Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?

Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto piú freddo?

Non seguita a venire notte, sempre piú notte?


                                 Friedrich Nietzsche

 

 

        Ho deciso di scrivere questi appunti perché inizio a dimenticare le cose. Dimentico i nomi delle persone, i loro volti, dimentico luoghi e date che pure, una volta, erano per me importanti. Ma mi tornano in mente cose che avevo ritenuto di aver dimenticato per sempre. Storie di bambina, storie di adolescente.
Mi ricordo dei tempi in cui la plastica non esisteva e quest’isola era il paradiso terrestre. Ricordo di quando in casa non c’erano il telefono, né il frigorifero, la lavatrice o la televisione. Non che mi rallegri molto dell’esistenza del telefono, di cui odio ogni squillo, né della televisione, che non accendo mai.
Invece mi si accendono ricordi che sono come fotografie. L’esplosione di un campo di papaveri in mezzo a un mondo di lavanda, con un cavallo immobile come un statua. L’immensa fonte circondata dal lavatoio, con l’acqua gelida della Fosse Dionne, e una cascata di gerani rossi che vi si riflettono. L’oceano di girasoli in Andalusia. Il bosco incantato che circonda Sintra. Il tramonto che colora di sbieco le antiche mura di Rodi. La vallata magica tra Mostar e Dubrovnik, con i daini che vanno ad abbeverarsi nel lago.  Lo gnomo nel bosco delle piramidi di Segonzano.
Questa però non è una fotografia, è un piccolo film, con le caprette che salgono a raggiungerci sul sentiero, spinte da uno gnomo che si appoggia a un bastone, i miei amici che fuggono a nascondersi dietro agli alberi, chissà perché, mentre io aspetto di rivedere lo gnomo dietro alle caprette, che però non arriva. Arriva invece l’ultima capretta, che mi si affianca e percorre un tratto con me. Ha tre corna, che io le accarezzo, mentre lei mi si strofina sul fianco, trasmettendomi una sensazione di calore e di struggente nostalgia. Poi va a raggiungere le sue compagne e dello gnomo non c’è più traccia. Franca lo ha visto con me, ma alla sera, quando ne riparliamo, non se ne ricorda. Eppure avevamo discusso per decidere se fosse un nano o un bambino, mentre io insistevo: “No, è uno gnomo”. E gli altri, smarriti, non sanno spiegare perché si siano allontanati dal sentiero. Strano. Molto strano. Come se solo a me fosse stato permesso di entrare in un piccolo universo parallelo, in un tempo fuori dal tempo, mentre loro se ne restavano ai margini, sospesi in un sonno artificiale, come in trance.

 

Bussano alla porta.
Dalla finestra vedo la testa di Ugo che spia dentro, attraverso le persiane.
Lo faccio entrare.
- Che fai? Stai sempre sul computer. 
E’ quasi un rimprovero.
- Niente. Prendevo appunti.
- Per un romanzo?
- No, è un periodo che non scrivo più.
- Perché?
Già, perché? Perché tutto ciò che scrivo mi sembra stupido, o già scritto da qualcun altro assai meglio di come potrei farlo io, o perché non trovo una storia bella e convincente. A scelta.
- Non lo so. Ho perso la vena.
- Non ci credo. Hai sempre avuto tanta fantasia.
- E se invece non volessi usarla? Se volessi, per una volta, dedicarmi a una storia vera? Una storia accaduta veramente a qualcuno, che magari me la racconti e mi dica pure come finisce?
- Allora andiamo a trovare qualche vecchio di qui e facciamoci raccontare le loro storie. Quelli hanno visto la fame, la guerra. Di quei tempi di sicuro ti racconteranno tutto.
- No, vorrei una storia d’amore.
- Ma dai, l’amore c’è sempre, in tutte le storie.
- Non è vero.
E proprio lui dovrebbe saperlo.
- Andiamo a trovare Sarino. Lui di storie te ne racconta quante ne vuoi. Quello è capace di farti ridere e un momento dopo di farti piangere, senza che tu nemmeno te ne accorga. È un genio lui, a raccontare le storie. Anche cose che gli hanno raccontato i nonni, storie dei tempi che furono.
- E se non gli va di raccontarle a noi? Lo sai com’è fatto. Se sta scolpendo il tufo, nemmeno ti saluta.
- E proviamoci. Che ci costa?
Sospiro. Che ci costa?

        Sarino sta sdraiato su una poltrona, sotto i portici dove ha eletto il suo domicilio artistico, qui, di fronte alla chiesa sconsacrata, dove un gruppetto di angeli con le facce fanciullesche delle nonne di amici e parenti, sorvegliano un cielo blu trapuntato di stelle in foglia d’oro. Borinda l’ha appena restaurata, anche se non è sicura che tutto questo lavoro sarà mai ricompensato.
Sarino ci guarda.
- Buonasera, bei ragazzi.
Per lui siamo ragazzi, certo. Ci osserva dall’alto dei suoi ottantacinque anni, lucido, energico, persino affascinante.
Lo salutiamo in coro, come due ragazzini timidi e imbarazzati.
- Per te, mia cara, ho un bel coccodrillo appena finito. Ti piace?
- È bellissimo, ma non sono venuta per questo.
- E che cosa vuoi? Posso scolpirti quello che vuoi, ma niente busti-ritratti.
- Il busto gliel’ha già fatto Borinda. Veramente, solo la testa e il collo, però è venuta bene.
- Allora che volete?
Non so se riesco a dirglielo. Mi intimidisce. Mi sento all’improvviso come una bambina sciocca.
Ugo gli si avvicina per dirglielo in un orecchio, come se fosse un segreto.
- Una storia.
- Che storia? – chiede lui, sollevando il busto a mezzo, come se la richiesta lo avesse allarmato.
- Una storia d’amore. Quella che vuoi tu.
Sarino mi guarda, anche se a parlare è stato Ugo. Ha capito che la storia serve a me. Lui capisce tutto. Ha l’intuito affinato dell’artista.
- Una storia d’amore? – riflette – Sì, ce l’ho. Ce n’ho tante. Qualcuna è tragica e qualcuna no. Vuoi una storia tragica?
I suoi occhi grigio ferro mi fissano intensamente e sono come grosse capocchie di chiodi che si conficcano nei miei.
- Quella che vuoi, Sarino. Quella che ti va di raccontarci.
Sarino si appoggia bene allo schienale della poltrona e ci dice di sederci. Spostiamo due sgabelli dal muretto e ci sediamo davanti a lui. Il sole si sta abbassando, ne vediamo la luce di taglio sul muro della chiesa, che fa risaltare le sculture barocche. Sentiamo i gabbiani che si chiamano. Dietro l’angolo c’è il porto vecchio, dove a quest’ora tornano le barchette dei pescatori, mentre i gabbiani fanno festa.
- Vi racconto una storia che è successa al Castello Florio. L’avevano appena finito di costruire, su progetto dell’architetto Giuseppe Damiani Almeyda. Era il maggio del 1878 e i Florio ci vennero a stare per tutto il periodo della mattanza  e per tutta l’estate, come fecero sempre da allora in poi. Avete presente il Castello? E la costruzione di fronte, i Pretti? Beh, forse non lo sapete, ma i due edifici erano collegati da tunnel sotterranei, perché ai Pretti c’erano i servizi e ci vivevano i servi. Servi e padroni, a quell’epoca, non potevano vivere sotto lo stesso tetto. Ignazio Florio e la bella moglie, la baronessa Giovanna d’Ondes Trigona, con i figli, si trovavano bene qui. La gente li amava, li rispettava, perché davano lavoro, davano pane. E qui la gente aveva bisogno solo di questo. Non era come adesso, che il pane si butta e la gente ha mille necessità tutte superflue. È solo il pane che conta, alla fine. E per quello c’erano i Florio.
Per tutta l’estate, c’era stato un via vai di nobili e gentildonne ospiti della famiglia. Intanto i servitori avevano avuto tutto il tempo di conoscersi tra loro. Fra questi c’erano Rosetta e Giuliano, che si guardavano e si guardavano. E poi, a furia di mangiarsi con gli occhi, gli si era consumato anche il cuore. Alla fine si erano arresi all’evidenza. Una sera che si erano incrociati nel sotterraneo, si erano fermati, l’uno di fronte all’altro, tirati dalla calamita che c’avevano dentro. E poi erano caduti uno dentro le braccia dell’altro, così, senza nemmeno parlarsi. Rosetta si era ripresa subito. Aveva paura che se qualcuno li avesse visti, lo scandalo l’avrebbe travolta. Era una picciotta per bene, anche se doveva fare la serva, per via del pane. Giuliano veniva da fuori e poi era un uomo, non temeva niente. Ma capì. Si tenne a distanza e le disse che l’amava. Rosetta, che già era arrossita prima, abbassò gli occhi e disse che pure lei provava un sentimento. Non osò andare oltre. Fu Giuliano a dire che per lui, da quel momento, loro due erano ziti, fidanzati, e che la voleva sposare presto, appena le cose si mettevano un po’ meglio e coi soldi che stava mettendo da parte si sistemava un paio di stanze nel baglio dove lavoravano i suoi. Poteva lavorare la terra, che già in mano ai fratelli stava dando frutto, e vivere del suo lavoro. Giuliano non voleva farle mancare nulla. Voleva farla felice. Rosetta accettò, con il cuore che le batteva forte e una felicità come non sapeva neppure che potesse esistere. Mentre tornava alla sua stanza, le sembrava di volare, di non toccare i piedi per terra, tanto era felice. Una volta, incontrandosi in un corridoio del Castello mentre facevano il loro servizio, Rosetta e Giuliano si baciarono. Quello fu l’unico bacio, e di quello si nutrirono fino a settembre. Era l’ultima settimana di permanenza dei Florio. Erano ospiti al Castello un gruppo di ufficiali amici di Ignazio, alcuni dei quali erano accompagnati dalle loro consorti. Tra questi, Rolando Buzzetta, che era uno scapolo, molto affascinante, si racconta. Rolando vide Rosetta mentre serviva in tavola e fu folgorato dalla sua bellezza. Per guardarla, non mangiava nulla, spostando il cibo nel piatto da una parte all’altra. Andò avanti così per alcuni giorni, finché non ne potè più. Allora le scrisse una lettera di fuoco, confessandole tutto il suo amore e il desiderio che lo stava consumando, e terminando con un appuntamento a cui sperava con ardore che lei si presentasse. Mentre Rosetta serviva il commensale di fianco a lui, Rolando le infilò la sua lettera nella tasca del grembiule. Nel farlo, usò tale destrezza che Rosetta non se ne accorse nemmeno.
Finito di servire, la giovane tornò in camera sua e si tolse il grembiule, appendendolo a un chiodo nel muro. Poi uscì nel cortile interno, per raccogliere i panni stesi ad asciugare, in modo che con l’umidità della notte non si bagnassero di nuovo. Giuliano, come aveva fatto già infinite volte, passò davanti alla porta  della sua camera. L’aveva sempre trovata sbarrata, ma poco prima, uscendo, Rosetta l’aveva lasciata socchiusa e lo spiraglio di luce che arrivava dalla candela accesa, fino al corridoio, attirò Giuliano, che entrò, senza neanche bussare, come se quella porta dischiusa fosse stata un invito. Aveva sperato di trovarci Rosetta, ma non c’era. Deluso, si guardò attorno. Quella era la stanza della sua amata, poteva sentire il suo profumo, un misto di sapone e di violetta, poteva vedere le sue cose, gli oggetti che lei toccava quotidianamente. Il suo letto era pronto per la notte. Vi si sedette, immaginando Rosetta distesa sul quel lenzuolo bianco, la pelle vellutata, i capelli d’oro fino, che le scivolavano indietro, spargendosi sul cuscino, gli occhi chiusi, le ciglia che formavano un pettine d’ombra sulle guance. Giuliano sospirò, poi sollevò lo sguardo e vide il grembiule di Rosetta. Si avvicinò per toccarlo, per annusarlo. Sentì il duro della carta sotto le mani e tirò fuori la lettera, incuriosito. La lettera.
Per la prima volta Sarino si interrompe. Sembra che stia seguendo il filo dei ricordi. Poi la sua faccia assume un’espressione strana. Ma riprende a raccontare.
- Rosetta non sapeva leggere né scrivere, neppure il suo nome. L’unica volta che le avevano chiesto di firmare, aveva messo una croce. Quella lettera non poteva leggerla. Quando l’avesse trovata, nella tasca, non avrebbe saputo da chi farsela leggere. Probabilmente l’avrebbe data al prete, da cui andava a confessarsi ogni settimana, la domenica all’alba, prima della messa. E il prete si sarebbe tenuto tutto per sé, per non comprometterla, per risparmiarle la vergogna, per evitare lo scandalo. Invece Giuliano sapeva leggere. E, accostandosi alla candela per vedere meglio, se la lesse tutta, tremando. Tremando di rabbia, di odio, di gelosia. Cosa aveva fatto Rosetta per attirare quelle attenzioni? Con lui sempre a debita distanza, solo un bacio rubato per sbaglio, uno solo, e così veloce e fuggitivo che gli era sembrato un sogno. Cosa aveva fatto con quell’uomo Rosetta, se lui si permetteva di darle appuntamento nel giardino, nella parte più buia, quella che dava sui Pretti? Buttana! Traditrice e buttana. Ma quel pezzo di merda non l’avrebbe mai avuta la sua Rosetta. Non l’avrebbe mai avuta.
Mentre il portico si fa più buio, Sarino ci guarda, e assomiglia a una di quelle statue di ebano con gli occhi di avorio, che brillano di luce propria. Si passa una mano sul viso, poi continua.
- Giuliano uscì come un pazzo dalla stanza. E poco dopo ci tornò Rosetta, con i panni da ripiegare e mettere via. Li appoggiò sul letto e continuò il suo lavoro tranquillamente.
Ma poco dopo, la porta, che non aveva ancora chiuso col chiavistello, si spalancò ed entrò Giuliano, come un vento potente di maestrale, di quelli che travolgono tutto senza lasciarsi fermare da nessun ostacolo. Aveva una pistola in pugno e gli occhi fissi, da pazzo. La faccia stravolta di chi non sente e non vede più nulla al di là del rumore del proprio sangue che rimbomba nelle orecchie e della rossa foschia della propria disperazione. Muto, sollevò il braccio per prendere la mira, mentre Rosetta fuggiva qua e là per la stanza per non farsi prendere. I colpi si infilavano nel muro, nei mobili, nel materasso. Ogni sparo, per Rosetta, era come  un colpo di martello su un chiodo che serrava il coperchio della sua bara. Senza capire, urlava solo “Perché? Perché?” all’infinito. Nemmeno piangeva. Voleva solo sapere perché. Per quale disegno del maligno il suo amato si era trasformato in quel pazzo assassino che la voleva morta? Poi si gettò a terra e si infilò sotto al letto, coprendosi la faccia con un cuscino. Lì la raggiunse Giuliano con un colpo al cuore, preciso. Era l’ultimo, poi non ne aveva più. E mentre era ancora steso a terra con la pistola in mano, lo andarono a prendere. Dicono che la bella innocente ancora si veda, in certe notti buie, attraversare il giardino dei Pretti, per ritirare i panni stesi. E io ci credo. L’ho vista da bambino. Era tutta bianca, con i capelli sciolti che sembravano il velo di una suora. L’avete mai vista, voi?
- No. Io no. – risponde Ugo, con la voce di chi si è appena svegliato.
- Io ho visto la dama senza testa, dietro i vetri di una finestra del Castello. – rispondo io, ricordando quella sera di tanti anni fa.
- Ah, la dama, sì. L’ho vista anch’io. Dicevano che era un riflesso delle tende strappate. Ma non è vero. Non c’erano più le tende appese alle finestre, a quei tempi. Sono appena vent’anni che l’hanno ristrutturato. Anche lei hanno ammazzato ai Pretti.
- Vuoi raccontarci pure la sua storia? – chiede Ugo.
- No, ragazzi, stasera no. Adesso andiamo a mangiare. Domani, se tornate alla stessa ora, ve la racconto, come l’hanno raccontata a me.
- Va bene. Grazie, Sarino. Buonanotte.

 

           Ugo mi accompagna a casa. Le strade sono affollate di gente che passeggia in su e in giù per le Piazze e per il Corso. I tavoli dei ristoranti sono occupati per metà, dai turisti che vengono dal nord e vogliono cenare presto. Poi arrivano quelli del sud, che sono abituati ad altri orari, molto più comodi.
- Ti è piaciuta la storia di Sarino? Ci puoi scrivere qualcosa?
- Bella, sì. Sa raccontare bene. Ma non credo che sia il tipo di storia che cercavo.
- E noi ci torniamo e ce ne facciamo raccontare altre, finché non trovi quella giusta.
- O finché Sarino non si stufa.
- No, gli piace raccontare. Io me lo ricordo da sempre, circondato di bambini che lo ascoltano a bocca aperta. Forse è l’ultimo cantastorie che abbiamo avuto. Da quando è nata la televisione, quella razza si è estinta.
Ugo qui ci è venuto sin da bambino, come me, anche se nessuno dei due c’è nato. Ma le nostre origini sono qui, radici profonde che per entrambi significano molto, se non tutto. Ci conosciamo da sempre. Forse siamo persino lontani parenti, come tutti qui nell’isola.

        Non riesco più a scrivere. Una  volta tutto era spontaneo e naturale, realtà e finzione scorrevano l’una dentro l’altra come la mano in un guanto su misura. Non dovevo pensare, ci pensava il mio istinto. “Non siamo noi che diciamo le parole, sono le parole che dicono noi.”, sosteneva Gombrowicz. E per me era vero. Adesso invece tutto è fatica. Scrivere si è trasformato nella costruzione di un muro, mattone su mattone, che necessita di malta e di attenzione. Cosa è cambiato?

 

        Mi tornano in mente le zingare, quelle che volevano leggermi la mano e sono fuggite non appena l’hanno vista. E’ accaduto tre volte. La prima volta è stato a Roma, la seconda a Cordoba e la terza a Bathala. Nessuna di loro ha spiegato, ma il loro sguardo era poco meno che terrorizzato. Anzi, l’ultima volta no, era lo sguardo di chi non riesce a credere a ciò che ha visto e ne prova rispetto e timore. Mi ha fatto un dono, quest’ultima, un ciondolo di corallo, con l’espressione di chi cerca di placare un dio di giustizia, giunto a far pagare le colpe commesse. Poi mi ha pregato di benedirla o qualcosa di simile. Quando è sparita, ho lasciato cadere il gingillo, fingendo di perderlo. Sentivo che si trattava di un tentativo di legarmi, ma io so che devo, sopra ogni altra cosa, restare libera. Del resto, non era a me che l’aveva offerto, bensì a un’entità che io non sono. Devono avermi scambiata per qualcun'altra, forse una loro dea reincarnata. Ma io non sono l’Avatar di nessuna dea.
Eppure mi è accaduto altre volte, ora che ci penso, di ispirare manifestazioni di ammirazione e rispetto gratuiti. Perché? Non lo so spiegare. Quanti uomini mi hanno baciato la mano, anziché stringerla per un saluto, come avessero di fronte a loro una gran dama d’altri tempi. Tracce di ricordi di vite precedenti?

        Ugo sbircia in camera da letto. Sul comodino ci sono impilati una decina di libri, che ho iniziato tutti, senza finirne nessuno.
- Leggi sempre tanto, eh?
- Non sempre.
- Mi ricordo che in spiaggia avevi sempre un libro. A volte, eri tanto presa dalla lettura che non ti accorgevi di niente e i ragazzi ne approfittavano per farti i gavettoni. Come ti sei incazzata quella volta che ti hanno inzuppato anche il libro!
- Non era mio, per questo mi sono incazzata. Non ti ricordi che mi hai accompagnato tu in libreria per ricomprarlo?
- Sì. È stato quella volta che ti ho regalato le poesie di Éluard. Poi non mi hai mai detto se ti sono piaciute.
- Non me l’hai mai chiesto...
Non lo saprà neanche adesso, perché mi interrompe senza attendere che finisca di parlare, dimostrandomi che in realtà non gli interessa affatto.
- Se vogliamo arrivare da Sarino in tempo, dovremmo uscire subito.
- Hai ragione, andiamo.
Sarino è di parola. Ci aspetta seduto in poltrona e ci sorride allegramente, vedendoci arrivare.
- Bravi che siete, puntuali. Prendete gli sgabelli e sedetevi, che io la storia della cuciniera me la sono ripassata. Così vi racconto di come andò che la dama rimase senza testa.
- Va bene, ma poi ce ne racconti un’altra più allegra. – dice Ugo.
- Bisogna vedere se me ne ricordo qualcuna. Questo è un periodo che mi ricordo solo quelle tristi.
Sarino mi fa l’occhietto, come per dimostrarmi una complicità di cui ancora non mi sono resa conto.
- Bene. Nell’estate del 1900 era ospite della famiglia Florio Madame Eugenia de Monijo, ex imperatrice dei francesi. Dicono che fosse ancora una bella donna, nonostante i suoi settantaquattro anni, anche se un po’ curva e con il naso adunco. Per quella illustre presenza, il Castello si riempì di nobili. Tutti premevano per rivederla. Tra costoro era presente il principe Ottavio di Villadorata, inviato dal padre in rappresentanza della famiglia. Nonostante avesse superato ampiamente i trent’anni, ancora non si era sposato. Alcuni dicono perché le donne gli piacevano tutte e non sapeva decidersi, mentre altri sostenevano che tutte le donne cadevano ai suoi piedi e che per questo non aveva fretta. Era un uomo elegante, e benché piuttosto giovane, un poco all’antica. Bardato nella sua uniforme, portava abitualmente la spada al fianco, come se dovesse essere sempre pronto a un duello. Una mattina che se ne andava a spasso con un suo amico, passò davanti ai Pretti e sbirciando da una finestra aperta della cucina, lo colpì la visione di una donna che  sminuzzava le verdure. Si bloccò di colpo per osservarla, mentre l’amico, che già era andato oltre, tornò indietro. Anche lui la vide e fischiò lievemente tra i denti, in segno di apprezzamento. La donna udì il suono, sollevò di scatto la testa, li vide e corse a chiudere le persiane. Ma il principe Ottavio non era di quegli uomini che potevano sopportare che qualcuno gli sbattesse la porta in faccia, o la finestra, in questo caso, e si fece un dovere di tornare ogni momento a spiare la finestra della cucina in cui quella bella figliola lavorava.
- Come si chiamava? – lo interrompe Ugo.
- La chiameremo Maria, perché nessuno mi ha saputo dire il suo nome e perché era sempre vestita di bianco, come viene spesso raffigurata la Madonna. Dicevo? Ah, sì. Il principe passava spesso davanti a quella finestra e si fermava a guardare Maria. Lei era talmente impegnata in cucina che il più delle volte non se ne accorgeva nemmeno. Quando però accadeva, dava una voce a qualche sua compagna e quella si precipitava a chiudere le imposte. Una notte Ottavio si infilò di nascosto persino nel cortile dei Pretti per spiare quale fosse la stanza di Maria, ma non riuscì a vederla. A questo era arrivato. Poi si decise a fare un passo oltre. Mandò i suoi due fidati servi a prenderla e la fece condurre in una capanna là di fronte, una specie di casotto di legno dove un pescatore teneva le reti e i remi della barca. Maria si era opposta ai due scagnozzi con tutte le sue forze, ma non c’era stato verso. Quando la fecero entrare nella catapecchia e vide il principe, gli sputò in faccia e assunse un’aria minacciosa. “E dire che siete così bella.” le disse Ottavio, mentre col fazzoletto si asciugava il viso. “Che volete da me?” chiese Maria, sempre tenuta ferma dai due servi. “Venite via con me. Non ve ne pentirete. Vi tratterò come una regina.” Maria gli rispose secca: “No, grazie. Questa è casa mia. Sto bene qui.” Ottavio le si avvicinò e tentò di baciarla, ma quella si divincolò come una serpe, tanto che i servi facevano fatica a tenerla. “Lasciatela.” comandò Ottavio, sperando che Maria si tranquillizzasse. Invece lei scappò subito via e si rifugiò ai Pretti, veloce come il vento.  Questo smacco irritò il principe, più di quanto si fosse immaginato. Il pensiero di Maria era sempre presente nella sua mente. Più lei si rifiutava, anche solo di parlargli, più Ottavio si impuntava. Nessuna donna gli aveva mai resistito, né dame né serve. E proprio questa che gli smuoveva le viscere, non ne voleva sapere niente di lui. Non poteva essere. Non poteva sopportarlo. Così, ordinò ai servi, che pure loro dormivano ai Pretti, di individuare la stanza di Maria. E quelli, dopo vari appostamenti, la trovarono. Era l’ultima dal lato destro del cancello. Sarebbe stato facile entrarci, se qualcuno gli apriva la finestra. Uno dei servi doveva entrare nella stanza di Maria e sbloccare le persiane, lasciandole ben chiuse, come se fossero fermate col gancio. Quando tutto fu pronto, Ottavio penetrò nella sua stanza attraverso la finestra. Era notte fonda. Temendo che Maria, vedendolo, si mettesse ad urlare, il principe si era portato dietro un grande fazzoletto, che avrebbe usato come bavaglio. Maria stava dormendo. Quando Ottavio le mise una mano davanti alla bocca, lei si svegliò e tentò di gridare, ma lui ne approfittò per infilarle il tappo di stoffa in bocca. Maria si divincolava come un’anguilla e Ottavio non riusciva a tenerla. Eppure lui era forte. Se con una mano cercava di sollevarle la camicia per scoprire le gambe, lei ne approfittava per spostarsi dall’altro lato. Se cercava di toccarle il seno, lei già si sottraeva e cercava di buttarsi fuori dal letto. Per tenerla ferma dovette buttarsi su di lei con tutto il peso del suo corpo. Ma lei ugualmente si agitava. “Stai ferma, sennò ti ammazzo.” le disse, infine, e furono le sue uniche parole. Maria non poteva rispondere, ma allungò una mano verso il comodino, dove teneva la caraffa dell’acqua e gliela diede in testa. Forse fu quel colpo a farlo andare fuori dai gangheri definitivamente, fatto sta che il principe si alzò di botto, sguainò la spada e con un colpo secco la decapitò. La testa rotolò per tutta la stanza avvolgendosi completamente nei lunghi capelli di Maria. Ottavio la raggiunse, districò il bavaglio e se lo mise in tasca, dopo averci ripulito la lama. Rinfoderò la spada e lasciò la stanza dalla stessa finestra da cui era entrato. Quando fu sulla strada polverosa, si accostò agli scogli e gettò in mare il fazzoletto che era ormai più rosso che bianco. Infine tornò al Castello. Quando trovarono Maria, nessuno seppe spiegarsi chi poteva averla voluta morta. Nessuno, tranne due servi a cui il dubbio non bastò per parlare.
- Ma Sarino, se il principe l’ha ammazzata ai Pretti, perché la si vedeva al Castello? – chiede Ugo, non senza ragione.
- Perché il suo spirito vendicativo c’era andato a cercare Ottavio. Ma quello, il giorno dopo, si era congedato dall’illustre compagnia e se n’era tornato al suo feudo con i servi.
- Secondo te perché non la si vede più? – gli chiedo.
- Ah, questo si sa di sicuro. Vent’anni fa, quando hanno iniziato i restauri, i muratori devono averla disturbata, e infatti la dama senza testa è stata vista per le strade, in quelle notti. L’ultima volta anzi, è stata vista vicino ai Pretti, mentre correva verso il porto. Può darsi che si sia imbarcata su qualche nave e che abbia raggiunto la terraferma. Ma ormai era troppo tardi per la vendetta.
- Che storia triste, Sarino. Domani ce ne racconti una più allegra. – dice Ugo.
- Domani venite a sentire la storia del pilota di Garibaldi.
- Quello della via? – chiedo io.
- Sì, proprio lui, che quando qualcuno ha deciso di dedicargli una strada, nessuno si è ricordato come si chiamava.
- Però gliel’hanno dedicata lo stesso. – dice Ugo, ridendo.
- Questi isolani sono fatti così, tu dovresti saperlo. Una volta che si sono messi in testa un’idea, non gliela leva più nessuno. -  afferma Sarino, con lo sguardo perso lontano. Forse sta già rincorrendo la sua storia.
- A domani, allora. Buonanotte, Sarino.
- Buonanotte, ragazzi.
Ugo mi sorride, poi si guarda intorno e mi chiede:
- Ti va un aperitivo alla banchina?
- Andiamo. – rispondo.
Giriamo l’angolo e ci avviamo lentamente verso il mare.
Su ogni tavolino del bar c’è una candela accesa in un bicchiere, per ripararla dal vento. Ma il vento non c’è, stasera. E c’è solo un tavolino libero. E’ nostro. Ci sediamo in modo da guardare l’inchiostro blu dell’acqua davanti a noi. Il buio non si è ancora inghiottito tutto.  Si distinguono le macchie scure delle pinete e le case che ci pascolano in mezzo, con le finestre illuminate come piccoli occhi. Il Castello di Santa Caterina spicca in cima alla collina per gli ultimi riverberi di luce del tramonto che lo illumina alle spalle. E’ tutto un controluce nerastro e viola.
- Stai pensando alla storia di Maria? – mi chiede Ugo.
- No, non sto pensando a niente. Osservo il paesaggio.
- Eppure lo conosci a memoria.
- Pure te ti conosco a memoria, eppure ogni tanto ti guardo.
Ugo mi spara i suoi occhi azzurri in faccia e sorride. Ormai un fitto reticolo di rughe li marca ogni volta che lo fa, perché Ugo è uno che sorride con tutta la faccia. Non risparmia un muscolo.
- Forse ritardo la partenza. – mi annuncia.
- Come mai?
- Ho chiesto un’altra settimana di ferie e domani mi danno una risposta. Se non ci sono intoppi, resto.
- Bene. E’ per sentire le storie di Sarino?
- E anche perché mi fa piacere vederti per qualche altro giorno.
- Per me? Che razza di bugiardo! – lo accuso.
- E’ vero, Lia. Erano quanti, sei anni? sette? che non ti vedevo.  Sono contento che ci siamo rincontrati. Ne devo approfittare. Le altre volte eri sempre tanto impegnata. E’ la prima volta che possiamo stare un po’ insieme.
- Allora stai parlando sul serio.
- Sul serissimo. –  mi risponde senza sorridere, mentre appoggia una mano sulla mia.
Questa imprevista svolta mi urta. Vorrei tornare a scherzare. Vorrei riafferrare la leggerezza che ultimamente ha contraddistinto i nostri incontri.
Poi arriva a salvarmi il cameriere con gli aperitivi.
- Tu resti fino a novembre? – mi chiede.
- Non lo so. Quando mi stanco, me ne vado. Ma tanto, qui o là è lo stesso. Come dici tu, sto sempre sul computer. Sono una monaca di clausura che ogni tanto esce a prendere una boccata d’aria.
- Non hai molti amici, su.
- Ne ho pochi anche qui.
- Però non è lo stesso.
- No. Non è lo stesso. Sto meglio qui.
- Ci avrei scommesso. Anch’io sto meglio qui.

        Delle mie vite precedenti,  ne ricordo soltanto una. Mi ricordo anche come sono morta. Me lo ricordo benissimo. Vivevo su un’isola piuttosto grande. Una vita semplice, in uno dei villaggi di casette bianche, ad un piano. Ricordo una festa, in cui si disputava la battaglia dei pomodori. Ci si rincorreva per la strada, vestiti di bianco, bersagliando chiunque capitasse a tiro. Faceva una certa impressione, osservare tutta quella gente piena di macchie rosse. Lì si coltivavano già i pomodori, quelli che, molto tempo dopo, Colombo andò a riesumare nelle Americhe. Di notte vedevamo in cielo due lune. Una era grande e bianca, la stessa che vediamo adesso, l’altra era piccola e rosata. Ma quella è caduta. L’abbiamo vista bene, mentre ci precipitava addosso, diventando un dardo di fuoco. L’abbraccio rovente di Talo col mare che ci circondava creò onde altissime che distrussero ogni cosa al loro passaggio. Fummo inghiottiti dal mare, scossi dal terremoto. Io fui presa da un’onda gigantesca e trascinata via, inghiottita dal flusso. Morii annegata, insieme al mio mondo.
Non ricordo altre vite, ma alcuni periodi storici mi attirano ed affascinano più degli altri. Forse vorrà dire qualcosa.
Trovo interessante pure questo, anche se da un certo punto in poi, ho come l’impressione che si sia impantanato, come se la traiettoria del tempo si fosse spezzata e la strada da seguire fosse stata perduta. Il progetto era un altro, ma qualcosa è andato storto. Non è questo il mondo in cui dovrei essere ora. Lo sento come una certezza profonda, scolpita nella mia anima. Sono fuori luogo.

 

        Ugo mi interrompe come al solito, nel momento in cui sprofondo in me stessa. Mi tira fuori dal fondo con la sua semplice presenza.
- Ho fatto un giro fino al faraglione, stamattina. Nel nostro posto non c’era nessuno. La grotta dove abbiamo cucinato quella volta, è piena di spazzatura. E’ uno schifo.
- Sarà il mare, che porta a terra tutto il lerciume che la gente butta in acqua. Anche a quei tempi, eravamo noi a pulire, se ti ricordi. Quell’estate abbiamo raccolto otto sacchi di spazzatura.
- Già, e ce li siamo incollati fin sopra la scogliera. Chi ce lo faceva fare?
- Non potevamo sopportare che il nostro piccolo paradiso fosse sporco. 
- Ma senza di noi a curarlo, è tornato come prima.
- Ci saranno altri a fare quello che facevamo noi.
- Non credo. Adesso tutti frequentano soltanto le spiagge organizzate, quelle che pulisce il Comune.
- Ma siamo fuori stagione, Ugo. L’estate è finita.
- Per noi l’estate non finiva mai. Vorrei che tornasse tutto come una volta.
- E’ impossibile, lo sai.
- Niente è impossibile. Noi siamo qui, insieme, proprio come allora.
- Ma non siamo più gli stessi.

        Sarino si è appisolato sulla sua poltrona. Non sono certa che sia una buona idea svegliarlo, ma Ugo, prima che possa oppormi, gli sta già scuotendo una spalla.
- Ah, ragazzi, mi sono addormentato. Oggi mi sono stancato. Non ho più l’età per certe cose. – si lamenta.
- Se vuoi, torniamo un altro giorno. – gli dico.
- No, no. Va bene, mettetevi seduti.
Il cielo è grigio da stamane. La luce opaca mette sonnolenza. Forse per questo Sarino ha chiuso gli occhi.
- Allora, vi devo raccontare del pilota di Garibaldi. Voi la storia ve la ricordate? Lo sbarco dei Mille a Marsala, nel 1860… Quei famosi mille garibaldini pare fossero ammassati tutti su due vapori, il “Piemonte” e il “Lombardo”. E ci stavano un po’ stretti.  L’11 maggio passarono di qua. Garibaldi non aveva ancora deciso dove effettuare lo sbarco e cercava notizie per prendere la decisione definitiva. Videro una paranza, con otto uomini a bordo. Era comandata da un uomo che si chiamava Antonino Strazzera. Non era una bellezza, questo Antonino. Era brutto di viso, la pelle color del cuoio, ed era basso e largo, tanto che subito lo soprannominarono l’uomo-tonno. Ma Antonino sembrava ancora più brutto perché si era impaurito, alla vista di quella moltitudine di uomini armati che si avvicinava alla sua paranza. Era tanto spaventato che quando gli furono vicino e gli chiesero com’erano le condizioni al porto di Marsala, lui rispose balbettando e quelli non capirono niente. Ci volle un po’, per fare le traduzioni, ma alla fine la  situazione fu chiara. Garibaldi lo costrinse a prendere a bordo una cinquantina dei suoi e a fargli strada verso Marsala. Fu così che l’uomo-tonno Antonino Strazzera divenne il pilota di Garibaldi. Una volta giunti vicino a Marsala, i garibaldini si misero a urlare “Viva l’Italia!” e Antonino, che si era fatto prendere dall’entusiasmo, si mise ad urlare pure lui. Finito lo sbarco, poi, riprese la via del mare e riportò a casa i suoi marinai.
- E solo per questo gli hanno dedicato una strada? – chiede Ugo.
- Veramente no. E’ stato per quello che è successo dopo. – risponde Sarino, grattandosi il mento e guardando verso il cielo sempre più scuro.
- E che successe dopo? – chiedo io, con impazienza.
Sarino mi guarda negli occhi e sorride.
- Quello che succede agli uomini quando vedono tante armi e sentono parlare di libertà. Dopo aver riaccompagnato i suoi, decise che pure lui voleva far parte della storia. Così tornò indietro e si presentò a Garibaldi. Quello nemmeno lo aveva riconosciuto, sul primo momento. Ma poi qualcuno, vicino a lui, gli disse ridendo “E’ l’uomo-tonno, quello che ci ha guidato allo sbarco.” Allora anche Garibaldi si mise a ridere, ricordandosi di lui. Gli disse “Torna più tardi, al palazzo del Comune, dove siamo acquartierati.” Strazzera ubbidì. Non aveva mai preso un fucile in mano in vita sua, ma il coraggio non gli mancava. Anche comandare una paranza richiedeva coraggio, soprattutto quando il mare infuriava e bisognava riportare a casa la pelle. Al quartier generale gli consegnarono un po’ di soldi e gli dissero di trovarsi un posto in mezzo agli altri. Che si sappia, nessuno lo vide mai combattere. Ma forse quelli che lo videro non poterono poi raccontarlo. Fatto sta che passarono anni prima che se ne tornasse ad avere notizia. Un paio di ufficiali garibaldini, due nostalgici di quelle eroiche battaglie, tornarono in Sicilia per rivedere i luoghi a loro cari, quelli dove si erano conquistati la gloria. E passando per il porto di Trapani, videro un uomo che pescava. “Ma quello non è l’uomo-tonno?” chiese l’uno all’altro. “Ma sì, è lui, Strazzera!”. Antonino lo sentì e si voltò. Non credeva ai suoi occhi. Si abbracciarono e si riempirono di pacche sulle spalle. Poi, parlando, i due ufficiali scoprirono che Strazzera non prendeva nemmeno un vitalizio, che era stato dimenticato. Allora si adoperarono per farglielo ottenere e in qualche modo la voce arrivò fin qui, dove a titolo di risarcimento si decise di intitolargli una strada. Il problema si presentò quando giunse il momento, alcuni anni dopo, di far incidere la lastra di marmo. Nessuno si ricordava più il suo nome. Era stato dimenticato di nuovo. Così si fece una lastra provvisoria, incidendovi “Via del pilota di Garibaldi”, che doveva essere cambiata non appena qualcuno avesse potuto indicare il nome di quell’uomo. Ma non accadde mai.
- In questo paese non c’è niente di più definitivo delle cose provvisorie. – commenta Ugo.
- Forse hai ragione, ragazzo.
E’ buffo sentir chiamare Ugo “ragazzo”. Un ragazzo di cinquantasei anni, che desidererebbe solo andare in pensione.
- Domani ci racconti un’altra storia? – gli chiedo.
- Dimmi la verità, che storia stai cercando?
- Una storia vera. Una storia d’amore. Una storia bella, che possa diventare un romanzo.
- Lia non riesce più a scrivere. Le manca l’ispirazione. – gli chiarisce Ugo, come se ce ne fosse bisogno.
- Ho capito. Non è facile trovare una storia così. Ci penso. Se la trovo bene e sennò ve ne racconto una che piace a me. – dice Sarino, sorridendo. – Intanto voi mi fate compagnia e io mi diverto a raccontare.
- Va bene. Allora ci vediamo domani.
- A domani, ragazzi.

 

        Improvvisamente ripenso a don Mario. Mario e basta, per me. Mi torna in mente la nostra strana, coinvolgente amicizia. Anche lui era fuori luogo. Io ho visto le sue strade, quella su cui si era incamminato e quella che stava cercando. Mi limitavo ad ascoltarlo e poi gli parlavo di come vedevo le cose dal mio punto di vista. Parlavamo soprattutto d’amore. Un dottore in teologia ha studiato tanto l’argomento che dovrebbe sapere di cosa si tratta, invece mi guardava stupito, come se gli stessi offrendo l’immagine di un universo che aveva sempre cercato senza mai trovare. Gli parlavo della reincarnazione, del karma e di un Creatore a cui è impossibile fare distinzioni di religioni, di razze o di paesi, e che gli uomini non possono imprigionare dentro i loro dogmi. All’inizio scuoteva la testa e tentava di correggere le mie convinzioni con le sue frasi fatte. Ma, a poco poco, forse sempre meno convinto, iniziò a valutare senza preconcetti le mie stravaganti tesi. Poi scoprimmo Sai Baba. Anche lui parlava di Amore e di reincarnazione. Ne discutemmo a lungo. In quel periodo, Mario si ammalò gravemente. Fu allora che decise. Se ne andò nell’ashram di Sai Baba, in India, perché voleva conoscerlo, finché era in tempo. E’ lì che ha scritto i suoi libri, per raccontarci di lui, mentre la sua malattia miracolosamente regrediva, concedendogli il lusso del tempo di formulare le sue domande. Del fatto che la Chiesa lo abbia scomunicato, non gli è mai importato niente, ormai non parlavano più la stessa lingua. Si è sposato con Silvia e con lei ha continuato la sua ricerca spirituale, nell’ashram. E’ morto là, sicuramente più felice di quando era partito, perché aveva trovato le sue risposte. Io ne sono certa.

        Ugo bussa nel primo pomeriggio.
- Non è un po’ presto per andare da Sarino? – gli dico.
- Volevo chiederti di fare un giro con me. Sei impegnata?
- Ma no, lo sai. Sto buttando giù qualche appunto, ma niente di fondamentale. Può aspettare.
- Allora andiamo.
- Dove mi porti?
- Lo vedrai. – mi risponde, con fare misterioso.
Saliamo in macchina e ben presto usciamo dal paese. Poi ci infiliamo in una stradina che conosco bene.
- Ugo, ma mi stai portando al cimitero?
- Vicino, molto vicino.
Ugo parcheggia lungo il muro esterno del camposanto. Ci avviamo a piedi.
- Ma dimmi dove stiamo andando. – insisto.
- A San Nicola.
Il sentiero sterrato segue il profilo della costa. Il mare è calmo, ci sono fiorellini ovunque. Poi Ugo mi guida a scendere in un’avvallamento, attraverso un varco nel muro a secco  crollato. Più in là si aprono numerose grotte.
- Te le ricordi? Ci siamo stati da ragazzi.
- Sì, vagamente. In una di queste grotte ci tenevano un toro e io l’ho visto solo quando me lo sono trovato di fronte, tanto era buio. Per scappare in velocità sono scivolata lunga distesa su una massa di… per la miseria, è disgustoso! Non farmici pensare.
Ugo sta ridendo. Non riesce più a smettere, proprio come quel giorno. Quando sono uscita alla luce del sole ero imbratta di escrementi di vacca dalla testa ai piedi.
Quando riesce a riprendere fiato mi dice:
- Vedo che te lo ricordi!
- Già, grazie. Me lo annoterò. Non vorrei dimenticarmelo di nuovo. – commento.
- Me le sono studiate queste grotte, sai? E’ interessante. Qui ci hanno vissuto praticamente tutti.
- Tutti chi?
- I primi abitatori dell’isola, nel neolitico. Poi i Fenici e i Romani. In seguito, sono state rifugio dei primi cristiani che cercavano di sfuggire alle persecuzioni. Poi sono state nascondiglio dei Saraceni, quindi dei Corsari e per finire dei coraggiosi che si nascondevano dagli uni e dagli altri. E’ solo dal ‘600 che qualcuno si è deciso a costruire qualche capanna, ma prima di allora, questo è stato il solo vero paese.
- I Corsari, hai detto?
- Sì, certo. Questa è l’isola del tesoro.
- Ma dai! Mi vuoi prendere in giro.
- Assolutamente no. Qui ci ha bazzicato il fior fiore dei Corsari. Pietro Navarro, Ariademo Barbarossa, Dragut, Alì Pascia, Ugug Alì e Giuseppe Concini, detto Josef. Tutto ciò tra la fine del 1400 e il 1570, più o meno. Poi Ferrante D’Avalos, marchese di Pescara, fu nominato vicerè e si comprò l’arcipelago, iniziando una lotta senza quartiere che debellò definitivamente le scorrerie e permise agli sparuti abitanti di vivere alla luce del sole, coltivare la terra e addomesticare le migliaia di capre che scorrazzavano impunemente per l’isola.
- Caspita, che quadretto affascinante.
- Ma il più bello è che si impedì ai Corsari di tornare a riprendersi i tesori che avevano sepolto qui, e ogni tanto qualche fortunato riesce a metterci le mani sopra.
- E’ incredibile. Avranno già scavato dappertutto? Io un badile ce l’ho…
- Lascia perdere, sarebbe come cercare un ago in un pagliaio.
- Perché cerchi sempre di spegnere ogni mio entusiasmo?
Ugo mi guarda seriamente.
- Davvero?
- Ma no, sciocco. Stavo scherzando. Bisogna proprio spiegarti sempre tutto.
Intanto siamo arrivati all’ingresso di un’altra grotta. Qui però non ci entro. E’ troppo buio.
- Non vieni?
- No, questa non mi piace. – mi giustifico.
- Non è così buia come sembra.
- Non mi interessa. Non vengo.
A volte mi capita di impuntarmi senza una ragione. Seguo il mio istinto e mi sono sempre trovata bene.
Quando Ugo esce, ha i pantaloni tutti sporchi di fango.
- Che ti è successo? – gli chiedo ridendo.
- Il pavimento è viscido. Sono scivolato. Ti proibisco di ridere. – mi dice.
- Non sto ridendo. – affermo, mentre rido.
- Che dici, torniamo in paese? Magari mi cambio, prima di andare da Sarino.
- Ma certo, andiamo.
Mentre torniamo indietro, mi viene in mente di una curiosità che ho sempre avuto.
- Visto che te la sei studiata bene la storia di quest’isola, è vero che il paese è nato solo nel ‘700?
- Praticamente sì. C’erano già da tempo le fortezze e qualche chiesa, ma il paese vero e proprio è nato allora. Nel ‘700 i Pallavicino ci fecero stabilire 300 famiglie, per coltivare la terra e allevare bestiame. I discendenti di molte di quelle famiglie vivono ancora qui.
- Come la tua. – gli dico.
- E la tua. – mi risponde Ugo.
- Anche la mia? Sei sicuro?
- Pare proprio di sì. Anzi, ho trovato un documento che racconta un episodio in cui furono coinvolti un mio e un tuo antenato, insieme.
- Di che si tratta? – gli chiedo.
- Accadde nell’insurrezione del 1848. Ce l’avevano con i Borboni. I nostri avi facevano parte di uno sparuto gruppetto di idealisti con sentimenti liberali, che riuscì a disarmare le truppe regie stanziate sull’isola e a prendere possesso del Bagno penale. Non contenti, buttarono giù la statua di re Carlo III di Borbone e giocarono a palla con la sua testa, in piazza Madrice.
- Non doveva essere di marmo. – commento.
Ho sempre più forte la sensazione di appartenere davvero a questo scoglio, di sentire le mie radici sprofondare sempre più giù, all’indietro nel tempo.

        Sarino non c’è. La sua poltrona è vuota. Ci guardiamo intorno, Ugo ed io, senza capire.
- Dove sarà andato? Da qui non si muove mai.
- Sarà dentro. – dico, sbirciando nel suo antro buio, senza vedere niente.
- Lo chiamo?
- No, aspettiamo. – gli consiglio.
Dopo una decina di minuti, mentre la luce svanisce, lanciando in un cielo azzurro qualche spruzzata di rosso sul fondo d’ovatta di nuvole panciute, lo vediamo arrivare. Era al bar di Matteo, eppure, passando, non lo avevamo visto.
- Scusate, ragazzi, stavo chiacchierando con Raffaele.
Sappiamo a chi si riferisce: il telamone che sostiene il muro del bar. Probabilmente, senza di lui, tutto crollerebbe.
- Come sta? – chiede Ugo.
- Sempre uguale, sempre uguale. – risponde Sarino, sprofondando nella sua poltrona.
- Che ci racconti, oggi? – gli chiede Ugo.
- Sapete, - fa Sarino – non ho ancora deciso. Magari vi racconto di Raffaele, se mi giurate che non divulgherete mai la sua storia. Perché io gliel’ho promesso, quindi infrango solo una promessa, ma voi sareste due spergiuri. Sarebbe molto più grave.
- Senti, Sarino, non è meglio che ci racconti qualcos’altro? Non li voglio sapere i fatti suoi, se gli hai promesso di non raccontare i suoi segreti. – intervengo.
- Hai ragione, Lia. Ma per me, conoscere una storia e non poterla raccontare, è una specie di tortura.
- E tu raccontala con altri nomi, ambientandola in altri tempi, ma non a noi, che ormai siamo avvertiti.
- E va bene. – sospira Sarino. – Allora vi racconto la storia di Petronilla.
- E chi è? – chiede Ugo.
- Qualcuno che conoscete con un altro nome.
- Un altro segreto che non sai mantenere? – gli chiedo.
- No, non ti preoccupare. E’ una persona che è morta tanti anni fa, quando voi eravate piccoli.
- Allora va bene. – approvo.
Sarino mi guarda, compiaciuto e quasi divertito, come se si preparasse a farmi uno scherzo. Poi inizia.
- Petronilla nacque nel 1868 e morì nel 1968. Aveva cent’anni. Non so se sia davvero una cosa da desiderare, ma certo, se sei in buona salute e ci arrivi che la testa ancora ti funziona, perché no? A Petronilla ancora le funzionava, quando se n’è andata, e quindi per lei è stata una bella cosa. Quando nacque, però, ci fu un po’ di confusione, nel momento in cui si trattò di registrare la sua nascita. La levatrice si accorse subito che qualcosa non quadrava e glielo disse alla puerpera. “Michelina, questo picciriddu è sia maschio che femmina.” E glielo mise tra le braccia. Michelina lo guardò bene e disse “Lina, questa figlia mia è femmina. La chiameremo Petronilla. Poi la fece avvolgere nelle fasce. Petronilla era una bellissima bambina. Cresceva bene, più alta delle altre bambine, sottile e tranquilla, timidissima e un po’ indolente, fino a quando ebbe quindici anni. A quel punto Nilla, perché così la chiamavano, cominciò ad essere triste. Si rese conto che non era come le altre e a quel punto non sapeva a chi chiedere spiegazioni. Ai suoi genitori di sicuro no, e degli altri si vergognava. Cominciò a stare da sola. Usciva pochissimo, se ne andava spesso nelle grotte scavate nel tufo subito sotto casa sua, affacciate sul mare. Erano cave ormai abbandonate, di cui suo padre era stato curatolo. Adesso si occupava di altre, che erano più spostate verso il paese. Quindi lì non ci andava più nessuno ed era diventato il suo regno. Certe volte ci passava tutto il giorno. A far che, non si sa, forse sognava. Sognava una vita normale come quella di tutti gli altri, ma che a lei era negata. Dopo qualche tempo, però, il suo corpo cominciò a cambiare. Le venne una bella barba morbida, come quella dei ragazzi, e anche la sua voce mutò. Era profonda e grave, anche se morbida pure quella. Sua madre, che aveva tenuto gli occhi chiusi per tutto il tempo, non potè più fingere e le disse che ormai era chiaro che alla sua nascita si era sbagliata, Petronilla era un maschio.  Per il curatolo, che si faceva vecchio, ritrovarsi un figlio maschio era una benedizione, perché il padrone si fidava solo di lui e già gliel’aveva detto, che quando lui avesse mollato, avrebbe chiuso le cave e addio pane per tante povere famiglie. Ci mise quindi tutto il peso del suo potere per risolvere la questione. Così costrinse il notaio a fare una rettifica sui registri dove Petronilla era stata iscritta alla nascita. "Là dove si legge sesso femminile leggasi sesso maschile, là dove si legge Petronilla, leggasi Petronillo”. Il nome non era un granchè, ma tanto lo chiamarono Nillo.
- Quello di Cala Rossa? E le grotte erano quelle dello zio Nillo? – chiede Ugo.
- Ma sì, è lui. Chissà quante volte ci siete passati da casa sua e quante volte siete andati alle grotte. – risponde Sarino.
- Sì, sì. Ci andiamo spesso ancora adesso. – afferma Ugo.
- Beh, a venticinque anni, Nilla che è diventato Nillo, finalmente, molto timidamente, si riaffaccia alla vita. All’inizio fu un vero scandalo, ma poi, visto che intanto stava prendendo il posto di suo padre e tutti capirono che grazie a questo avrebbero continuato ad avere lavoro e pane, tutti decisero di tacere. Non era successo niente, era tutto normale. Il prete fu catechizzato dal vescovo, che a sua volta era stato catechizzato dal barone, proprietario dell’isola, al quale il curatolo aveva messo in mano la faccenda. Tutto risolto. Tranne che per un piccolo particolare, Nillo era sempre in imbarazzo, si vergognava, era timido e faceva fatica a stabilire un rapporto con gli altri. Ci mise un po’ di anni per adeguarsi alla situazione. Praticamente ci riuscì quando il padre morì. A quel punto lui era il nuovo curatolo ed era rispettato e stimato, anche perché le sue idee erano più liberali e grazie a lui le condizioni di lavoro dei cavatori migliorarono molto. E poi incontrò Brigida. Si conoscevano da ragazzine, ma non si erano più viste. Brigida non si era sposata. Nessun partito le era piaciuto e i genitori non erano riusciti a convincerla a sposare chi dicevano loro. Così era rimasta zitella. Brigida era una donna un po’ particolare. Basta dire che in famiglia la chiamavano Selvaggia. Faceva sempre di testa sua e aveva la testa dura come un mulo. Lei se lo ricordava benissimo di quando giocava con Nilla, si ricordava che erano amiche e che la dolcezza di Nilla aveva tante volte ammorbidito la sua sfrenatezza. Adesso che si ritrovava davanti la stessa persona, in forma di maschio, non ci mise molto ad innamorarsi di lui. E anche Nillo, che aveva goduto della compagnia della piccola Selvaggia, si ricordava che era lei quella che riusciva a scuoterla da quella specie di torpore che l’aveva sempre avvolta, che l’aiutava a superare le sue timidezze, che le tendeva la mano per strapparla alla sua solitudine. E in qualche modo anche lui se ne innamorò. Si sposarono presto e pare che furono felici, anche se non ebbero figli.
- Grazie, Sarino. Non avevo mai sentito questa storia. – gli dico.
- Però neppure le altre che vi ho raccontato. – sottolinea lui.
- E’ vero. – gli rispondo, sorridendo.

 

        Mio cugino Marco ed io abbiamo trascorso un’intera estate ad esplorare le grotte dello zio Nillo. Lui aveva appena finito gli studi e si era fatto assumere da un facoltoso medico, che aveva acquistato una grande barca a vela. Marco era entusiata. Non vedeva l’ora di iniziare ad andare per mare. Si trattava di aspettare ancora soltanto un paio di settimane.
In fondo a una grotta, avevamo appena scoperto un pozzo d’acqua dolcissima, quando, scivolando sul tufo viscido, mi ero scorticata le ginocchia. Non era raro, a quei tempi. Marco mi medicò con una cura ed una delicatezza che mi fecero grande impressione.
- Dovresti fare il medico, tu, non il marinaio. – gli dissi.
Lui mi guardò sorpreso.
- In effetti una volta volevo fare il medico.
- E cosa te lo impedisce?
- Gli studi sono lunghi. Prima di riuscire ad essere autosufficiente, ci vorrebbero troppi anni.
- Gli anni passano in fretta, quando fai una cosa che ti piace e per cui sei portato. – ribattei.
Lui meditò sulla mia frase.
- Già, forse hai ragione. Ci penserò. – commentò.
- Lo spero davvero.
- Però, andare per mare è un sogno, per me.
- Quando sarai un ricco medico come il tuo capo, ti comprerai anche tu una barca e te ne andrai per mare da padrone.
- La fai facile, tu.
- No, sarai tu che lo renderai facile. –  dichiarai.
Marco oggi è un medico affermato, possiede una barca a vela con cui partecipa alle regate e qualche volta, quando passa di qui, mi viene a trovare. Una volta mi disse che la nostra conversazione di quel giorno, alle grotte dello zio Nillo, gli si era piantata in testa come un chiodo, che non riuscì più a scacciare, finché non si iscrisse a medicina, qualche mese più tardi. Ancora si chiedeva come avessi fatto a convincerlo.
- Non sono stata io. – gli risposi. – La strada era già dentro di te.
- Però sei stata tu a mostrarmela.

        Il telamone solleva appena la mano in segno di saluto. Lo fa, a volte. Ho smesso di domandarmi perché oggi sì e per diverso tempo no. Pare mi riconosca a tratti, da qualche segno che solo lui mi vede. E quel segno, evidentemente, oggi ce l’ho impresso da qualche parte, sul viso, sulle mani, o chissà dove.
Ci passa le giornate, appoggiato con la sedia a quel muro, tanto che ormai sembra far parte dell’architettura del luogo. Quando la sedia è vuota, si sente come un buco, una mancanza. E’ un’assenza concreta. Lui e quel muro sono una cosa sola, dentro la mia mente. Sarino mi ha incuriosito. Chissà qual è la sua storia.

 

Ugo è già qui. Non riesce proprio ad aspettare “l’ora di Sarino”.
- Stai scrivendo? – mi chiede.
- Niente di importante.
- Allora andiamo a farci un giro.
Sono rassegnata al fatto che tra lui e la mia scarsa ispirazione, non mi riuscirà di prendere neppure questi pochi appunti. Ma tanto è un esercizio del tutto insignificante.
- Conosci Tonino, quello che fa il miele?
- Solo di vista. – rispondo.
- Lo andiamo a trovare, così mi faccio una scorta di propoli. Il suo è il migliore che abbia mai usato. Bastano 30 gocce 3 volte al giorno, per un paio di giorni, e spariscono l’influenza, o il mal di gola, o il raffreddore.
- Se è così efficace ne prendo un po’ anch’io. – commento, mentre usciamo.
- Ho preso il vespone. Ancora va. Ti dispiace?
- No, certo che no. E il casco? – gli chiedo.
- Vedrai che non ci ferma nessuno, passo per il porto e faccio il giro largo. Poi vado piano, non ti preoccupare.
Salgo sul vespone con quel senso di nostalgia che viene per le cose che si sono dimenticate e che ti tornano davanti all’improvviso, rammentandoti che ti sono mancate senza che te ne accorgessi.  Una nostalgia posticipata. Quante estati abbiamo trascorso con il sedere incollato a questo sellino? Era il nostro unico destriero, il nostro compagno, il nostro amico fidato, che ci conduceva ovunque volessimo. Era la nostra libertà.
- Da dove l’hai riesumato? Erano anni che non lo vedevo. Pensavo l’avessi rottamato.
- Scherzi? Lo tengo in cortile. L’ho sempre curato ed accudito ogni volta che sono tornato qui, anche per pochi giorni. E’ in ottime condizioni e ci porterà tranquillamente dove dobbiamo andare.
Sull’onda dei ricordi. Quelli che fanno fatica a riemergere, ma se gli dai un po’ di spazio, escono tutti insieme da quel piccolo squarcio nel tempo. Sono sicura che anche per Ugo sia lo stesso. E’ per questo che l’ha riportato in strada, per fare un bel tuffo nel passato. Vorrei che le sue intenzioni non mi fossero così chiare.
Arriviamo sotto la montagna e poi giriamo verso la galleria. E’ abbastanza recente. Prima si andava per la strada esterna appoggiata all’alta scogliera, che un pezzo alla volta il mare ha tirato giù, mentre dall’alto arrivavano a schiantarsi i massi che la montagna rilasciava. Era diventata troppo pericolosa. Eppure ci sono voluti vent’anni per realizzare questa galleria di poche centinaia di metri.
Arriviamo alla deviazione che va verso la pineta e infiliamo la stradina di terra battuta. Il suo amico dev’essere da queste parti. Sulla nostra destra sfilano i pini e sulla sinistra i campi incolti, disseminati di finocchio selvatico e cicoria. Ci sono un sacco di fiori, forse esplosi grazie alle piogge di fine agosto e inizio settembre. E’ tutto verde.
Ugo ferma il vespone sotto un pino. Scendiamo. C’è un basso cancelletto bianco, ad interrompere il muro a secco, più avanti. E’ semiaperto e noi lo varchiamo.
La casa è nascosta in mezzo ai pini, bianca, immersa nell’ombra, con le persiane di legno scuro, forse iroko. Tre bambini stanno giocando sotto un portico. Camminiamo su un materasso di aghi di pino. Dalla porta aperta sbuca un uomo. E’ lui, lo riconosco.
- Ciao, Tonino. Hai visto che sono venuto?
- Non ci speravo più. Pensavo fossi già partito.
- Ho rimandato di una settimana. Ti ho portato anche una mia amica. Questa è Lia.
- Ciao. Ci siamo già visti qualche volta, vero?
- Sì, ho comprato il tuo miele.
- Adesso dovrai venirtelo a prendere qui, se lo vuoi, perché non vengo più in paese con l’Ape. E’ una seccatura.
- Tonino è stufo di prendere multe. – mi spiega Ugo.
- Allora fai bene. Chi te lo fa fare? Tanto lo sanno tutti che tu hai il miele migliore.
- E’ un’antica tradizione di famiglia. L’unica differenza è che una volta portavano le api fuori, nella stagione secca. Ma adesso che il clima è cambiato, non ce n’è più bisogno. Lo vedete com’è tutto verde? Sembra di stare in Irlanda.
- Scusa, non ho capito. Che vuol dire che le portavano fuori?– gli chiedo.
- Sì, le caricavano su una barca e le trasferivano nelle campagne intorno a Marsala. Poi, con la stagione fresca, le riportavano qua.
- E’ incredibile.
- Eppure così davano il miele migliore d’Europa. Era pregiatissimo, sapete. Un nettare degli dei. Se lo contendevano tutte le famiglie regnanti e tutti i nobili che riuscivano a metterci le mani. Quello che lo rendeva così speciale è la natura che vedete intorno a noi, le piante che crescono qui, quelle di cui le nostre api si nutrono, il timo, la nipitella, il lentisco, lo zafferano, il puleggio, l’erice di Plinio, l’edera, i capperi, la cicoria, la mentuccia, il serpillo e una specie di tè selvatico, che però adesso è quasi estinto in questa parte dell’isola.
Tutta quella lista di piante, di cui forse non conosco neppure la metà, mi fa sorridere. Tonino dev’essere proprio un uomo dalla precisione maniacale.
Poi, mentre entriamo nel suo laboratorio-magazzino, ci racconta che anche le api di qui sono diverse. In effetti lo avevo già notato. Queste non sono dorate, ma rossicce. Tonino ci dice che quando sono giovani, sono scure con una specie di pelame fitto e bianco, e quando invecchiano diventano rosse. Ci tratteniamo ancora a chiacchierare per qualche minuto, poi compriamo  miele e propoli, lo salutiamo e ce ne andiamo in fretta, per non tardare al nostro appuntamento con Sarino.
Quando il nostro cantastorie ci vede arrivare in sella al vespone, ci chiede, curioso, da dove arriviamo. Glielo diciamo.
- Beh, adesso è facile andare fino a lì, con la galleria. Ma ve lo ricordate com’era prima? Quella strada tutta curve che seguiva la montagna, coi massi che venivano giù, senza darti il tempo di scansarli?
- Certo, non siamo poi tanto giovani. – risponde Ugo.
- Sapete, è accaduto un fatto davvero strano, su quella strada. Nel 1958 un contadino stava passando proprio da lì. Era su un carretto, con il figlioletto accanto, per andare a caricare fieno al Bosco, quando dalla montagna si sono staccate delle pietre e una di queste lo ha preso in pieno, ammazzandolo. Non è stato l’unico incidente su quella strada. Ma quello che è davvero incredibile è che, precisamente cinquant’anni dopo, quel ragazzino che intanto era diventato un uomo maturo, si sia trovato in motorino sotto la galleria e che alla stessa altezza in cui era accaduto l’incidente al padre, un’auto l’abbia travolto, uccidendolo. Stesso luogo, a distanza di cinquant’anni esatti, l’uno sulla strada esterna, l’altro nella galleria. Il destino è destino. – conclude Sarino.
- Tremendo! – esclamo, mentre un brivido mi corre lungo la schiena.
- Mi sono sempre chiesto perché il Bosco si chiami così, se non c’è nemmeno un albero. – commenta Ugo.
- Questa è storia vecchia. Prima che l’isola fosse abitata, tutta quella parte al di là della montagna era ricoperta di boschi. Nel ‘600 i Pallavicino divennero padroni dell’arcipelago e, da principio, sfruttarono soprattutto l’abbondanza di legname, approfittando dei forzati di Castel San Giacomo, come forza lavoro gratuita. Una volta abbattuti gli alberi, quella parte dell’isola divenne un’arida pietraia.  A quel punto decisero di bonificarla e renderla coltivabile. Sempre sfruttando la manodopera gratuita del Bagno penale, fecero raccogliere tutte le pietre, con cui nacquero gli infiniti muri a secco che ancora oggi caratterizzano i confini tra un campo e l’altro. Poi ci trasferirono un po’ di contadini che venivano per lo più da altri luoghi della Sicilia e dalla Spagna, in tutto una sessantina di persone. E all’inizio del ‘700, quando ormai era chiaro che la terra era fertile, ci fecero arrivare altra gente. Cominciarono a costruire case, stalle, chiese. Insomma, allora divenne davvero un paese, dove convivevano contadini, allevatori, pescatori e tonnaroti. A quei tempi, la difesa delle isole spettava alla corona, che vi fece arrivare i soldati spagnoli con l’artiglieria. Poi arrivarono due preti, il sindaco, un notaio, il capitano di giustizia, un addetto al fisco e tre giurati.  A quel punto era diventato un paese vero e proprio, che è sempre cresciuto, fino alla seconda guerra mondiale. Da allora è in declino. Adesso gli abitanti sono la metà di quanti erano nel 1950.
- In compenso si quintuplicano d’estate. – commento.
- Sì, questo è vero. Adesso il pane di questo paese non è più dato dai campi coltivati, dall’allevamento o dalla tonnara, che del resto ha chiuso definitivamente. E’ dato dai turisti.
- Ma non è sufficiente. Così si arricchiscono in pochi, mentre molti sono costretti ancora ad emigrare. – replico.
- Per forza, non c’è più nemmeno lo sfogo dello Stabilimento. – aggiunge Ugo.
- Lo Stabilimento per la lavorazione del tonno è stato un esperimento ben riuscito. Peccato che sia andato in malora, per mancanza di tonni. Ma lo sapete che è stato il primo di questo tipo in Italia? Eravamo all’avanguardia! Nel 1861, Giulio Drago, che era un genovese, ottenne in gabella dai Pallavicino le tonnare. Fu lui ad avere l’intuizione, per primo, che se ne potevano sfruttare le potenzialità  industriali, costruendo uno stabilimento per la conservazione del tonno.
- Perché lo chiamavano Torino? – gli chiedo.
- I muratori che lo costruirono erano tutti torinesi o piemontesi, e così venne soprannominato Torino. E poi, in seguito, anche per un altro motivo. Per l’inscatolamento manuale si preferivano le donne, che avevano mani più piccole, ma le donne di qui, all’inizio, rifiutarono di lavorarci. La tradizione voleva che restassero in casa, forse per un retaggio della cultura araba, chissà. Quindi, per un primo periodo, anche le operaie vennero fatte venire da Torino. A quel punto non sembrò più strano a nessuno che una donna potesse guadagnarsi il pane fuori casa e, pian piano, anche le nostre donne ci andarono a lavorare. Per agevolarle, si istituì all’interno dello stabilimento persino un asilo, che ospitava i figli di quelle donne. Veramente una soluzione all’avanguardia. Avremmo dovuto esserne orgogliosi. Ma all’epoca forse la gente nemmeno se ne rendeva conto.
Ormai si è fatto tardi. In cielo brillano le prime stelle ed è ora che lasciamo in pace il nostro amico.
- Abbiamo saltato la storia d’amore. – dice Sarino – Sarà per domani.
- Va bene lo stesso. Ci hai comunque raccontato cose molto interessanti.
- Lo so, ma tu, Lia, di queste storie non te ne fai niente.
- Non è vero. Potrebbe comunque essere un’ambientazione per un racconto, se un giorno dovessi decidermi a scrivere qualcosa.
- Lo farai, Lia. Sono sicuro che lo farai. – afferma Sarino.
C’è una strana espressione nei suoi occhi, che assomiglia a una promessa. Ma è una promessa che non può farmi.

        Ho imparato ad ignorare le spiegazioni, così come i silenzi. Guardando oltre, vedo attraverso di essi. In tal modo le intenzioni non mi sfuggono. Non valuto mai gli esseri umani con arbitrarie e sbrigative sentenze. Al contrario, io aspetto, perché so che la verità che celano dentro, prima o poi, non può fare a meno di affiorare, sulla spinta del flusso emotivo. Le parole che Ugo pronuncia sono dettagli trascurabili, ciò che si rivela più significativo, mentre mi parla, è come si muove, dove guardano i suoi occhi, il tono della voce, come si muovono i muscoli del suo volto, a quale distanza si pone da me. Le apparenze non mi ingannano, come le parole vorrebbero fare. Ugo sta tentando di sviarmi con argomentazioni generiche, ma io so giudicare correttamente il fumo che mi getta negli occhi. Del resto, a questo punto, non ho più rimproveri da muovergli, non ho recriminazioni, non cerco rivalse. Ormai sono guarita, lontana. Non può più raggiungermi. E tutti i suoi tentativi di attrarmi di nuovo nella sua orbita cadono nel vuoto. Non sono più disposta a fare da sestante per chi ha perso la rotta.

 

        Alla fine la mia curiosità ha preso il sopravvento. Sarino è stupito di vedermi davanti a lui alle nove del mattino, senza Ugo, ma con in mano un sacchetto di dolci di pasta di mandorle. Glieli offro e poi gli porgo un succo di frutta.
- Passavi di qua? – mi chiede.
- No. Volevo chiederti una cosa, se non ti disturbo. Devi lavorare?
- No, il tufo può aspettare. Forse so anche quello che vuoi chiedermi.
- Che cosa?
- Indovino?
So che può farlo. Anzi, so che in qualche modo riesce a leggermi dentro. Annuisco, ma con aria di sfida.
- Vuoi che ti racconti la storia di Raffaele.
- Ecco, sì, ma magari chiamiamolo Roberto, ti va?
- Non ti sembra di essere un’anticchia ipocrita?
- E’ un difetto che posso sopportare. Tu chiamalo Roberto.
- E va bene. Ma perché non vuoi farla sentire anche ad Ugo, la sua storia?
- Non lo so. Davvero non lo so.
- Beh, comunque hai fatto bene, perché non dovrei raccontarla mancu a tia. Mi giuri che non ne parlerai cu nuddru?
- So mantenere un segreto. –  affermo, serenamente.

        Sarino ci sa fare con le storie. Adesso mi dispiace di essere stata tanto curiosa. Avrei fatto meglio a farmi gli affari miei, perché ogni volta che rivedrò il telamone, non potrò fare a meno di dispiacermi per lui, e per me, accomunati come siamo dal disastroso risultato finale: siamo entrambi soli. Entrambi abbiamo abbandonato le speranze tanto tempo fa. Ammesso che oggi Raffaele vedesse passare la persona che ha perduto, forse non la riconoscerebbe. Io invece la vedo, ma è come se si trattasse di qualcun altro.

 

        Sono stati belli, i tempi del vespone. Ero bella anch’io. Anzi, bellissima. Adesso riesco ad ammetterlo senza difficoltà, ma allora mi vergognavo. Perché una persona dovrebbe vergognarsi di essere bella? Forse perché è completamente intrappolata nella densa resina della sua incomprensibile timidezza. Ero bellissima, sì, ma totalmente dedita alla missione di farlo dimenticare a chiunque mi guardasse. Devo esserci riuscita benissimo, perché Ugo mi ha preferito Mara. Eppure era con me che si confidava, era da me che cercava conforto, ero io che lo aiutavo, in qualunque frangente. Amica e complice. Quando mi ha confidato di essersi innamorato di lei, ha chiesto il mio aiuto per conquistarla. E’ giusto. A chi altri doveva rivolgersi? Non ero io la sua amica, la sua complice?
L’amore che diventava dolore, la sofferenza che mi stordiva, trasformandomi in una statua di pietra, tanto fulmineamente che per un momento il tempo ha invertito il senso della sua direzione. Certo che ero sua amica.
Fa niente se mentre parlava il cuore mi si spaccava e si  dissanguava. Fa niente se il mio pallore passava inosservato, se il mio fiato non raggiungeva più i polmoni e le gambe non avevano più la forza di sorreggermi.  Sono stata un’amica fino in fondo.
Il mio compito è stato molto facile. A Mara, Ugo era sempre piaciuto.
Quello che Ugo ha lasciato dentro di me, tuttavia, non ha mai smesso di avvelenarmi. E non sono mai riuscita a trovare un antidoto.

        Ugo è partito. Mi ha promesso di scrivermi una mail appena arriva. Per me è praticamente una minaccia. Mi ha anche chiesto di non aspettare troppo a rispondergli. Gliel’ho promesso, ma poi me ne sono pentita. Questo ritorno di fiamma della nostra amicizia mi sembra assurdamente grottesco. Cercherò di mantenere i contatti al minimo, solo per educazione. Non posso concedergli altro.

 

        Sarino mi sorride affabilmente. Siamo noi due soli, sotto il portico ormai quasi buio. I ciuffi delle palme ad alto fusto si stagliano neri in uno sfondo azzurro cupo. I suoi occhi mi cercano l’anima.
- Perché vuoi scrivere una storia d’amore? – mi chiede.
- Forse perché non l’ho vissuta. – gli rispondo, sinceramente.
- Non è vero. Scava dentro di te e la troverai. Ne troverai a decine.
- Come lo sai?
- Nessuno vive senza amare. E ogni genere d’amore è sempre amore.
Guardo questo mio nuovo amico, che sembra emanare la saggezza del maestro Jedi di Guerre Stellari, e il mio paragone incoerente mi fa sorridere.
- Tu puoi scrivere quello che vuoi. Quando avrai finito, ti accorgerai che dentro c’è una storia d’amore.
- Sono certa che tu abbia ragione, ma non riesco neppure ad iniziare.
- Quando sarà il momento, lo farai. Basterà una frase, una sola. E magari non sarà neanche tua. Sarà una frase che hai letto,  che qualcuno ti ha rivolto,  che avrai sentito guardando un film, o che avrai trovato dentro a un bacio Perugina. Non importa. Ti verrà in mente quella frase e da lì comincerai.
- Grazie, Sarino. Ti voglio bene. – gli dico, abbracciandolo.

        Oggi penso che avrebbe potuto andarmi meglio, se non fossi stata sedotta dal lato oscuro del mio passato, per tutti quegli anni, inconsapevolmente. E’ stato un tempo lunghissimo, ma per la notte nera dell’anima il tempo non esiste. Puoi solo aspettare che passi, ma non sai quando, perciò è inutile che guardi l’orologio. Anche la perversione di non volermi osservare, di scacciare i pensieri, di tentare con ogni mezzo di restare in superficie, è stata un grosso ostacolo alla mia guarigione. Fino a dove bisogna spingersi, per guarire, per sfuggire al dolore, per tornare tutti interi? Nel mare agitato dei miei sentimenti ho preferito nuotare in superficie, senza mai guardare sott’acqua, per il terrore di vedere cosa c’era sul fondo, mostri marini, alghe assassine, pericoli in agguato. L’amore è sempre il risultato di un lungo viaggio e di una grande esperienza. Ma l’esperienza, purtroppo, è un ombrello di cui sono riuscita a disporre solo quando ormai aveva smesso di piovere. E per giunta, ci sono arrivata per vie traverse, perché per me, sfortunatamente, la linea più breve tra due punti è il labirinto. E proprio io voglio scrivere d’amore? Risulterei ridicola.
Per trovare le parole, bisogna essere silenziosi. Per sondare nel profondo, bisogna mantenersi immobili. Scrivere dovrebbe essere scavare nel silenzio, indagare in quel vuoto, fino a scoprire la luce. Ma ciò che io vedo ora si limita alle scintille di cui si compone. Per me, soltanto quelle sono  descrivibili, e se anche riuscissi a descriverle tutte, non rappresenterebbero mai quella luce. Questa consapevolezza mi impedisce di scrivere come vorrei?
 
        Ne ho fatte di cose strane nella vita, ma una come questa, mai. L’aereo sta per atterrare ad Anchorage.
Sono venuta in Alaska a cercare Biagio. L’indirizzo me l’ha dato Sarino. L’ultimo indirizzo conosciuto. Che ci faccio qui?

 

        Il taxi mi lascia all’indirizzo. Il portone è di fronte a me. Ai lati del portone, ancorate al muro, due panche di pietra. Su quella di destra è seduto un uomo, infagottato in un piumino blu col cappuccio rivestito di pelliccia. Ha in testa una bandana rossa, uguale a quella che porta Raffaele. A ben guardare, gli assomiglia pure. L’uomo mi segue con sguardo indifferente, ma non stacca gli occhi da me. Io mi avvicino al portone e studio la lista dei nomi sul citofono, quindi, dopo averli scorsi due volte, mi lascio travolgere dal panico. Qui non c’è nessun Biagio. Mi guardo intorno, delusa e smarrita. E adesso che faccio?
L’uomo mi fissa. Io lo fisso. Poi gli dico solo “Biagio?”

        Biagio per fortuna non è andato da nessuna parte. E’ rimasto qui per tutti questi anni. Undici. E’ contento di parlare con qualcuno la sua lingua. Mi fa salire nel suo appartamento. E’ molto ordinato, piuttosto essenziale. C’è una foto di Biagio con Raffaele, in una cornice di legno. E’ la prima cosa che mi salta agli occhi. Pochissimi altri oggetti ornamentali sono distribuiti su una libreria ed appesi alle pareti bianche. Una barchetta di legno, un enorme amo da pesca, un piccolo timone di ottone, sulle mensole. Un poster di Che Guevara, una maschera tribale africana e il lucido scheletro di un’impressionante mascella di squalo, appesi ai muri. Li osservo mentre ci togliamo i giacconi. 
- Qual buon vento ti porta? Perché mi cercavi? – mi chiede Biagio.
- E’ molto difficile da spiegare. Sono venuta per Raffaele, ma lui non lo sa.
Biagio spalanca la bocca, stupito.
- Che significa? – mi chiede, una volta riavutosi.
- Mi hanno raccontato la sua storia e qualcosa mi ha spinto fin qui, per seguire il resto, quello che solo tu puoi raccontarmi.
Mi rendo conto di essere stata incredibilmente vaga e nello stesso tempo eccessivamente cruda.
- Perché ti stai facendo i cazzi miei? – mi chiede Biagio, brutalmente.
- Scusami. Lo so, ti potrà sembrare assurdo, ma sto scrivendo un romanzo sulla vostra storia. Vorrei che fosse il più fedele possibile alla realtà.
- Sei pazza?
- Non credo. Vorrei solo finirlo con la tua versione dei fatti.
Gli nascondo che in realtà il mio è un romanzo che non ho neppure iniziato.
Biagio si siede. Non mi invita a fare altrettanto, quindi resto in piedi davanti alla libreria, decisamente imbarazzata.
- E’ una storia a cui non ripenso volentieri. – afferma, platealmente smentito dalla foto che ho appena visto e che, se fosse vero, non sarebbe lì.
- Mi dispiace. Forse farei bene ad andarmene.
- No. Resta. Ormai sei qui.
Biagio si toglie la bandana e la getta sul divano accanto a sé. Si passa le mani tra i capelli. Sono biondi, ondulati, una massa compatta di ciocche sfumate, tra le quali esplodono i lampi di parecchi fili bianchi. Ha un naso diritto e affilato, gli occhi di un blu profondo, baffi e pizzetto a incorniciare le labbra piene. Il suo viso è cesellato di rughe, che lo identificano con certezza come uomo di mare. Sono i solchi della salsedine, del sole e del vento che hanno giocato insieme alla sua pelle.
- Ti va una birra? – mi chiede.
- No, grazie, è troppo presto per me.
Biagio sorride. Poi si dirige in quella che suppongo sia la cucina e ne torna con una birra per lui e uno strano bicchiere di cartone, che agita violentemente mentre mi si avvicina. Me lo porge e infila una cannuccia nel coperchio di alluminio. Leggo l’etichetta: è caffè. Gli sorrido. Non oso pensare al sapore che avrà questa sbobba, ma è stato gentile, quindi lo assaggio. Non è cattivo come pensavo, inoltre è caldo. Lo bevo, un po’ stupita, mentre Biagio si attacca alla bottiglia.
- Che cosa vuoi sapere? – mi chiede, infine, paziente.
- Perché non hai mantenuto la promessa?
- Quale promessa? – mi domanda, perplesso.
- Quella che hai fatto a Raffaele, di raggiungerlo non appena ti fosse scaduto il contratto d’imbarco.
- Stai scherzando? E’ lui che se n’è andato senza neppure dirmi dove. E’ lui che ha chiuso con me.
Adesso è il mio turno di essere stupita.
- Non è la versione che ti aspettavi, vero? – aggiunge.
- No, infatti. Raffaele dice che ti aspetta ancora e che un giorno o l’altro lo raggiungerai. Passa le giornate seduto davanti a un bar, guardando tutti quelli che passano e spera che un giorno, tra tutta quella gente, ci sarai anche tu.
- Ma è pazzo? Io non so nemmeno dove sia.
- A questo posso porre rimedio.
- Non lo voglio sapere. Mi ha mollato qui da solo, undici anni fa. Perché dovrei andarlo a cercare?
- Già, perché?
Mi domando perché Raffaele racconti questa storia. Perché l’abbia raccontata a Sarino. E’ solo una menzogna. Qui non c’è nessuna storia d’amore. Mi rendo conto che ho fatto un viaggio inutile.
- Dove sta? – mi chiede Biagio, che ci ha ripensato in fretta.
Glielo dico.
Biagio si spalma sul divano e mi fa un gesto che significa “vieni a sederti”. Mi siedo accanto a lui.
- E’ stato bello. Siamo stati insieme sette anni, a pesca di merluzzi. Quando eravamo a terra, ce ne andavamo in giro per i parchi qui intorno o su in montagna. Quando ci stancavamo venivamo qui. Io lo amavo molto. Ero convinto che avremmo continuato così per sempre. Invece, un giorno, ha fatto fagotto. “Devo tornare a casa.” mi ha detto. “Ci vediamo.” Tutto qui. Non mi ha detto dove e non mi ha detto quando. Tutto qui, capisci? Come avrei potuto cercarlo? L’ho aspettato. L’ho aspettato per anni, ma poi ho capito che non l’avrei più rivisto. Si è dimenticato di me. Avrà trovato qualcun altro.
- No. Non ha nessuno. Dice che aspetta te.
- Ti rendi conto che è pazzo?
- Qualche dubbio l’ho avuto. – rispondo, sorridendo.
Dopo un lungo momento di silenzio, Biagio mi dice:
- Una volta mi ha detto che niente avrebbe potuto separarci. Ed io gli ho risposto che al mondo esistono mille cose che possono separare le persone che si amano. Nonostante la loro volontà.
- Dici che ha voluto metterti alla prova?
- No, è solo pazzo. E di sicuro non gli frega un cazzo di me.
- Può darsi, sì, credo che tu abbia ragione. Però è strano. Sta sprecando la sua vita. Che senso ha?
- Chiedilo a lui, quando torni. Io non ti posso rispondere.  
Decido che è giunta l’ora di alzare i tacchi. Ho già fatto abbastanza danni. Vedo sul viso di Biagio un’espressione che prima non c’era e che fa male.
- Scusami. Non avrei dovuto venire qui a romperti le scatole. Mi dispiace.
- No. Hai fatto bene.
Ci salutiamo davanti al portone, dove gli chiedo indicazioni per tornare in albergo. Biagio mi sorride e decide di accompagnarmi. E’ una breve passeggiata, ma fa un freddo cane.
Davanti all’albergo mi chiede quanto penso di trattenermi. Mi saluta ancora e mi dice che, forse, ci rivedremo. Non so che cosa significhi, ma, dopotutto, potrebbe voler dire che non ho viaggiato invano. 

 

        L’isola mi accoglie con il suo peggior aspetto autunnale, vento di maestrale, pioggerella a tratti, nuvole gravide e basse che nascondono il sole. Sono tornata solo per chiudere la casa. Me ne ritorno al nord. Ma prima, cosa che non ho mai fatto, vado da Raffaele. Biagio mi ha dato una cosa per lui. Non so cosa sia. So soltanto che gliela consegno in silenzio.
Lui mi guarda con espressione interrogativa, ma non c’è bisogno che gli dica nulla. Lui capirà, se vuol capire. Gli faccio un cenno di saluto con la mano e mi allontano. Entro al bar e ordino un caffè, mentre, con la coda dell’occhio, sbircio fuori, nel riflesso della porta a vetri aperta, che lo inquadra perfettamente come in uno specchio. Raffaele scarta il pacchetto e ne emerge quella che da qui mi sembra una barchetta di legno. Forse è proprio la stessa che ho visto sulla libreria di Biagio.
Raffaele se la rigira tra le mani per qualche istante, poi si alza di scatto dalla sua postazione e sparisce. Mi dispiace di non aver potuto vedere l’espressione del suo volto.

        Ho fatto un giro di saluti presso amici e parenti. Da come mi parlano, capisco che ognuno ha di me un concetto diverso e per lo più errato. E’ deprimente.
Io non esisto. Sono la proiezione olografica che ciascuno trasmette all’esterno, traendo l’immagine di me dai propri desideri, dalle proprie ansie o dai propri preconcetti.
In questi giorni non ho più visto Raffaele. Appoggiata al muro, la sua sedia resta vuota. Sembra il monumento di un’assenza. Sarino mi conferma che l’hanno visto partire con una grossa valigia.
Parto anch’io. Piove. Ormai qui è arrivata la stagione morta.

 

        Eccomi a Milano. Piove anche qui. Una volta amavo la pioggia. L’affrontavo senza ombrello, con un cappello buffo e sbilenco calcato sulla testa e un’impermeabile lungo quasi fino ai piedi. Mi piaceva passeggiare sotto la pioggia. C’erano persino dei giorni in cui la preferivo al sole. Come il buio. Mi piaceva camminare da sola nel buio delle strade semideserte, in inverno, con le scarpe che non facevano rumore, quasi come un fantasma che rivisita i luoghi un tempo amati. Se c’era la nebbia, ancora meglio. Ero così, una volta. Adesso invece mi rintano in casa. Non guardo nemmeno dalle finestre e, a volte, non so dire che tempo faccia fuori. So se fa freddo solo perché dormo con la finestra aperta.
Ho appena il tempo di posare le valigie nel corridoio, che già squilla il telefono. Io lo odio, il telefono. E’ Ugo. Mi domando se lo odierei di meno nel caso che all’altro capo del filo non ci fosse lui.
- Allora, perché non rispondi alla posta elettronica?
- Sono appena tornata. Ti avrei risposto, presto o tardi.
- Ma è da una settimana che aspetto.
Come al solito, tutto gira intorno a lui, ai suoi desideri, alle sue necessità. E’ il resto del mondo che deve adeguarsi.
- Sono stata in giro e non mi sono portata il computer.
- E dove sei stata di bello?
Non ho alcuna intenzione di parlargli di Raffaele, di Biagio o del colpo di testa che mi ha portato in Alaska. Improvviso.
- A Firenze.
- Bella. Hai fatto bene. Peccato per tutta quella pioggia.
Quale pioggia?
- Sì, senti, devo salutarti, adesso. Ho un sacco di cose da sistemare. Scusami, sai. Ti scriverò.
- Va bene. Allora, a presto.
Presto e tardi sono avverbi vaghi, indefiniti. Non sono un appuntamento, sono soltanto un imprevisto remoto. Un forse appuntato nel tempo, un mai che tra breve lo sostituirà. Non sarò più il sestante di Ugo. Dovrà trovare la sua rotta e solcare altri mari, senza di me.

        Una mail da Biagio. Adesso sì, che mi sento meglio. Raffaele è tornato da lui. Biagio mi ringrazia. 
Una storia a lieto fine? Si amano ancora? Mi piacerebbe saperlo. Ma in fondo, perché?
Tanto non scriverò mai questa storia. Non ho esperienza di barche da pesca e tantomeno di pesca al merluzzo. Non ho visitato i parchi o le montagne intorno ad Anchorage, in cui loro due hanno vissuto insieme. Ho visto solo il mio albergo, per tre notti, e ho mangiato male in quattro ristoranti diversi con quattro menù differenti. Come farei a raccontare la storia del loro amore, senza avere l’ambientazione giusta? E poi so talmente poco di loro. Forse so soltanto quanto si assomiglino. Potrei inventarmi qualcosa, ma non sarebbe la verità. Mi rendo conto che l’unica storia vera, che potrei raccontare senza alcun problema, è la mia, sebbene non sia neppure una storia d’amore. Non di quelle a lieto fine, comunque.
Ma è poi davvero così necessario un lieto fine? E tutti vissero per sempre felici e contenti. Chi? Quando? Impossibile. Anche la storia di Ugo e Mara sembrava una storia a lieto fine e invece è finita e basta.
Per anni non ho più avuto alcun rapporto con loro, per fortuna. Mi pesava anche solo averli davanti agli occhi.
Io l’ho odiato Ugo. L’ho odiato profondamente, soprattutto per  aver fatto finta di non capire. So che Ugo era perfettamente consapevole del mio amore per lui, eppure ha trovato comodo fingere che fossi soltanto un’amica, spingendo la sua perfidia fino a chiedermi di aiutarlo con Mara. Smaltire tutto quell’odio è stata la mia unica occupazione per moltissimo tempo. Per questo il suo tentativo di riavvicinarsi a me, come se nulla fosse, adesso mi può lasciare del tutto indifferente. Ancora oggi, fingere da parte sua che non sia accaduto nulla, non è soltanto ipocrita, è addirittura sconsiderato.  Non si può pretendere di tornare indietro.
Nemmeno un defibrillatore potrebbe far ripartire il mio cuore.

 

        Voltandomi indietro a guardare il passato, vedo finalmente come stanno le cose. Mi sono creata il mio santuario. Offro oboli alla mia sacra libertà. So di non essere come tutti gli altri, ma questo non mi rattrista più. Ho la mia via. Dove gli altri vedono la realtà, io ne vedo diverse. Non sono che bolle dentro ad altre bolle. Livelli diversi, sempre più sottili, in cui la realtà mi si mostra. Attraverso questi strati bisogna saper guardare. Io li vedo, molti altri no. L’amore per me non è più quel sentiero di dolore e follia che era un tempo. Grazie a Sarino ho capito. Io vedo bivi ed incroci, dove gli altri vedono una strada soltanto, che però spesso non è la loro. Il mio dono è sempre stato quello di essere un sestante per chi aveva smarrito la rotta. Oggi, finalmente, riesco ad accettarlo. Il mio compito richiedeva di avere un cuore aperto, una mente libera da preconcetti e la libertà di muovermi com’era necessario. La solitudine è stata la mia forza, il mio baluardo, il mio propulsore. Questa consapevolezza mi ha regalato la serenità. Forse, adesso, potrei imparare a scrivere.

        Lorinda mi ha comunicato una pessima notizia. Stanotte Sarino è morto, all’improvviso.
Nessuno raccontava le storie come lui.
Per fortuna, come diceva Tacito, la vera tomba dei morti è il cuore dei vivi. E Sarino vivrà sempre nel mio cuore.
Senza il suo cantastorie che scolpiva il tufo e senza il telamone che sosteneva il muro del bar di Matteo, quell’isola non sarà mai più la stessa.

 

        Non ho voglia di scrivere o parlare, ora. Ho solo voglia di tacere. Il silenzio! Il beato silenzio che affonda nella mia stessa mente, e mi fa il vuoto dentro, e intorno, come se non appartenessi più a nessun mondo. Come se questa vita, tutta intera, si fosse ridotta ad un sogno.
Ma chi è il sognatore?
Giungo al punto centrale, al punto da cui nasce tutto, quell’unico punto incapace di porsi domande.

Finalmente, il SILENZIO…

 

… e dal fondo del silenzio, dopo un tempo che mi appare infinito,  emerge una frase.
L’unica frase da cui posso iniziare:

Ero così vicino a te che ho freddo vicino agli altri.

 

                                                            Paul Éluard