggiare ogni primavera.

        Un messaggio di Matteo la avvisò che lui era tornato a casa, sano e salvo. Chi gliel'aveva chiesto? Pensava che lei si preoccupasse? In realtà, aveva smesso da un pezzo. Dopo la scoperta delle altre due donne che condividevano con lei la sorte di transitorie compagne di letto, Simona lo aveva mandato a quel paese con garbata cordialità. Matteo ci teneva tanto a lei, che aveva preteso di rimanerle amico, perché “tu sei speciale” ripeteva, assillandola al cellulare, a ogni ora del giorno e della notte, senza minimamente preoccuparsi di essere invadente.
Aveva dovuto ammettere che la simpatia di quell’uomo valeva la pena di superare l’ostacolo del suo amor proprio ferito e di cedere, seppur a malincuore, davanti alle sue esuberanti insistenze. La formula di quell’amicizia si stabilizzò ben presto in un’equazione dal risultato positivo. Giacché era insita nel suo corredo genetico l’incapacità di instaurare una singola relazione per volta, Simona fu ben felice di essere promossa a un’altra categoria. Come amica, poteva accettarlo, benché davanti al suo sguardo bislacco le ritornasse sempre l’impressione di una scossa elettrica che l’attraversasse dagli occhi al cuore, per una frazione di secondo. Ma di sicuro non si trattava di amore. Anche lui ne era ben consapevole, quindi non era mai riuscita a spiegarsi il motivo per cui aveva tentato con tutte le sue forze di separarla da Nando. Che il gioco non gli fosse riuscito, si doveva esclusivamente alla grande sincerità con cui, sin dall’inizio, Nando e Simona avevano riannodato i fili della loro antica amicizia. Le frottole di Matteo erano scivolate sulla corazza di quell’amicizia senza neppure scalfirla, rendendola semmai più conscia della propria solidità e avviandola con coraggioso ottimismo verso un rapporto ancora più profondo e intimo. Doveva, anzi, ammettere che forse i suoi enigmatici tentativi erano stati un fattore di accelerazione verso l’obiettivo che Nando si era prefissato, ritrovandola. Temendo che Matteo fosse un pericoloso antagonista, Nando aveva ingranato la quarta e si era buttato a capofitto nel tenace piano di conquista, ignaro che l’oggetto delle sue brame sarebbe stato pienamente accondiscendente a capitolare. L’unico rammarico di Nando fu riassunto in un’unica frase che aveva pronunciato, soffiandole le parole tra il lobo dell’orecchio e il collo:
- Selvaggia, quanto tempo abbiamo sprecato! Io ti amo dal primo istante che ti ho vista, arrampicata su un albero, nella stradina dove andavamo a giocare.
Simona sapeva che seppure glielo avesse confessato allora, non sarebbe servito a nulla, perché l’amore per Nando era nato in lei dall’esperienza di tutti quegli anni senza di lui, dal confronto di tutti quegli uomini che non erano come lui, dal terreno del suo cuore, che era stato fertilizzato dalle foglie secche, cadute dagli alberi di tutte quelle storie morte che si trovava ormai alle spalle, un percorso tortuoso e tormentato di cui poteva ormai essere inaspettatamente grata.

 

        Dalla radio i Mattafix le cantilenavano “Big city life”, mentre svoltava l’angolo per immettersi nella piazzetta sotto casa. Vide un’auto allontanarsi da un parcheggio lasciando due profondi solchi nella neve. Una fortuna insperata. Seguendo gli stessi solchi, riuscì a incastrare la macchina nel posto appena lasciato vuoto. Sarebbe sprofondata nella neve fino agli stinchi, ma poco importava. Finalmente era riuscita a tornare a casa. Sospirò. Spense la radio, i fari, i tergicristalli e infine il motore. Sganciò la cintura, afferrò la borsa e scese. Raggiungere il portone di casa non fu un’impresa così difficile come aveva temuto, perché si limitò a posare i piedi sulle orme lasciate da qualcun altro prima di lei.
Entrando nell’appartamento, fu assalita dal delizioso profumo che giungeva dalla cucina e, subito dopo, dal caloroso abbraccio di Nando.
- Brava. Ce l’hai fatta ancora una volta.
- E’ stata solo fortuna. Ho incontrato persino uno spazzaneve.
- Davvero? Sicura che non fosse un miraggio?
- Sicurissima. Si mangia?
- Da questa parte, madame. – la invitò Nando, con un leggero inchino e un largo gesto della mano, che spazzò via in un colpo solo i penosi ricordi che le avevano fatto compagnia per tutta la strada del ritorno.